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L’automa spirituale. “L’età giovane” dei fratelli Dardenne

Ahmed, un adolescente cresciuto ad Islam radicale in una delle tante banlieue dell’Europa postcoloniale contemporanea, è il giovane protagonista de “L’età giovane”, l’ultimo film dei fratelli Dardenne, che da questa settimana è nelle sale italiane. Ma dietro a quella che sembrerebbe essere un’esperienza precoce di monolinguismo della verità si nasconde in realtà l’ambivalenza di una vita indecisa tra spietatezza e innocenza, tra menzogna e verità

Un corpo, un libro, un’idea e niente più. Un film fatto con l’essenziale, con poco o niente. Jean-Pierre e Luc Dardenne, di nuovo a Cannes e di nuovo premiati, questa volta per la miglior regia, scelgono una dolorosa sobrietà per parlare di radicalismo religioso ma anche dell’impossibile ingresso nella vita adulta di un pre-adolescente nel Belgio contemporaneo.

Il ritratto di Ahmed è quello delle centinaia di bambini e ragazzi imbrigliati nell’ideologia dell’Islam radicale, jihadista, combattivo, distruttivo e autodistruttivo. È un ritratto e non una storia. Della storia di Ahmed non sappiamo e non sapremo quasi nulla e intuiremo ben poco – ma quanto è difficile, suggeriscono così indirettamente i registi, capire senza la storia! Intuiremo solo l’essenziale. E senza storia, appunto, i Dardenne lanciano il giovane Ahmed su un campo di battaglia, banale e realistico, fin troppo vero per divenire soggetto cinematografico: una famiglia, una scuola, un quartiere, una moschea come ce ne sono a migliaia nelle banlieues dell’Europa post-coloniale.

 

 

L’assenza di una storia, di come si arriva al punto dove ci si trova, riflette e rovescia, al tempo stesso, l’ignoranza colpevole o interessata delle società occidentali. La riflette, perché evoca le stesse domande di chi si rifugia nella xenofobia nazional-identitaria che sembra proprio la cifra della nostra epoca: chi sono le migliaia di famiglie come quella di Ahmed? Da dove vengono? Che cosa vogliono da noi? l’Europa si scopre – un po’ ingenua ma non per questo meno colpevole – invasa da questi europei non-europei del tutto ignari del lungo e doloroso processo di secolarizzazione e neutralizzazione delle guerre di religione che caratterizza la nostra storia. Questa assenza, però, rovescia, nelle mani dei Dardenne, l’ignoranza delle società occidentali nella speculare ignoranza del giovane Ahmed per tutto ciò che eccede e che potrebbe relativizzare, mettere in questione, arricchire quel suo mondo così scarno, limitato ed essenziale: il suo corpo, il suo libro, la sua idea.

Lo spettatore dei Dardenne è abituato a un cinema duro, spigoloso, faticoso, fatto di un realismo crudo e atmosferico, che piomba nei suoni e nei colori di spaccati sociali sempre dolorosi, mai facili da guardare in faccia. Questa volta, però, la camera diventa una vera e propria gabbia, al tempo stesso per il giovane Ahmed e per lo spettatore in sala. L’assenza di ogni storia si riflette nell’assenza quasi totale di campi lunghi: i personaggi sono racchiusi – e gli spettatori sono costretti – in inquadrature ravvicinate e soffocanti, dolorosamente claustrofobiche.

 

 

La macchina è in constante movimento. Un movimento non convulso, minimo ma necessario per tentare di seguire, e sperare di comprendere, i movimenti del giovane Ahmed che vuole sfuggire a tutto e a tutti. Nel corpo a corpo con la macchina è il ragazzino che, suo malgrado, esce vincitore. Mai o raramente riusciamo a incrociare il suo sguardo, a vedere insieme le sue mani e il suo volto. Il corpo di Ahmed è in continua lotta con la camera ravvicinata e imposta dai registi, da cui si sforza di sfuggire in ogni direzione, di sgusciare come attraverso le sbarre di una prigione che troppo presto si chiude sulla sua vita. Una mano, un piede, un gesto, saranno spesso fuori campo, a cercare un’arma improvvisata, una via di fuga intuita, ad anticipare o cercare in modo convulso il destino che Ahmed si è inesorabilmente costruito, inseguendo la sua unica idea. Il contrasto tra il corpo e la mente è, in questo senso, sorprendente: se per tutto il film non riusciamo a seguire o a capire il corpo resistente di Ahmed, riusciamo senza alcuna difficoltà, dalle prime battute, a cogliere e comprendere quello che succede nella sua mente, la povertà delle sue idee, della sua unica idea, rozza e scarna nella semplicità del suo manicheismo.

