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L’era della giustizia climatica

Un importante contributo al rapporto fra lotta di classe e giustizia climatica nel libro di Leonardi e Imperatore, edito da Orthotes, che ripercorre l’evoluzione del discorso dalle COP ai movimenti ecologisti e infine all’intersezione con le vertenze operaie, in primo luogo con quella della Gkn

L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso di Emanuele Leonardi e Paola Imperatore è un libro che vuole ricostruire la storia recente dei movimenti ambientalisti nel nostro paese con l’intento di riflettere sulle loro prospettive future.

Questo percorso, però, è guidato dal concetto di “giustizia climatica” e dal suo emergere all’interno dei movimenti come cassetta degli attrezzi per criticare la transizione ecologica dall’alto che ha ancora ampio spazio nei summit COP. La nostra storia inizia negli anni ‘90, proprio all’origine delle COP, più precisamente a Rio nel 1992. Leonardi e Imperatore ci presentano Severn Cullis-Suzuki, «figlia della scrittrice Tara Elizabeth Cullis e dell’ambientalista David Suzuki, Severn si presentò in Brasile all’età di 12 anni, come rappresentante dell’Organizzazione dei Bambini per l’Ambiente, che lei stessa aveva fondato, e inaugurò con le sue parole un genere che avrebbe avuto grande successo nell’ambito del governo globale del clima: la scudisciata giovanile alle delegazioni negoziatrici» (p. 15).

Il discorso di Suzuki permette di analizzare i punti di continuità e discontinuità nei movimenti ambientalisti negli ultimi 30 anni. Ad esempio, troviamo continuità nella denuncia delle differenze tra Nord e Sud globale per le emissioni di gas climalteranti in atmosfera. Tuttavia nel 1992 era ancora in atto il tentativo di convincere i “potenti della Terra” di mettere da parte i propri interessi di classe per garantire alle future generazioni condizioni di vita decente sul pianeta. Questo si è tradotto in un sostegno critico al sistema delle COP e all’infrastruttura economica del governo globale del clima. Siamo nell’epoca del Protocollo di Kyoto con i suoi meccanismi flessibili centrati sul mercato. L’idea sottostante è che a un certo punto i costi ambientali non sono più esternalizzabili e di conseguenza iniziano a comparire nella contabilità capitalista. I costi ambientali sono convertiti in costi economici.

«La contraddizione in cui si dibatte ciò che definiamo transizione ecologica dall’alto; quella, cioè, basata sull’idea che il riscaldamento globale sia un esempio perfetto di fallimento del mercato – incapace, storicamente, di contabilizzare le cosiddette esternalità negative (in questa fattispecie, le emissioni di CO2-equivalente) – cui tuttavia si può porre rimedio solo mercificando quelle stesse esternalità negative, di modo che finalmente si possa “dare un prezzo alla natura” e farne commercio» (p. 32)

Questa dinamica è da ricollegare a quella che James O’Connor descrive come la seconda contraddizione del capitale, più specificamente alla sua dimensione ambientale. Se in un primo momento e per un dato capitale l’esternalizzazione dei costi può rappresentare un vantaggio, in un momento futuro tali esternalità possono assumere proporzioni che iniziano a costituire un ostacolo alla valorizzazione del capitale, cioè una seconda contraddizione del capitale che si presenta come un limite. La green economy che nasce in questo periodo serve per rispondere a questa situazione. Rappresenta una controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto. La crisi ambientale apre nuovi spazi per la valorizzazione del capitale di cui il mercato delle emissioni dell’anidride carbonica, come tutti i processi di mercificazione della natura, rappresenta un buon esempio. Tutto ciò non riesce a superare le dinamiche distruttive del capitalismo che hanno sempre contraddistinto il rapporto tra capitale e natura. In quanto contraddizione in atto, la dinamica del capitale è segnata dal collocamento e dal superamento di ostacoli derivanti dal suo stesso movimento di valorizzazione. Ricordando che il superamento non consiste semplicemente nell’eliminazione, ma implica la soppressione e la conservazione, cioè la sostituzione delle contraddizioni a livelli più profondi.

