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MONDO

L’Algeria in rivolta: «Ci siamo risvegliati e la pagherete!»

L’abdicazione del presidente Bouteflika è una vittoria storica per il popolo algerino. Ma la battaglia per una vera transizione democratica non è ancora finita

Ciò che sta accadendo in Algeria è una svolta storica. Il popolo ha vinto la sua prima battaglia nella lotta per modernizzare radicalmente il sistema. Abdelaziz Bouteflika, presidente per gli ultimi vent’anni, è stato costretto ad abdicare dopo più di sei settimane di proteste per le strade e una riconfigurazione di alleanze all’interno delle classi dominanti.

Da venerdì 22 febbraio milioni di persone, giovani e meno giovani, uomini e donne provenienti da diverse classi sociali si sono presi le strade con una rivolta imponente, si sono riappropriati dello spazio pubblico, che da tempo era stato loro tolto. Le storiche marce del venerdì seguite da proteste nei diversi settori (scuola, sanità, industria petrolchimica, studenti, ecc.), il popolo unito nel suo rifiuto del sistema dominante e nelle sue richieste di cambiamento democratico radicale.

I due slogan emblematici di questa rivolta pacifica, “Devono andare via tutti!” e “Il paese è nostro e facciamo quello che vogliamo”, simboleggiano l’evoluzione radicale di questo movimento popolare, che è stato innescato dall’annuncio del presidente ottuagenario di volersi candidare per un quinto mandato nonostante le sue gravi condizioni di salute; Bouteflika non si era rivolto alla nazione per quasi sei anni.

Ciò che rende questo movimento veramente unico è la sua enorme scala, il carattere pacifico e l’estensione nazionale, che include il sud emarginato. Il movimento è inoltre caratterizzato dalla significativa partecipazione di donne e specialmente giovani, che costituiscono la maggioranza della popolazione. L’Algeria non ha assistito a un così esteso movimento, vario e diffuso, dal 1962, quando gli algerini scesero in strada per celebrare la loro indipendenza dal governo coloniale francese conquistata duramente.

L’insurrezione ha colto molti di sorpresa. All’inizio di febbraio, l’umore politico era ancora quello di disperazione e rassegnazione a quello che le autorità si stavano preparando a fare in merito alle elezioni presidenziali programmate per aprile 2019. Il panorama politico generalmente arido è stato il risultato della decimazione di una genuina opposizione politica all’interno del paese insieme alla repressione e/o alla cooptazione di sindacati e simili attori della società civile.

Le proteste popolari di massa a partire dall’ultimo febbraio hanno tuttavia rovesciato questo status quo, creando un grosso potenziale per il cambiamento e la resistenza. Con lo slogan “Ci siamo risvegliati e la pagherete!” il popolo sta esprimendo la sua riscoperta volontà politica. Il processo liberatorio è allo stesso tempo trasformativo. Possiamo esserne testimoni con l’euforia, l’energia, la creatività, la fiducia, lo spirito, l’umorismo e la gioia, che questo movimento ha ispirato dopo decenni di repressione sociale e politica.

Questa rivoluzione è come una boccata d’aria fresca. Il popolo ha affermato il proprio ruolo come artefice del proprio destino. Fanon [intellettuale francese nativo di Martinica e rappresentate del movimento terzomondista per la decolonizzazione, morì nel 1961, prima dell’indipendenza algerina, nota del traduttore] illustra come, in mezzo ai disastri peggiori, le masse trovano i mezzi per riorganizzarsi e continuano la loro esistenza quando hanno un obiettivo comune di sbarazzarsi dei loro oppressori ed emanciparsi.

PACE INTERNA, CONSENSO INTERNAZIONALE

Questo risveglio decisivo da parte del popolo e la sua crescente coscienza politica sono avvisaglie delle buone cose a venire e dei giorni movimentati futuri per le caste speculatrici e i loro finanziatori esteri che si sono arricchiti scandalosamente. Tra l’aumento dell’impoverimento, della disoccupazione, dell’austerità paralizzante, della depredazione delle risorse, dello sviluppo impari e della corruzione, la razionalità della rivolta e della ribellione in corso diventa assolutamente chiara.

Innanzi tutto è importante notare che questa eruzione della rabbia popolare è il risultato di un accumulo di lotte e di atti di resistenza che risalgono agli anni Ottanta, di cui il più recente esempio è costituito dalla rivolta contro il gas di scisto del 2015 e il movimento dei disoccupati nel Sahara algerino dal 2012.

