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L’Impero della normalità e le politiche scolastiche discriminatorie

“L’Impero della normalità. Neurodiversità e capitalismo” di R. Chapman (Mimersis, Milano 2024, tr. it. di G. Dina, introduzione a cura del Gruppo Ippolita), sulla base dell’esperienza personale dell’autore, critica duramente il sistema galtoniano ed eugenetico delle scuole inglesi, che discrimina e penalizza le disabilità e le diversità razziali

Robert Chapman, autore de L’Impero della Normalità Neurodiversità e Capitalismo, oltre a essere un collega per cui nutro massima stima, è ed è stato anche un mentore che ha illuminato molte delle idee radicali sviluppate nella mia carriera. Avere la fortuna di (ri)leggere il suo libro nella mia lingua madre è stata davvero un’esperienza che ha arricchito l’inizio della mia estate. La rilettura in lingua italiana è avvenuta a una giusta distanza dalla società turbocapitalista inglese, che vivo quotidianamente come cittadina, accademic e madre, e che mi suscita spesso sdegno e rabbia. Per coincidenza, ho riletto il testo di Chapman a pochi giorni dalla conclusione di Technofeudalism. What Killed Capitalism di Yanis Varoufakis. Questa sequenza di letture mi ha permesso di stabilire un continuum storico, socioeconomico e politico fra i due volumi. Infatti, dopo aver letto l’introduzione e il primo capitolo de L’Impero della normalità, ho pensato di scrivere a Robert per suggerirgli una seconda edizione che considerasse l’argomento centrale di Varoufakis: la violenta trasformazione sociale in seguito alla transizione da capitalismo industriale a cloud capital. In altre parole, la morte del capitalismo moderno e il ritorno di un sistema feudale fondato sull’intelligenza artificiale. Nell’impero del cloud capital, direbbe Varoufakis, Spotify, Apple e Google costituiscono una nuova forma di potere con un impatto significativo su come la nostra identità soggettiva è costruita e percepita socialmente. Per identità soggettiva intendo qui anche i suoi demarcatori: razza, disabilità, linguaggio, orientamento sessuale, status migratorio e così via.

L’Impero della normalità comincia con la storia personale di Robert, inserita nel quadro storico-politico dell’Inghilterra dei primi anni Novanta. Questo suo posizionamento fa immediatamente luce sulla durezza e gli struggles della classe proletaria inglese.

Robert racconta un’oppressione all’intersezione di classe e disabilità vissuta su più piani, quello familiare, scolastico e sociale, e una quotidianità lontana dalle vetrine rilucenti e dai quartieri eleganti del centro di Londra. Leggendo dell’adolescenza di Robert, della sua neurodivergenza e dello spaccato socioeconomico dell’Inghilterra di quel tempo, ho provato un forte senso di angoscia. Lo stesso che provo camminando per certe strade di Birmingham, quando saluto giovani e meno giovani resi senza tetto, a riparo vicino all’ingresso dei supermercati. Robert è stato uno di loro. Ci potrebbe essere un Robert nei ragazzi che vedo sulla High Street. Robert avrebbe potuto essere quel giovane reso senza tetto e ucciso da una gang a cinquecento metri da casa mia lo scorso giugno – in un quartiere residenziale a sud di Birmingham.

Tessendo magistralmente personale, sociale, e politico, Chapman mostra al lettore l’aspetto meno idilliaco dell’Inghilterra. Carpisce e ben documenta le fondamenta delle crisi sociali attuali, e come la marginalizzazione delle persone diverse e con disabilità siano andate peggiorando a seguito dell’introduzione di misure di austerità. Misure che hanno portato alla chiusura di luoghi giovanili di aggregazione, centri culturali e biblioteche di quartiere.  Dopo aver “toccato il fondo”, e aver vissuto come neurodivergente per strada, Robert ha avuto la possibilità di accedere a un sistema di welfare che gli ha permesso di cambiare radicalmente la direzione della sua vita, fino al raggiungimento di un ruolo accademico. Questo sistema di welfare è stato decurtato e in certi casi completamente smantellato, dopo più di una decade di governo conservatore e di una leadership laburista fra le più imbarazzanti della storia inglese. Perciò, mi viene da chiedere: chissà cosa sarebbe accaduto a Robert se avesse vissuto la sua adolescenza e la sua neurodiversità oggi?