Alla fine degli anni ‘90 emerge il concetto di giustizia climatica. Accade durante la rivolta di Seattle nel 1999, all’alba del movimento no global. Il movimento dei movimenti si accorge che l’ingiustizia climatica accelera tutte le altre ingiustizie. L’ecologia è finalmente uscita dalla sua prospettiva settoriale e da questo punto non si torna indietro. Il grande momento di rottura rispetto al 1992 è rappresentato dalla COP 24 di Katowice del 2018. «Ciò che avviene a partire dalla COP 24 di Katowice (2018) è il rifiuto, da parte dei movimenti per la giustizia climatica, di fornire legittimità al governo globale del clima. Questa svolta ha un motivo e un volto […] la strategia centrata sul mercato è risultata fallimentare» (p. 21). Non è una dichiarazione campata in aria. «Non solo le emissioni hanno continuato ad aumentare in termini “assoluti”, ma anche il tasso di emissione è cresciuto. In altre parole: non solo non si è riusciti a invertire la rotta, riducendo le emissioni; si è anche proceduto più speditamente nella direzione opposta rispetto a quella auspicata. Ironia della sorte, si è recentemente appreso che dal 1990 (anno-base del Sistema delle COP) al 2021 è stata emessa più CO2-equivalente di quanta non ne sia stata emessa dal 1750 – anno della prima stima rilevata – al 1990» (p. 22).

Il simbolo di questa svolta è Greta Thunberg che appare sulla scena in un momento di crisi del sistema delle COP grazie alle precedenti critiche provenienti dal Sud globale e la perdita di fiducia da parte delle grandi ONG ambientaliste. A Katowice emerge un fronte di paesi negazionisti, con in testa gli USA di Donald Trump, che non tiene in considerazione il rapporto dell’IPCC e delegittima politicamente il sistema delle COP. Da una prospettiva diversa, anche Greta Thunberg toglie legittimità politica a questo sistema. Greta non si aspetta più nulla dalla transizione ecologica dall’alto, dai politici che hanno fatto poco e niente negli ultimi 30 anni per contrastare il cambiamento climatico. Gli autori lo chiamano effetto-Greta a cui segue la visione-Greta.

«Se il momento “negativo” – l’effetto-Greta – si trova nel rifiuto di legittimare politicamente il Sistema delle COP […], la spinta in avanti – la visione-Greta – sta in un allargamento dell’orizzonte complessivo della lotta per il clima, nonché in un approfondimento della sua radicalità. È bene ribadire che la visione-Greta non esaurisce lo spazio di conflitto sociale schiuso dall’effetto-Greta: è cioè perfettamente legittimo abitare il processo di convergenza senza concordare con quanto Thunberg suggerisce nei suoi scritti e nei suoi interventi pubblici» (p. 56).

Queste riflessioni ci conducono agli scioperi del clima del 2019 che hanno una dimensione di massa e transnazionale e sono interni al ciclo di lotta contro l’austerità iniziato nel 2011. Con queste manifestazioni, il riscaldamento globale smette di essere vissuto come una catastrofe e diventa la molla che porta in piazza le generazioni più giovani, combattive, arrabbiate e con la voglia di riprendersi il futuro. La giustizia climatica entra prepotentemente nelle idee di questi giovani. Non c’è più solo la differenza tra Nord e Sud globale nell’emissione di gas climalteranti ma anche la classe. Greta Thunberg affermava nel 2019 che: «Appena 100 grandi compagnie sono responsabili del 70% delle emissioni globali negli ultimi trent’anni. E l’1% della popolazione più ricca è responsabile del 50% delle emissioni. Non si può chiedere a tutti di contribuire allo stesso modo alla soluzione. È una questione di buon senso». Evidentemente non siamo tutti sulla stessa barca. C’è chi affronta il cambiamento climatico da uno yatch e chi da un salvagente. Quale miglior assist per convergere con il movimento operaio?