L’insurrezione algerina dovrebbe anche essere analizzata alla luce del contesto di un processo rivoluzionario protratto che è dilagato attraverso la regione araba nell’ultimo decennio, partendo dalla Tunisia ed espandendosi in Egitto e in una dozzina di altri paesi. Ovviamente questo processo è stato carico di contraddizioni e ha visto alti e bassi, conquiste e ostacoli, che si sono concretizzati in una transizione liberale democratica e in contro-rivoluzioni sanguinose e interventi imperialisti negli altri paesi, testimoni di queste rivolte.

Nove anni fa, l’Algeria sembrava essere immune da questa febbre rivoluzionaria ed era considerata un’eccezione alla regola, nonostante nutrisse la stessa serie di condizioni per la rivolta. In quel periodo il governo suggerì che l’Algeria avesse già sperimentato la propria “primavera” più di due decenni prima, riferendosi alla transizione democratica di breve durata, che seguì alle settimane di dimostrazioni nell’ottobre 1988, che costrinsero il regime a cedere al pluralismo politico e a una stampa indipendente. Queste vittorie in termini di diritti civili e la “transizione democratica” furono tuttavia interrotte dal golpe militare e dalla guerra civile degli anni Novanta.

Oltre a forme di repressione in atto, i ricordi collettivi di centinaia di migliaia di morti e della brutale violenza di stato a sostegno dello sradicamento dell’opposizione islamista potrebbero aiutare a spiegare il fallimento dell’espansione di una rivolta in Algeria durante il biennio 2010-2011. Lo spettro della guerra civile e la paura della violenza sanguinosa sono stati esacerbati ulteriormente dall’intervento in Libia, dalla contro-rivoluzione in Egitto e dal massacro e dall’interferenza straniera in Siria.

Inoltre, il fatturato di petrolio e gas, i cui prezzi hanno raggiunto il picco nei tardi anni Duemila, è stato usato per comprare la pace sociale a livello nazionale e per assicurarsi il consenso internazionale. All’interno del paese, la manna degli idrocarburi è stata utilizzata per placare la popolazione e prevenire l’intensificazione della rabbia popolare. All’estero, in virtù di essere il terzo maggiore fornitore di gas naturale all’Europa dopo Russia e Norvegia, e data la produzione in calo nel Mare del Nord e la crisi in Ucraina, l’Algeria ha sperato di poter usare questa posizione a proprio vantaggio per giocare un ruolo ancora più importante nell’assicurare i rifornimenti di energia in Europa e, per estensione, ottenere la collusione e l’appoggio dell’Occidente.

Questi fattori non costituiscono più un freno al desiderio del popolo per un cambiamento significativo dal momento che il malcontento popolare dal basso è coincisa con una crisi profonda all’interno delle classi dominanti facendo sì che l’indignazione degli oppressi erompesse e trovasse la sua espressione nelle strade.

LA CRISI POLITICA E LE BATTAGLIE INTERNE DI POTERE

L’Algeria sta subendo un intenso disfacimento multidimensionale da un po’ di tempo a questa parte. Il paese sta vivendo una crisi politica da decenni, in particolare dal golpe militare del 1992 e la conseguente brutale guerra civile. Le origini di questa crisi risalgono all’era coloniale, sebbene le sue manifestazioni più recenti siano il risultato diretto di politiche di accumulo parassitario e corruzione radicato: una relazione militare-oligarchica che nega al popolo algerino il proprio diritto all’autodeterminazione e dispensa della legittimità popolare a beneficio del capitale nazionale e internazionale.

Questa crisi è stata esacerbata da diversi fattori, non da ultimo dall’assenza generale di Bouteflika, ormai malato, dal panorama politico. La crisi di potere è stata aggravata dalle lotte di potere tra le élite, culminando nella caduta di una delle figure da tempo più influenti in Algeria, il capo del Département du Renseignement et de la Sécurité (DRS) [il servizio di intelligence algerino, nota del traduttore] nel 2015 e lo scandalo della cocaina del 2018, che ha portato al licenziamento del capo della polizia, qualche generale e altri alti funzionari del Ministero della difesa.

In un contesto di fallimento dell’opposizione istituzionalizzata e dei movimenti sociali a esprimere e mettere in pratica un’alternativa sostenibile, nel 2016 avevamo predetto che: «il crollo del prezzo del petrolio potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso per un’economia che vive di rendita, improduttiva e deindustrializzata, che è fortemente dipendente dall’esportazione di petrolio e gas, la principale risorsa della valuta estera… Con il prezzo del petrolio a picco e con le riserve di moneta estera (stimate a 179 miliardi di dollari alla fine del 2014) che si ritiene non dureranno oltre il 2016-2017, l’esperienza del 1988 potrebbe replicarsi facilmente e la crisi ha il potenziale di inasprirsi in una grossa esplosione che minaccerà la sicurezza nazionale del paese e possibilmente la sua integrità nazionale».

