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“Contro l’identità italiana” di Raimo

L’ultimo libro di Christian Raimo, “Contro l’identità italiana” (Einaudi), ricostruisce la genealogia dell’attuale ondata di nazionalismo a partire dagli anni ’90, tra le velleità patriottiche di Ciampi e le tensioni secessioniste della Lega. La costruzione fittizia di un “popolo italiano” è divenuta negli ultimi anni un vero e proprio modo di gestione della crisi economica e sociale, che si palesa nella guerra contro poveri, migranti e donne

La sera dell’11 luglio 1982, a Madrid, si gioca Italia-Germania, finale dei Mondiali di calcio. In tutto il paese, un tripudio di bandiere e striscioni sta accompagnando l’impresa sportiva di Bearzot. Le squadre sono schierate a metà campo in attesa dei rispettivi inni nazionali. Partono le note di Mameli, i giocatori restano concentrati e in silenzio. A nessuno viene in mente di cantare quelle liriche retoriche e un po’ sgangherate, che invitano a stringersi a coorte mentre si è pronti alla morte. Ventiquattro anni dopo, il 9 luglio 2006, è tutta un’altra storia: allo stadio di Berlino, prima della finale Italia-Francia, la squadra azzurra è irreggimentata in mezzo al campo, stretta come un sol uomo mentre canta con trasporto ogni singola parola dell’inno. L’Italia chiamò.

Questi frame della memoria collettiva fotografano plasticamente un passaggio storico che ha trasformato il senso comune e la politica, la “cultura nazionale” e le forme di organizzazione del consenso. E fanno da sfondo e da incipit narrativo all’ultimo lavoro di Christian Raimo, Contro l’identità italiana (Einaudi editore, 134 pp.). Un libro necessario per chi vuole comprendere e combattere l’ideologia neo-nazionalista e populista oggi al governo, dentro un ciclo reazionario globale, che sembra sempre più egemone e invincibile. Si tratta di un testo agile ma allo stesso tempo approfondito, con una densa bibliografia di riferimento, che spazia dalla letteratura alla saggistica post-coloniale alla produzione fiction e non fiction.

Al centro del saggio, due traiettorie parallele: da una parte, un lavoro meticoloso di destrutturazione e disvelamento della natura artificiosa, politica, di potere dell’operazione neo-identitaria avviata alla fine degli anni Novanta, che vede il sigillo istituzionale della presidenza Ciampi. Dall’altra, l’individuazione di una linea di continuità ideologica che traghetta la retorica localistica, secessionista, antimeridionalista e razzista della Lega prima maniera, direttamente nel modello politico sovranista e xenofobo dei nostri giorni.

A cavallo del nuovo millennio, nel pieno dispiegamento dei processi globali – produttivi, tecnologici politici –, dell’esaurimento delle vecchie sovranità istituzionali, della interconnessione permanente, dell’affermazione di movimenti transnazionali e meticci, in quegli stessi anni si inizia a giocare una partita truccata tra varianti della stessa opzione politica, che avrebbe prodotto un nuovo ordine nel discorso pubblico.

La crisi economica mondiale del 2007 rappresenta il trampolino di lancio, fino ai nostri giorni, per l’affermazione di una idea della nazione che si reinventa a partire dalla peggiore tradizione identitaria legata al Risorgimento e alla Grande guerra. L’idea di un’Italia vessata, sfruttata e colpita nella sua debolezza storica, fragile in quanto femminile nella sua rappresentazione reazionaria; l’Italia tradita dai complotti delle potenze straniere, che si rifà il trucco con il mito posticcio e rivisitato degli italiani brava gente, umiliati da minacce oscure e indecifrabili.

Il tentativo ciampiano e del “campo democratico” di costruire una barriera al secessionismo padano attraverso una rinnovata vulgata patriottica e repubblicana, unitaria e condivisa, che però depoliticizza la Resistenza neutralizzando le ragioni partigiane, sociali ed egualitarie, naufraga senza superstiti nel campo del nemico. Sul finire degli anni Zero, con la guida dei governi tecnici, il centrosinistra elude il tema della democratizzazione dello spazio europeo, della valorizzazione delle sue dimensioni municipali e federaliste, e si condanna al cortocircuito politico: la subalternità al pensiero liberista e la delega nei confronti delle burocrazie europee si sommano senza contraddizioni alla riscoperta ideologica dei riti e dei valori nazionali. Quanto più si trasforma la sovranità statale, con la messa in crisi dei modelli di welfare e di cittadinanza che avevano accompagnato la modernità, tanto più si afferma nel campo politico una nuova religione condivisa, fatta di tricolori impazziti, gloria dei confini, omaggio all’italianità e revisione di passaggi storici contesi e mai pacificati (l’oppressione delle popolazioni slave e la tragedia delle foibe, l’esperienza coloniale, il fascismo e la guerra).