Proteste come quelle dei Gilets jaunes, nata per una tassa sui carburanti, è stata e viene ancora dipinta come una reazione di popolo alla transizione ecologica. In realtà fu una reazione a una transizione ingiusta fatta pagare, attraverso la tassazione indiretta, ai lavoratori. Si collega perfettamente al discorso di Greta che nel corso degli ultimi anni si è andato sempre di più radicalizzando. La transizione la deve pagare chi ha i soldi e chi soffre di meno le conseguenze del cambiamento climatico. Non deve ricadere sulle spalle dei lavoratori e del ceto medio ma neanche sui territori marginali che vengono dilaniati dalle grandi opere fatte in nome della transizione ecologica. Lo abbiamo visto negli ultimi mesi con i rigassificatori di Piombino e Ravenna o negli anni passati con il TAP o la storica lotta contro il TAV in Val di Susa. Tutte situazioni che hanno visto una forte opposizione dei movimenti ambientalisti locali contro logiche emergenziali che in nome della lotta al cambiamento climatico calano dall’alto, calpestando la democrazia, grandi opere dalla dubbia utilità che assomigliano all’ennesima forma di socialismo per i ricchi. Perdite pubbliche e profitti privati.

Il libro, però, è evidentemente anche un tentativo di far capire ai movimenti ambientalisti che noi lavoratori non siamo loro nemici. La convergenza tra i nostri movimenti è possibile e necessaria per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico. Il lavoratore edile, il rider, il bracciante immigrato, la cuoca che lavora in una cucina senza condizionatore in estate vivono sulla propria pelle le conseguenze del riscaldamento globale.

Ogni estate è costellata di bollettini di morti sul lavoro per il troppo caldo ma, come possiamo intuire dalle professioni precedentemente elencate, non colpisce tutti allo stesso modo. Il riscaldamento globale è una questione di classe. Questa consapevolezza ci permette di affrontare meglio l’ultimo capitolo del libro che ricostruisce la storia della vertenza dell’ex-GKN, probabilmente la lotta operaia più avanzata in Italia nell’ultimo decennio.

La motivazione dietro la chiusura della fabbrica è stata ricondotta ai costi della transizione ecologica e non alle scelte del fondo Melrose proprietario dello stabilimento. Tuttavia gli operai non accettarono questa motivazione, consapevoli della salute dell’azienda e soprattutto del fatto che i semiassi che producevano sarebbero serviti anche in un mondo dominato da auto elettriche. Finché le auto andranno su gomma, avranno bisogno di semiassi. Il collettivo interno alla fabbrica ha avuto la lucidità di portare avanti questa linea politica nella gestione della vertenza, riuscendo a mobilitarsi e intrecciarsi sempre di più con i movimenti ambientalisti. Gli operai hanno avuto la forza e l’intelligenza di reinventare le modalità di sciopero, coinvolgendo nella loro lotta movimenti e territorio. La loro lotta è uguale a quella dei movimenti.

Questo si è tradotto in un progetto ambizioso di reindustrializzazione costruito senza il sostegno delle istituzioni ma aprendo le porte della fabbrica alle competenze dell’accademia portate da intellettuali amici. L’obiettivo era trasformare lo stabilimento in un Polo Pubblico per la Mobilità sostenibile: «La prospettiva del Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile tiene insieme la capacità di preservare le competenze operaie nella produzione di semiassi per veicoli, e la capacità di individuare un orizzonte di reale transizione ecologica per il settore dell’automotive che metta in discussione la logica predatoria del passaggio all’auto elettrica, definita dai lavoratori GKN come una farsa che riprodurrebbe la “follia estrattivista” neocoloniale, ovvero la continua estrazione, ed espropriazione di materie prime ai danni delle popolazioni del Sud globale.

Ciò che fondamentalmente viene messo in discussione è il paradigma della mobilità privata su gomma. Al contempo, questo progetto contribuirebbe in modo significativo alla riduzione di emissioni climalteranti e dell’inquinamento atmosferico, ampliando l’accesso delle fasce popolari – la cui possibilità di movimento è fortemente compromessa dalle condizioni economiche e dalla collocazione spaziale, sovente periferica – alla mobilità pubblica.