Gli eventi recenti arrivano in un momento di crisi economica acuta caratterizzata da misure di austerità paralizzanti in seguito al declino dei proventi delle esportazione di petrolio e gas, insieme a un’intensificazione delle lotte intestine e delle divisioni all’interno delle élite dominanti dopo l’imposizione della candidatura di Bouteflika per un quinto mandato alla guida dello stato.

La triade del potere composta dalla presidenza, dall’intelligence militare (DRS) e lo stato maggiore delle forze armate ha mostrato i suoi primi segni di cedimento nel 2008, quando il DRS ha cominciato a scontrarsi con gli altri due centri del potere. Nel 2019 la rottura fu completata, quando l’ingresso decisivo del popolo nella scena politica ha di fatto costretto lo stato maggiore delle forze armate a prendere le distanze dalla presidenza. L’esercito è chiaramente intervenuto per mettere fine al regno di Bouteflika al fine di salvaguardare il regime in vigore.

Tali manifestazioni pubbliche di rivalità e conflitto sono sintomatiche delle profonde contraddizioni e dell’instabilità dell’attuale blocco di governo e della crisi dell’egemonia al suo interno, che ha aperto nuovi spazi di resistenza.

Questo è un momento significativo nella dinamica popolare cominciata a febbraio 2019, perché questa è solamente una vittoria nella lunga battaglia per il cambiamento radicale che deve includere anche il rovesciamento del generale Gaid Salah, capo di Stato maggiore; una figura chiave, egli era devoto al regime di Bouteflika e sostenitore del suo quinto mandato prima di ritrattare sotto la pressione del crescente movimento popolare. Di certo non bisogna fidarsi della leadership dell’esercito, come è stato chiarito dalle prime intimidazioni dal generale Salah nei confronti del movimento, prima di usare un tono più conciliante. Il popolo algerino deve essere più vigile e determinato che mai per fermare le forze contro-rivoluzionarie dal dirottare questa rivolta storica.

Adesso che Bouteflika ha rassegnato le dimissioni, è assolutamente necessario applicare una vera transizione democratica, e il popolo non dovrebbe cedere alle richieste di applicazione dell’articolo 102 della costituzione, che permetterebbe al leader della camera alta di assumere il controllo e organizzare le elezioni entro 90 giorni, dopo che la presidenza è stata dichiarata vacante dal Consiglio costituzionale (in quanto colui che dovrebbe esercitare le sue funzioni è troppo malato per farlo).

In sostanza, se applicato alla lettera, esso manterrà il sistema attuale così com’è e non garantirà elezioni libere e trasparenti. Il popolo sta richiedendo la propria sovranità, che non può essere limitata da argomenti strettamente legalistici e costituzionalisti. Questo è un momento unico nella storia dell’Algeria per imporre un nuovo paradigma rivoluzionario che va oltre le strutture legali e costituzionali, che sfiderà radicalmente lo status quo e getterà le basi per una rottura fondamentale con il sistema oppressivo in atto.

Ci sono già diverse proposte per risolvere la crisi e iniziare una specie di transizione che soddisferà le richieste del popolo, riconsegnandogli la sovranità repressa. Il comando dell’esercito non deve interferire con questo processo e deve mantenere il proprio ruolo costituzionale di garante della sicurezza nazionale. Gli algerini non sono insorti per sostituire alcuni oppressori con degli altri.

Per questa ragione, l’equilibrio delle forze deve essere spostato significativamente verso le masse, che andranno avanti con la resistenza (attraverso marce, occupazioni di spazi pubblici, scioperi generali, ecc.) per costringere il comando dell’esercito a cedere alla richiesta del popolo per un cambiamento del sistema, che implichi la rimozione di tutta la vecchia guardia politica.

ALLA BASE DELLE RAGIONI ECONOMICHE

La crisi economica che è all’origine della rivolta attuale, è in atto da lungo tempo. Già verso la metà degli anni Ottanta, il programma di sviluppo nazionalista dell’Algeria degli anni Sessanta e Settanta era considerato un fallimento e il tentativo di separarsi dal sistema capitalista globale è stato fermato e sostituito dall’economia di mercato. Similmente ai processi che si sono verificati altrove nella regione, questo nuovo orientamento comportava la de-industrializzazione dell’economia, lo smantellamento e privatizzazione di aziende pubbliche, deregolamentazione e altre forme della ristrutturazione neoliberale. Come risultato, una rete di militari e cittadini borghesi hanno assunto il controllo nel modellare l’agenda socio-economica dell’Algeria in linea con la dottrina neoliberale globalmente dominante.