Un corpo soggiogato a una sola idea. Monomania, la chiamava Melville nel suo grande affresco teologico e metafisico, più utile oggi di molti trattati di sociologia della radicalizzazione religiosa. Il filosofo Spinoza, invece, ricorre a un’altra immagine, quella dell’«automa spirituale». Poco importa, per noi, che si tratti della maniacale ortodossia ebraica del XVII secolo o di quella islamista del XXI. L’automa spirituale ricorre a quella sua unica idea come a una stella polare, a un faro nella notte che semplifica l’intero mondo e che gli altri chiameranno ignoranza e superstizione, ma che lui usa come bussola sicura per navigare fra gli scogli della vita. Un asilo dell’ignoranza, rassicurante, riposante, di fronte a cui niente vale più la pena di essere discusso.

 

 

Ma se fosse questa la vera essenza della religione? Del monoteismo? Il bambino Ahmed ci confronta all’innocenza dell’esperienza religiosa nella sua versione più pura e disinteressata. Ahmed è un essere puro per cui una parola – “apostata” – può più di un intero vocabolario, per cui una Sura può più di mille ragionamenti, per cui un’immagine sullo schermo può più dell’intera realtà che lo circonda. Una lettura semplice del film ha già potuto fare dell’imam il responsabile della radicalizzazione dello sprovveduto adolescente, a cui mancano disciplina familiare e punti di riferimento sociali. Ma è una lettura troppo facile. Proprio come nella realtà. Ahmed non è vuoto. Al contrario. Ahmed è pieno della incorrotta e pura semplicità di cui testimoniano i martiri di ogni religione. I guerrieri della jihad di cui parlano le nostre cronache, di poco più adulti di Ahmed, ritrovano spesso quella semplicità dopo una vita di bagordi spesa nel peccato, da cui la fede offre l’illusoria dignità di una via di uscita, una rassicurante epifania. Il giovane Ahmed, al contrario, è puro e incorrotto nella fedeltà monomaniacale al suo libro che, fra Cervantes e Zweig, egli insegue più come un sonnambulo Quixote che come un angosciato dottor B.

Il contrasto è netto e la costruzione dei personaggi sublime in questo senso. Tutti agiscono, intorno ad Ahmed, secondo una propria razionalità strumentale: l’amore per il figlio che perdi e che ti rinnega, l’affetto per l’allievo che si credeva di aver salvato dal fallimento scolastico, il rigore benevolo per il giovane verso cui la società ha il dovere della rieducazione e del reinserimento, l’influenza sul giovane adepto subdolamente strappato al mondo corrotto dei kouffar, i miscredenti. Ma Ahmed è sorprendentemente refrattario a ognuno di questi attori razionali. Refrattario perché limpidamente estraneo alla razionalità strumentale del loro agire. Non è per obbedienza all’imam che Ahmed passa all’atto (al contrario!), o per odio verso la sua potenziale vittima, o per rancore verso una società che lo emargina; per niente di tutto questo Ahmed si getta a braccia aperte verso il destino che si è scelto. Al contrario, è per un candore incurante, per una purezza disinteressata che è divenuta per lui una seconda natura e che lo ha ormai soggiogato pienamente. Un perfetto esempio di automa spirituale.

 

 

Eppure c’è un momento in cui tutto avrebbe potuto basculare. Un momento in cui la camera rallenta il movimento, sospende la sua nevralgica palpitazione, in cui lo spazio prossemico magicamente costruisce una luminosa alternativa al destino di morte. Ahmed si vede offrire un affetto inatteso. Affetto che rivela un’insospettata maturità negli occhi di una ragazzina della sua stessa età. Un affetto saldamente posato sulla nuda terra, sorprendentemente sicuro di sé, nella sua spontaneità, tanto da aprirsi senza alcun timore all’altro, ad amarlo invece di temerlo. Proprio questa sicurezza, di cui Ahmed si sentiva l’unico depositario, una sicurezza uguale e contraria a quella della sua fede monomaniacale scatena la crisi. Materialismo degli affetti contro idealismo della superstizione? Il film è aperto, lo spettatore giudicherà da sé. Non sfuggirà tuttavia la metafora degli occhiali, che Ahmed ha avuto l’occasione di togliersi, per guardare finalmente il mondo con i propri occhi.

La potenza di questo film sta nella sua apertura e nella sua ambivalenza. Non ridere, non piangere, ma comprendere, suggeriva ancora Spinoza. I Dardenne impiegano ogni mezzo per alimentare timore e speranza: l’uno più vano dell’altro per il giovane Ahmed e per impedirci di comprendere fino in fondo in cosa si è trasformata la sua vita, prima ancora di essere vissuta. L’ultima scena del film, l’ultimissima frase pronunciata da Ahmed è essenziale in questo senso. Ahmed ha mentito per tutto il film, con spietata innocenza. Non perché sia malvagio ma, al contrario, perché la sua menzogna non è differente dalla sua verità. Non è sempre con odio che il martire distrugge, ma con amore: potere dell’ambivalenza.