Nel farlo, si immaginano non solo nuove forme di trasporto, ma anche nuove relazioni tra fabbrica e territorio, che scardinano la dicotomia abitante-lavoratore, che rigettano il ricatto occupazionale – cioè, la scelta impossibile tra un ambiente sano e un salario con cui vivere, per dare vita a una fabbrica pubblica, socialmente integrata» (p. 143). Si tratta di un progetto ambizioso e d’avanguardia che da un lato propone un’alternativa al deserto industriale ed economico che produrrebbe la chiusura dello stabilimento ma dall’altro lato rifiuta la transizione ecologica dall’alto. Non accetta di sostituire il modello “una testa una macchina” con il modello “una testa un’auto elettrica”.

Il modo in cui viene valorizzata l’integrazione tra fabbrica e territorio riporta alla mente le analisi di John Bellamy Foster sul pensiero ecologico in Marx. La principale categoria concettuale di Marx per affrontare il rapporto tra gli esseri umani e la natura è quella di metabolismo sociale, nel senso di scambi energetici mediati dalla società. Secondo la teoria della frattura metabolica di Marx, il capitalismo ha prodotto una frattura irreparabile in questo metabolismo quando ha promosso rapporti di produzione che separano gli esseri umani dai loro mezzi di sussistenza. Pensiamo alla rottura tra campagna e città a seguito dell’accumulazione primitiva. Per superare questa frattura e ricostruire il metabolismo sociale, Marx propone forme di produzione cooperative, capaci di governare il metabolismo sociale in modo razionale. Tuttavia, mancando il sostegno pubblico, gli operai sono stati costretti a seguire una strada diversa fondando la Società Operaia di Mutuo Soccorso per tentare di recuperare la fabbrica.

«Raccogliendo l’eredità del mutualismo, ma senza perdere un grammo della propria conflittualità, il Collettivo ha messo nero su bianco un nuovo piano di riconversione autogestita, destinato alla produzione di cargo-bike e di pannelli solari di nuova generazione, che non richiedono l’utilizzo di minerali critici, in larghissima maggioranza estratti nei Paesi del Sud globale in condizioni di lavoro incompatibili con la giustizia climatica (e, più in generale, con la dignità umana). I principi richiamati nel Piano descritto in precedenza tornano a vivere in questo progetto di riconversione, ma con una differenza significativa: il capitale necessario per sostenere l’investimento iniziale è stato raccolto attraverso l’azionariato popolare, sostenuto nella primavera 2023 da Fridays for Future, Banca Etica e ARCI. Il grande successo della raccolta fondi ha dato una spinta in più al progetto di riconversione dal basso e, il 10 luglio 2023 – il giorno dopo aver festeggiato collettivamente due anni di assemblea permanente – un gruppo di lavoratori e solidali ha dato vita alla cooperativa Gkn for future (GFF), con l’obiettivo di (auto)gestire la reindustrializzazione della fabbrica. Il nodo degli investimenti pubblici resta ovviamente aperto per quanto riguarda l’acquisto sia dello stabilimento (o di una sua parte) sia dei macchinari (o di alcuni di essi), ma a condizioni differenti rispetto alla fase precedente in cui la possibilità di riconversione industriale dipendeva totalmente da altri attori» (pp. 145-146).

Questo è ovviamente l’esempio più avanzato di convergenza tra movimento operaio e movimenti ambientalisti riportato nel libro ma nel corso degli anni si sono sviluppate altre esperienze che seguono questo percorso. Per esempio a Civitavecchia, importante città portuale vicino Roma, gli operai sono riusciti a salvaguardare i livelli occupazionali strappando ad Enel, con il sostegno di sindacati, istituzioni e territorio, la riconversione delle sue centrali a carbone, da dismettere entro il 2025, con un mix di eolico galleggiante e fotovoltaico assistito da stoccaggi a idrogeno verde. L’obiettivo iniziale dell’azienda era la conversione delle centrali in impianti a turbogas.

Resta un grosso elefante nella stanza a cui il libro non dà e non può dare una risposta: che farne della crescita?

Immagine di copertina di Ilaria Turini