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OPINIONI

Liberare la conoscenza: verso un Open Access etico

L’Open Access arriva a Università e editoria con il Piano S, che rivendica le pubblicazioni accademiche anche in piattaforme libere e accessibili a tutte e tutti. Ma a che prezzo? e di chi? L’apertura di un dibattito collettivo sul tema può portare ad elaborare la soluzione migliore per garantire la restituzione delle ricerche al pubblico senza passare dal monopolio dell’editoria

Che l’editoria accademica abbia un problema è un fatto risaputo. Dopo decenni in cui grandi conglomerati quali Springer Nature ed Elsevier hanno tratto profitti astronomici dalla vendita dei risultati di ricerche finanziate con denaro pubblico, negli ultimi anni le università e i finanziatori della ricerca scientifica, sia pubblici che privati,  hanno tentato di rinegoziare gli accordi presi con queste aziende per assicurarsi che la ricerca che sostengono sia disponibile gratuitamente al pubblico. Questa tendenza si è manifestata, ad esempio, nel Piano S, un’iniziativa in cui una coalizione di finanziatori ha cominciato a pretendere che i risultati di tutti i progetti sostenuti con i loro fondi siano ‘pubblicati in riviste o piattaforme Open Access conformi’. A questo fine, le università e altri attori nel campo della ricerca scientifica hanno iniziato ad allocare fondi nell’ambito dei propri budget e progetti finanziati con l’obiettivo specifico di pagare le riviste scientifiche di proprietà delle suddette aziende col fine di renderne le pubblicazioni disponibili gratuitamente.

Se il fatto che articoli in precedenza disponibili solo a pagamento siano ora accessibili al pubblico (che in ogni caso aveva già pagato per la loro produzione) è indubbiamente uno sviluppo positivo, questa strategia è altamente problematica. Nella migliore delle ipotesi, ciò non contribuisce in alcun modo ad affrontare i problemi strutturali che caratterizzano la situazione attuale; nella peggiore, rappresenta una vera e propria capitolazione dell’accademia di fronte alla creazione di un ‘mercato vincolato’ da parte di questi conglomerati commerciali attivi nell’editoria accademica. In particolare, questo approccio non fa nulla per porre fine alla massiccia appropriazione privata di limitate risorse pubbliche che dovrebbero essere utilizzate per la ricerca, l’educazione, e la diffusione della conoscenza, riproducendo in ultima istanza il sistema del ‘triplice pagamento’ da cui i grandi conglomerati stanno traendo vantaggio, vale a dire un modello in cui il pubblico paga per la ricerca e i dipartimenti universitari per il controllo della qualità (la ‘peer review’), mentre i gruppi editoriali si arricchiscono facendo pagare prezzi di monopolio. In altre parole, questa versione dell’Open Access semplicemente sposta il punto di accesso nel processo editoriale in cui gli editori riscuotono massici profitti: se in passato erano i lettori a doversi accollare i costi di una pubblicazione scientifica, ora sono gli autori (e, per estensione, le università e quindi, ancora una volta, il pubblico).

Un salasso per le risorse pubbliche

Le implicazioni di questi sviluppi risultano evidenti se si considera l’impatto di questi accordi editoriali sui budget universitari, per lo meno in quei casi relativamente rari in cui le cifre sono state rese pubbliche. In Australia, il Consiglio dei Bibliotecari Universitari ha tentato di calcolare l’ammontare di denaro coinvolto ma non è riuscito a produrre una cifra precisa. Gli autori di questa indagine hanno infatti scoperto che i costi per l’Open Access sono coperti da una varietà di fondi, inclusi finanziamenti esterni, fondi dipartimentali e fondi personali, cosa che rende ogni stima pressoché impossibile. Allo stesso tempo, le università australiane sono restie a divulgare informazioni precise in merito ai propri accordi con i grandi conglomerati commerciali attivi nell’editoria accademica. Ad esempio, quando uno degli autori di questo articolo ha chiesto al suo precedente datore di lavoro, l’Australian National University, di chiarire i costi legati a undici ‘Accordi per la lettura e la pubblicazione’ che l’università aveva stipulato con alcuni di questi attori per permettere ai propri dipendenti non solo di accedere ai contenuti delle riviste ma anche di pubblicare Open Access, l’amministrazione universitaria si è rifiutata di fornire cifre precise sostenendo che si trattasse di questioni commerciali riservate. Eppure, nonostante la scarsità e frammentazione delle informazioni disponibili, non c’è dubbio che un massiccio drenaggio di fondi pubblici sia in corso in Australia. Sempre secondo stime del Consiglio dei Bibliotecari Universitari australiano, nel 2021 le istituzioni australiane pagavano oltre 332 milioni di dollari australiani all’anno (circa 208 milioni di euro) in abbonamenti a riviste accademiche, per un ammontare totale compreso tra 460 milioni e un miliardo di dollari australiani all’anno (vale a dire, tra i 289 milioni e 628 milioni di euro) versati a questi grandi conglomerati editoriali.