Nel recensire questo volume vorrei concentrarmi su due nodi centrali che caratterizzano il lavoro di Robert: (I) l’intersezione fra disabilità, classe, genere e sessualità, all’interno di un particolare assetto economico, dove non si deve più guardare all’individuo come “problematico”; (II) l’analisi storico-economico-sociale del movimento dell’eugenetica e la sua pervasività nell’architettura del sistema scolastico inglese. Dopo aver messo in risalto questi potentissimi aspetti contenuti nel libro, concludo con alcune indicazioni relative a cosa avrebbe potuto approfondire meglio sul modello basagliano in Italia. Questione che, se affrontata più ampiamente, avrebbe potuto- forse- scuotere le coscienze dei grandi sostenitori delle scuole speciali inglesi.

Nel ripercorrere lo sviluppo e le trasformazioni dei vari modelli della disabilità (da quello medico, a quello sociale, fino alla nascita del movimento per la neurodiversità e i disability studies e contraddicendo Il modello medico, che localizza la disabilità all’interno dell’individuo con menomazioni biologiche, ignorando i contesti macro-sociopolitici di razzismo, abilismo e altri sistemi interconnessi di oppressione, Chapman descrive l’intersezione fra disabilità, classe sociale, razza e genere enfatizzando come costruzioni sociali e discorsive della normalità siano dettate da modelli economici. Egli ci ricorda che la normalità è costituita da identità aventi tali caratteristiche: uomo, bianco, di classe media, non disabile, eterosessuale, cis-gender e cristiano. Tutti i soggetti con demarcatori di identità diversi da questi sono chiamati a interiorizzare questo modello di normalità e a essere proattivi e produttivi nella riproduzione di essi. Così facendo, Chapman invita il lettore a considerare l’abilismo come una forma di oppressione sistemica e non riducibile solamente a episodi grossolani e mondani di discriminazione. Robert smaschera brillantemente lo scopo delle ultime invenzioni del capitalismo: l’illusione della libertà, la meritocrazia, l’uguaglianza e l’inclusione.

Il capitalismo, con le sue trasformazioni anche in cloud capital, non ha mai voluto soggetti effettivamente liberi, inclusi ed eguali. Opera solamente includendo certi gruppi, per giustificare la creazione di politiche inclusive, e contemporaneamente opprime altri.

Questa cruciale riflessione si allinea e fortifica il concetto di “fantasia confortante di inclusione” che ho elaborato (Migliarini & Stinson, 2021). La stesura di politiche sull’inclusione educativa, la nascita di commissioni per la diversità, l’equità e l’inclusione nelle istituzioni universitarie, ci illudono di una messa in pratica dell’inclusione. Quando in realtà, esse costituiscono dei dispositivi di facciata che nascondono il perpetuarsi di oppressioni sistemiche. Basti pensare che in Inghilterra, nell’anno accademico 2024/2025, il 91% degli insegnanti è bianco e britannico, e solo lo 0,1% dichiara di avere una disabilità (DfE, 2025). Robert, dunque, sprona il lettore a espandere il discorso di inclusione educativa e sociale, riconoscendo l’impatto che forze come capitalismo, colonialismo e imperialismo hanno su di esso.

