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EUROPA

Le guerre dei confini: tra affari e armi così l’Ue esternalizza le sue frontiere

Soldi pubblici e commesse private, tecnologie per il “controllo” e la “sicurezza”. Così l’Unione Europea tra affari e armi sta esternalizzando le proprie frontiere.

L’Unione Europea e gli stati membri hanno intensificato negli ultimi tre anni la collaborazione con diversi regimi autoritari per fermare le partenze dei migranti, o rimpatriarli, formando le polizie e i funzionari di frontiera degli Stati terzi, consegnando elicotteri, navi e veicoli di pattugliamento, sviluppando ampi sistemi biometrici e di sorveglianza. A raccontare la crescita esponenziale di questa “cooperazione”, nel dettaglio, sono le oltre cento pagine di “Expanding the fortress”, il rapporto pubblicato da un istituto di ricerca olandese, il Transnational Institute (TNI) e che è stato tradotto e rilanciato dalla Rete italiana per il disarmo.

Esternalizzare la frontiera

In tutto il mondo esistono sessanta milioni di sfollati. La maggior parte sogna un giorno di approdare in Europa, ma l’Unione degli Stati membri, fin dal 1992, ha sviluppato politiche di esternalizzazione delle frontiere che ne rendono sempre più complicato, di fatto, l’arrivo e la permanenza dei migranti sul suolo europeo. Per farlo, l’Ue non ha esitato a stringere accordi con una trentina di Stati, la stragrande maggioranza dei quali sono governati da regimi autoritari noti per le gravi violazioni dei diritti umani: Egitto, Libia, Turchia, Niger, Mauritania, Mali, Sudan, Paesi che si trovano in fondo alle classifiche mondiali per i parametri di inclusione, giustizia sociale e sicurezza «che sono stati incoraggiati nell’azione di repressione nei confronti dei rifugiati». Si legge nel rapporto: «Il dramma degli sfollati sembra turbare la coscienza dell’Unione europea solo quando i riflettori dei media portano alla luce una tragedia alle sue frontiere. L’invisibilità viene infranta quando le persone che fuggono dalla violenza finiscono per morire, o restano intrappolate, a Calais, Lampedusa, Lesbo, Ventimiglia». E ancora: «Queste tragedie sono proprio il risultato diretto delle politiche di esternalizzazione, che sono fondate sullo sviluppo di una sorveglianza dei confini sempre più sofisticata, sull’aumento delle deportazioni verso i Paesi terzi, e sulla mancata concessione di opzioni legali per l’ingresso e la permanenza nell’Ue». Non soltanto. I ricercatori hanno calcolato come siano state proprio le politiche di esternalizzazione delle frontiere ad obbligare le persone ad intraprendere rotte più pericolose; come quella del Mediterraneo centrale, che è tuttora la più battuta, nonostante sia la più pericolosa. Una rotta lungo la quale nel 2017 è morta una persona ogni 57 che ha intrapreso quel percorso, contro la percentuale stimata di un morto ogni 267 del 2015. Ma c’è di più. «Il processo decisionale che ha portato a stipulare gli accordi con i Paesi terzi ha messo da parte il controllo democratico in teoria esercitato dal Parlamento europeo, e dagli stessi organi legislativi dei singoli stati membri, che, in alcuni casi, sono stati addirittura tenuti completamente all’oscuro», accusa Mark Akkerman, autore di Expanding the fortress, il quale ha detto: «questa ricerca rivela una vera e propria ossessione dell’Ue per il controllo delle migrazioni, la quale è così forte da spingere l’Unione a non considerare i costi per le persone». In sostanza, il rapporto della Tni mette sotto torchio le politiche che sostengono l’esternalizzazione delle frontiere europee: gli accordi che sono stati firmati, le società e le entità private che ne traggono profitto, denunciando, inoltre, le pesanti conseguenze per gli sfollati.