Volendo fare un altro esempio, questa volta nel contesto europeo, nel 2021 l’Università di Lund in Svezia, il datore di lavoro di un altro degli autori, ha pagato oltre 90 milioni di corone svedesi (circa 8 milioni di euro) in abbonamenti, ‘accordi trasformativi’ e costi per l’Open Access con editori commerciali. Non ci vuole molta fantasia per immaginare i tipi di ricerca, insegnamento, e disseminazione realmente aperta che sarebbe stato possibile sostenere con queste risorse. Se consideriamo la situazione a livello nazionale, la situazione appare ancora più drammatica. I 90 milioni dell’Università di Lund costituiscono solamente una parte di un accordo raggiunto da un consorzio nazionale svedese, sulla base del quale nel 2021 i grandi editori hanno ricevuto la somma astronomica di 771 milioni di corone svedesi (oltre 67 milioni di euro). Se poi ampliamo lo sguardo a livello globale, le cifre diventano inimmaginabili e il salasso di risorse pubbliche impossibile da ignorare.

Autocensura e sorveglianza

La situazione è problematica non solo perché si tratta di una dispendiosa appropriazione di fondi pubblici che comporta una riduzione nelle risorse disponibile per la ricerca, l’insegnamento e le pubblicazioni indipendenti nelle nostre università, ma anche perché questi conglomerati commerciali si comportano in maniera immorale. Due esempi spiccano fra tutti. In primo luogo, vi è la questione della censura adottata da alcuni di questi gruppi per conto di regimi autoritari, una situazione resa possibile dal fatto che i modelli editoriali adottati da queste aziende sono interamente orientati al profitto. Nel 2017, è scoppiato uno scandalo quando si è saputo che Cambridge University Press aveva ceduto alle richieste dei censori cinesi e bloccato l’accesso in Cina ad articoli su questioni politicamente sensibili apparsi in “The China Quarterly”, una rivista scientifica di punta nel campo degli studi sulla Cina. In seguito alla reazione furiosa da parte del mondo accademico e alla resistenza del direttore della rivista, Cambridge ha fatto marcia indietro.

Altri editori di natura più prettamente commerciale senza legami a istituzioni accademiche specifiche hanno avuto meno scrupoli. Ad esempio, sempre nel 2017 si è scoperto che Springer Nature stava facendo esattamente la stessa cosa, ma su scala più ampia. A differenza di Cambridge University Press, di fronte alle proteste del mondo accademico Springer Nature si è rifiutata di fare marcia indietro, sostenendo che continuare a distribuire contenuti in Cina fosse cruciale per ‘l’avanzamento della ricerca’. Ci sono stati poi altri incidenti in cui Springer Nature ha collaborato con i censori cinesi per bloccare dei contenuti in Cina e in cui si è rifiutata di prendere in considerazione le critiche provenienti dal pubblico. Come abbiamo notato altrove, sebbene faccia comodo incolpare i regimi autoritari per questi atti di (auto?-)censura, a nostro avviso vicende simili mettono in luce come il modello commerciale predominante nell’editoria accademica di oggi debba fare i conti con problemi ben più fondamentali che le sole interferenze di attori autoritari.