Vengo ora all’altro nodo centrale del libro di Chapman: l’excursus storico del paradigma galtoniano e la pervasività di modelli eugenetici non solo nella società inglese, ma anche nel pensiero di grandi intellettuali, come Marx. Chapman ci illumina su come il paradigma galtoniano, sebbene screditato come non scientifico, continui a caratterizzare il lavoro di attuali studiosi, accademici e decisori politici. Come direbbe Stuart Hall, il fatto che un pensiero sia stato giudicato come non scientifico, non impedisce a certi gruppi accaniti di studiosi di lavorare per affermare il contrario. Chapman cita Cyril Burt, professore di psicologia ed ex-presidente della British Psychological Society, come colui responsabile dell’ideologia che ha permesso la segregazione educativa e la tripartizione delle scuole in: scuola di grammatica (per chi ha doti accademiche), scuola mainstream (per tutti gli studenti senza particolari doti accademiche) e scuole speciali (per studenti con disabilità).

L’ideologia eugenetica fu anche la «nave intellettuale ammiraglia» da diffondere in tutte le colonie inglesi e sui corpi razzializzati e colonizzati della generazione Windrush, arrivati in Inghilterra negli anni ’60 e ’70, per rimettere in piedi la società e l’economia dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Basandosi sul pensiero di Burt, alcuni distretti scolastici di Londra seguirono una politica non ufficiale che consisteva nel trasferimento di un gran numero di studenti Neri e Afro-caraibici dalle scuole mainstream a quelle che, negli anni ’70, venivano definite per «gli handicappati». Questa pratica fu messa allo scoperto da Bernard Coard che nel 1971 pubblicò il volume How the West Indian Child Is Made Educationally Subnormal in the British School System (Come il bambino delle West Indies [= Caraibi] è reso sub-normale nel sistema scolastico britannico). Questo volume spiega come gli insegnanti ed educatori, influenzati dal paradigma Galton, avessero dei pregiudizi persistenti che influenzavano la percezione degli studenti bianchi inglesi come “buoni” e “bravi”, e quelli Neri come incapaci di apprendere, a causa della loro razza e cultura.

Dunque, il paradigma galtoniano e l’eugenetica costituiscono le fondamenta del razzismo istituzionale inglese. Tristemente, la pratica descritta da Coard è ancora in uso, visto il pullulare di Pupil Referral Unit, centri per “aggiustare” il comportamento degli studenti problematici, che quasi sempre sono razzializzati come non-bianchi.

Concludo soffermandomi analiticamente sul capitolo quinto del libro di Robert, titolato “I miti dell’antipsichiatria”. In questo capitolo Chapman parla dei tentativi, in vari contesti, di sovvertire la patologizzazione e la segregazione della malattia mentale, avanzando modelli antipsichiatrici. In contesti turbocapitalistici come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, la chiusura dei manicomi portò all’aumento della popolazione carceraria, perché non si erano modificate le strutture sociali e educative per reintegrare chi era stato internato. Faccio notare che questa logica di finta inclusione continua a persistere sino ad oggi. Piuttosto che investire nel sociale e nell’educazione, con più formazione per gli insegnanti e ambienti adeguati a tutti gli studenti, si preferisce finanziare le scuole speciali. Naturalmente, ciò avviene con la giustificazione che tali scuole soddisfano i particolari “bisogni” degli studenti, che non riescono a inserirsi nella scuola mainstream. Quello che, a mio avviso, manca in questo testo è un’analisi più approfondita di ciò che Basaglia aveva realizzato in Italia. Chapman, nomina e analizza Basaglia e altri psichiatri rivoluzionari solo di passaggio. Il mondo accademico e le istituzioni educative e sociali inglesi, invece, hanno un disperato bisogni di un’ottica transculturale su queste tematiche.

Consiglio la lettura dsi questo libro a studenti, accademici, insegnanti, educatori e al pubblico italiano in generale. Sebbene l’Italia abbia avuto una delle legislazioni più progressiste del mondo sull’inclusione educativa e sociale, la società e il pubblico non sono immuni dalle influenze neoliberiste e capitaliste. Oggi più che mai, l’Italia ha bisogno di una chiave critica e intersezionale per affrontare razzismo, abilismo e xenofobia.

La copertina è di Jaime Oliveira (Flickr)

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