Mentre l’Italia entra in crisi demografica e una generazione precaria viene espulsa dalla formazione e dal mercato dal lavoro, si diffonde l’idea di una nazione assediata da speculatori eimmigrati. Il populismo leghista si salda al populismo tecnocratico grillino, trasfigura le istanze sociali e democratiche del “99%” in un livore xenofobo, autoritario, regressivo, maschilista e patriarcale. Si riaffacciano nel discorso pubblico “autorevole”, oltre che nei sottoscala dell’infosfera, antiche mai sopite leggende antisemite, che duettano sempre più esplicitamente con la critica allo strapotere della finanza mondiale.

Gran parte della paccottiglia fascista e tardo-risorgimentale, viene ripresa, masticata, setacciata, condita e risputata nelle forme di un nuovo racconto vittimistico, autoassolutorio, virilistico, che vede nell’Europa e nei migranti le minacce a un inverosimile, quanto potente, mito del paese felice ormai perduto. L’incontro di questo artificioso sentimento nazionale con l’ideologia meritocratica e il moralismo grillino produce il mostro sincretico che siede oggi nelle stanze di governo.

Raimo individua le tre grandi questioni rimosse o seppellite che istruiscono e informano la vulgata neo-identitaria: le linee del genere, del colore e della classe. Il modello sovranista si fonda sulla cancellazione delle donne, nella letteratura come nella storia, nella loro riduzione ad ancella del focolare domestico, dello Stato da erigere, del riscatto virile nazionale. Accanto a questo, si procede alla rimozione dell’esperienza coloniale italiana, della sua ridicola e tragica vocazione imperiale, della sua feroce e drammatica anticipazione degli stermini di massa. Una rimozione che conquista all’oblio pubblico anche la “questione meridionale”, ridotta a una arretratezza sociale e culturale congenita, che va semplicemente “curata” con dosi massicce di sviluppo, riscoperta delle tradizioni folcloristiche e centralizzazione istituzionale. E infine si cancellano le tracce delle ragioni sociali e di classe cha hanno attraversato e messo in fibrillazione i processi di liberazione nazionale, la costruzione repubblicana, l’avvento delle prime ondate di migranti economici o di guerra.

Sfumano i contorni dello scontro di interessi, delle forme di vita, dei conflitti culturali e generazionali; tutto viene ridotto alla caricatura astratta di un corpo politico, il popolo italiano, composto da una classe media bianca, maschile, eterosessuale, tradita e vessata dal sistema finanziario globale, che ha forgiato un complotto mondialista per la sostituzione etnica. E che si serve di marionette mascherate da volontarie, viziate e radical chic, zecche e comuniste, senza morale e senza sentimenti nazionali.

In questa apoteosi di identità senza storia, in soli quindici anni si passa dalle giornate di Genova 2001, il punto più alto del movimento altermondialista che anticipa le ragioni della crisi capitalistica degli anni zero, all’utilizzo da parte del ministro dell’interno dell’Art.52 della Costituzione (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”) contro le navi delle Ong che salvano migranti e naufraghi. La timidezza e la cattiva coscienza del campo progressista sul tema dello ius soli produce la sua nemesi, il riemergere di una nuova ideologia estensiva dello ius sanguinis, che fa della cittadinanza una concessione del sovrano, un regalo, un premio che si concede in caso di adesione subalterna e reversibile ai principi e ai valori nazionali.

La trasposizione sociale di questa guerra identitaria è il passaggio conseguente e automatico, che attraversa la cronaca quotidiana: per la prima volta nella storia repubblicana, la guerra contro i poveri viene fissata in provvedimenti di legge che costruiscono una visione etica dello stato di diritto e dell’uso della forza. La difesa della Patria si tramuta in difesa della proprietà a ogni costo, ogni soggetto fuori norma deve essere punito, sanzionato e medicalizzato. Un lavoratore in sciopero che fa un blocco stradale, un occupante di casa, un senza fissa dimora che dorme in un giaciglio di fortuna nel centro storico, una donna che sfida la vendetta patriarcale, una persona comune che esprime un comportamento indecoroso.

La legalità si emancipa definitivamente dalla giustizia sociale e si incarna, in questi giorni, nelle direttive della Prefettura di Roma che, come un vero e proprio manifesto politico, presenta prepara motiva i futuri sgomberi di occupazioni abitative e spazi sociali, relegando le istituzioni pubbliche e gli enti locali a strutture assistenziali per le “figure fragili”.

Cosa resta dunque dell’identità (italiana) nei giorni dei blocchi navali e dei pogrom social contro chi osa salvare vite umane in mezzo al mare? Dal punto di vista strettamente filosofico, dice Raimo, «sarebbe il caso di fare un salto coraggioso e immaginare una ontologia che si strutturi intorno a concetti differenti da quello di identità, come quello di analogia». Una riflessione sull’essenza «che venga sempre preceduta dall’etica». Una ricerca culturale e politica, dunque, che non preveda più scorciatoie o cedimenti all’ordine del discorso identitario e nazionalista, di qualunque sfumatura. Una rottura filologica, teorica e materiale le cui tracce, a oggi, sono ancora tutte da scrivere.