In secondo luogo, è recentemente emerso che Elsevier ha fornito grandi quantità di dati alla famigerata agenzia federale statunitense per l’immigrazione (l’Immigration and Customs Enforcement, ICE) attraverso il proprio database LexisNexis. La funzione ‘Accurint’ di LexisNexis raccoglie informazioni dettagliate su luogo, famiglia, precedenti lavorativi ed altri dati sensibili, che sono stati venduti come ‘intelligence investigativa’ alle forze dell’ordine americane. Documenti interni hanno poi rivelato come questo strumento sia oggi considerato una ‘risorsa’ di cui i funzionari dell’ICE suggeriscono un “ampio utilizzo» nel perseguire l’immigrazione illegale e nel terrorizzare i sans papiers. Il fatto che Elsevier non si sia fatta scrupoli nell’abbracciare il capitalismo della sorveglianza non dovrebbe sorprendere se si considera che ora l’azienda si identifica come un «business nell’analisi dell’informazione» piuttosto che come un editore accademico.

La domanda che noi ricercatori dobbiamo porci è se vogliamo essere complici di aziende che, tra molti altri comportamenti dubbi, non esitano a ricorrere alla censura politica per conto di regimi autoritari e a raccogliere dati per conto di agenzie coinvolte nell’implementazione di politiche migratorie disumane. Dobbiamo avviare una seria riflessione sui tipi di complicità che emergono da questo tipo di accordi e chiederci se non stiamo forse contravvenendo ad alcuni imperativi etici fondamentali nell’incanalare denaro pubblico verso queste imprese.

Le sfide per l’Open Access etico

Mentre questi conglomerati cooptano il linguaggio dell’Open Access e continuano ad aumentare i propri profitti a spese dei budget universitari, progetti Open Access autentici avviati da ricercatori con l’obiettivo di aggirare le distorsioni di questo sistema navigano in acque tempestose. Sebbene a volte le università e alcuni finanziatori esterni pubblichino dei bandi per sostenere pubblicazioni Open Access, questo accade piuttosto di rado e nella maggior parte dei casi si tratta di fondi finalizzati alla creazione di nuove riviste o piattaforme. Per questa ragione, molte iniziative Open Access già avviate sono costrette a racimolare i pochi finanziamenti disponibili nel tentativo di coprire budget minimi e tenere in piedi la baracca, senza la minima possibilità di fare piani che vadano oltre l’immediato. In una situazione del genere, molte pubblicazioni autenticamente Open Access si trovano a dipendere ampliamente dal lavoro volontario dei loro creatori – spesso un lavoro d’amore, ma un lavoro nondimeno sostanziale.

Come fondatori e redattori delle riviste Open Access Made in China Journal e Global China Pulse, così come della piattaforma aperta The People’s Map of Global China, abbiamo esperienza diretta di questa situazione. Il Made in China Journal è nato nel 2012 come una newsletter mensile per i sindacati italiani sulle questioni del lavoro in Cina e poi nel tempo è cresciuto fino a diventare una pubblicazione internazionale di riferimento sulla politica e società cinese contemporanea. Il “Global China Pulse”è una nuova rivista focalizzata su vari aspetti della rapida globalizzazione cinese, una ramificazione di The People’s Map of Global China, una piattaforma aperta che abbiamo lanciato nel 2021 per offrire prospettive di base sull’impatto sociale e ambientale degli investimenti cinesi intorno al mondo.

In questi anni, i nostri progetti sono stati finanziati con piccole somme offerte dai nostri datori di lavoro presenti e passati – l’Australian National University, l’Università di Lund e la London School of Economics and Political Science—con alcune risorse aggiuntive provenienti da donatori esterni. Se questo sostegno finora ci ha permesso di coprire le spese fondamentali  – la correzione delle bozze, il design e l’impaginazione, lo hosting dei siti, eccetera – questo avviene solamente su base annuale e in seguito a richieste ad hoc, il che ha reso impossibile fare piani di medio o lungo periodo per far crescere i vari progetti. Allo stesso tempo, ci siamo spesso trovati costretti a moltiplicare i nostri sforzi editoriali e presentare un’infinità di progetti a finanziatori esterni nella speranza di riuscire ad avere maggior spazio di manovra e di mitigare i danni nel caso in cui, nella peggiore delle ipotesi, i fondi garantiti dalle istituzioni a cui siamo momentaneamente affiliati dovessero venir meno. Tutto questo ha creato un imponente carico di lavoro addizionale che si è sommato a tutto il lavoro volontario, spesso invisibile in contesto accademico, che già stavamo dedicando a questi progetti.