Expanding the fortress è il terzo rapporto di una serie intitolata Border wars (Guerre del confine) che ha mostrato come l’industria delle armi europea e della sicurezza globale abbiano tratto notevoli vantaggi finanziari dalle politiche di tipo securitario in tema di migrazioni   In particolare, il rapporto ha messo in evidenza come ci sia stata, dal vertice della Valletta del novembre 2015, in poi, una vera e propria accelerazione nell’uso di strumenti informali per “giustificare” accordi, memorandum, compact; dunque, tutte le diverse misure di esternalizzazione che l’Ue ha siglato con i Paesi terzi per aiutare i migranti “a casa loro”. Ne sono la prova il Fondo Fiduciario di Emergenza europeo per l’Africa (EUTF), l’Accordo quadro di partenariato tra l’Ue e la Turchia, e tutti i progetti attualmente esistenti dentro e fuori il suolo europeo per scoraggiare i viaggi verso l’Europa di alcune popolazioni, in particolare.

Affari d’oro per l’industria della sicurezza e delle armi

L’80% del bilancio di EUTF proviene dal Fondo europeo di sviluppo e da altri fondi per lo sviluppo e gli aiuti umanitari. A beneficiare di cifre a sei zeri sono state diverse società europee: la produttrice di armi francese, Thales, attore chiave nella regione Mena, fornisce attrezzature per la sicurezza dei confini e dispositivi per la raccolta dei dati biometrici. Anche le industrie italiane e tedesche fanno affari d’oro con le frontiere. Hensoldt, Airbus e Rheinmetall (Germania), Leonardo e Intermarine (Italia) sono leader nella sicurezza di un certo numero di paesi dell’area Mena, in particolare, Egitto, Tunisia e Libia. Le frontiere tra Turchia ed Europa, invece, sono presidiate dalle aziende turche Aselsan e Otokar, che si sono aggiudicati la maggior  parte dei soldi, sei miliardi, previsti dall’accordo Turchia/Ue siglato nel 2016 con l’obiettivo di «porre fine alla migrazione irregolare dalla Turchia verso l’UE». Ma c’è anche un’industria della consulenza che beneficia dei denari forniti dagli Stati europei per fermare a tutti i costi i migranti in fuga verso l’Ue, o rimpatriarli verso i Paesi terzi o di origine. Di questo business ne hanno beneficiato società pubbliche, come la francese, Civipol, ma anche organizzazioni internazionali, come l’OIM, che hanno offerto consulenza e formazione nella gestione di progetti per la sicurezza delle frontiere, firmando contratti milionari per questo tipo di servizi.

I buoni propositi e la soddisfazione dell’UE. Il bilancio dell’Agenda europea migrazione

«Mi dispiace per l’Europa, non pensavamo fosse così, un luogo dove i migranti non possono avere dignità. Perché l’Europa è diventata così?», si è chiesto Ari Omar, un rifugiato iracheno intervistato dagli autori del rapporto Expanding the fortress. Eppure, così affermava, appena tre anni fa, il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker: «Noi europei dovremmo ricordare bene che la nostra storia comune è stata segnata da milioni di cittadini fuggiti per motivi religiosi o politici, a causa delle persecuzioni, delle guerre, delle dittature». Buoni propositi, evidentemente, quelli di Juncker, che così aggiungeva: «Abbiamo i mezzi per aiutare chi fugge dalla guerra, dal terrore e dall’oppressione».

«Piena soddisfazione per i risultati raggiunti» è quello che dice in sostanza tre anni dopo la Relazione sullo stato di attuazione dell’agenda europea sulla migrazione, un documento di una ventina di pagine che risale allo scorso marzo, una comunicazione con cui la Commissione Europea ha riferito al Consiglio e al Parlamento che: «l’Unione e i suoi Stati membri devono ora affrontare con la massima urgenza la necessità di finanziare la seconda tranche dello Strumento per i rifugiati in Turchia, per un importo complessivo di 3 miliardi di euro». E poi, che vi è «un deficit di finanziamento relativo all’Africa settentrionale, ma anche all’area del Sahel, e del Lago Ciad, e a quella del Corno d’Africa, che richiederanno a loro volta, nei mesi a venire, la mobilitazione di ulteriori finanziamenti congiunti dell’UE e degli Stati membri».