Prospettive future

Se inizialmente sembrava che il Piano S e altre iniziative analoghe in materia di Open Access potessero avere un impatto trasformativo sulla relazione vitale tra gli accademici e i grossi conglomerati commerciali attivi nell’editoria scientifica, il quadro attuale mostra come queste aziende siano riuscite a muoversi in maniera efficace nello spazio dell’Open Access. Questi attori hanno perpetuato con successo il mito che costose piattaforme commerciali e altri servizi editoriali a pagamento siano necessari per assicurare che la ricerca abbia un profilo aperto e un impatto sociale.

Riviste come quelle che editiamo e produciamo sfidano questo mito prefigurando un sistema di comunicazione accademica che risponde a logiche non commerciali. Università e biblioteche pubbliche sono alleati chiave nella transizione verso un modello di Open Access etico in linea con quelli che dovrebbero essere i valori di un settore accademico pubblico. Ci sono stati molti appelli da parte di attori coinvolti nel movimento per un Open Access etico e non finalizzato al profitto—come, ad esempio, il Piano d’azione per il Diamond Open Access – affinché le università, i governi e le biblioteche agiscano di concerto e riconsiderino le implicazioni sistemiche di accordi editoriali che beneficiano in maniera del tutto sproporzionata editori commerciali. Le nostre istituzioni pubbliche dovrebbero piuttosto cercare di diversificare i destinatari di fondi pubblici messi dedicati all’Open Access, con l’obiettivo finale di disinvestire da accordi costosissimi con gruppi coinvolti in comportamenti moralmente discutibili.

Se iniziative decentralizzate come Quartz Open Access e Libraria promettono di creare nuovi strumenti finanziati collettivamente per alleviare i problemi finanziari che le riviste Open Access non commerciali si trovano ad affrontare, a oggi manca una discussione più ampia nell’università e nella società su come rimuovere le barriere economiche, legali, e tecnologiche che si frappongono fra il pubblico e i risultati della ricerca. In ultima istanza, si tratta di una questione di proprietà: chi possiede la ricerca che produciamo collettivamente e chi (se mai) dovrebbe trarne profitto? Come minimo, come primo passo, le università, i finanziatori della ricerca e i consorzi nazionali dovrebbero iniziare a stanziare fondi sostanziali per sostenere l’ecosistema dell’Open Access etico e non finalizzato al profitto. In pratica, questo significa aprire canali di finanziamento specifici per pubblicazioni Open Access già avviate e creare incentivi e risorse per permettere a redazioni di riviste scientifiche di ‘convertire’ le proprie pubblicazioni attualmente gestite attraverso accordi con conglomerati commerciali in realtà autenticamente Open Access. Questi nuovi canali potrebbero essere inaugurati da università con fondi risparmiati attraverso la cancellazione di quegli ‘accordi trasformativi’ stipulati con editori commerciali e di natura puramente estrattiva.

La buona notizia è che le nostre università sono già piene di accademici, bibliotecari, operatori tecnici e molti altri individui che partecipano entusiasticamente nel movimento per un Open Access etico. Basterebbe garantire loro le risorse e il tempo necessari per permettere ai loro progetti di prosperare.

Questo pezzo è originariamente apparso nel Made in China Journal e, in versione più breve, in Universitetläraren, la rivista dell’Associazione Svedese degli Insegnanti e dei Ricercatori Universitari (SULF).

La versione in italiano è stata tradotta da Ivan Franceschini, per una pubblicazione congiunta su Dinamopress e Gli Asini

Immagine di copertina da Openverse di Brenda-Starr~