Negli anni Novanta, l’esperienza algerina non era solamente quella di un’orribile guerra civile, ma anche di liberalizzazioni economiche forzate dettate dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) e dalla Banca Mondiale. Era il turno dell’Algeria di sperimentare la “Shock economy” [dal titolo del saggio del 2007 della giornalista canadese Naomi Klein, nota del traduttore] con l’introduzione di politiche dolorose ed estremamente controverse. Una direzione che ha comportato la chiusura di aziende statali, prestiti dall’IMF, l’avvio dell’economia di bazaar import-export, per non parlare dell’assoggettamento del popolo algerino a rigide misure di austerità e a ulteriori rinunce della sovranità nazionale.

Questo processo di riallacciamento dell’economia nazionale al capitale internazionale è risultato nella compradorizzazione delle élite dominanti, che hanno allineato i propri interessi e quelli nazionali subordinanti a quelli del capitale internazionale. Eppure, già alla fine degli anni Novanta, gli eccessi algerini hanno portato al suo isolamento diplomatico.

La dichiarazione dell’amministrazione Bush di «una guerra globale contro il terrore» a seguito degli attacchi dell’11 settembre, hanno fornito un’opportunità perfetta alle classi dominanti algerine per guadagnarsi un rinnovato supporto occidentale (soprattutto americano). Alla fine del 2002, il presidente Bouteflika ha scritto una lettera dal titolo “Un amico in Algeria”, che è stata pubblicata sul Washington Times. In essa promise la completa cooperazione dell’intelligence e rassicurò gli Stati Uniti circa il rifornimento energetico. In breve, durante i due decenni successivi al colpo di stato del 1992, la dipendenza del regime algerino dalla legittimazione e dal supporto esterni (invece di quelli popolari) è divenuto il modus operandi.

Non possiamo apprezzare appieno la situazione politica in Algeria senza esaminare l’influenza e l’interferenza straniere e comprendere la questione economica dalla prospettiva dell’esproprio delle risorse naturali e dell’energia del (neo) colonialismo. Ciò include le enormi concessioni fatte alle multinazionali e le pressioni provenienti dall’esterno per eseguire ulteriore liberalizzazioni al fine di rimuovere tutte le restrizioni al capitale internazionale e integrare pienamente l’Algeria nell’economia globale in una posizione totalmente subordinata.

I tentativi di concludere una nuova legge per gli idrocarburi nel 2019, che sarà più favorevole alle multinazionali e che offre loro più incentivi (ovvero concessioni) per gli investimenti, incarnano questa tendenza e aprono la strada a progetti distruttivi come lo sfruttamento del gas di scisto nel Sahara e le risorse offshore nel Mediterraneo.

VERSO UNA VERA TRANSIZIONE DEMOCRATICA?

Se l’Algeria continua su questa strada di liberalizzazione e privatizzazione, ci saranno sicuramente ulteriori esplosioni di disordini e malcontento popolare, in quanto il consenso sociale non può essere raggiunto mentre continuano l’impoverimento, la disoccupazione e l’ineguaglianza. Se sostenute, le politiche neoliberali bloccheranno il processo di democratizzazione in Algeria e finiranno per rinforzare un regime autoritario con una facciata democratica.

La priorità della questione socio-economica è stata dimostrata dall’esperienza tunisina: una transizione “democratica” neoliberale che non ha risolto nessuno dei problemi che hanno portato alla rivoluzione. È stato piuttosto un processo dinamico che ha distrutto lo spirito rivoluzionario del popolo.

Democrazia significa sovranità del popolo e non può essere ridotta a mero elettoralismo. Una democrazia genuina può essere costruita solamente se è opposta all’imperialismo e ai suoi lacchè locali della borghesia compradora, oltre al capitalismo neoliberale e alle sue politiche di espropriazione. Per ottenere l’autentica indipendenza nazionale, la giustizia sociale e la vera democrazia, non possiamo separare le lotte democratiche (antiautoritarie), sociali (anticapitaliste) e antimperialiste.

Quest’ultima dimensione è stata riaffermata da una strenua ostilità del popolo algerino verso ogni sorta di interferenza straniera. Esso ha fortemente respinto la complicità francese con le fazioni dominanti e disapprovato i tentativi dell’ex Ministro degli esteri Ramtane Lamamra di internazionalizzare il conflitto attraverso i suoi viaggi negli Stati Uniti, in Europa, in Russia e in Cina.

Di conseguenza è chiaro che qualsiasi transizione che non affronterà le questioni di giustizia sociale ed economica così come la sovranità nazionale e popolare sulle risorse naturali sarà vacua e seminerà i germi delle rivolte e delle insurrezioni future. Saremo sicuramente capaci di far meglio che continuare ad attuare altre disastrose politiche economiche che hanno portato il popolo a sollevarsi e ribellarsi in primo luogo.

Dopo l’abdicazione di Bouteflika è iniziato un nuovo capitolo nella rivolta algerina; un capitolo in cui le organizzazioni e gli intellettuali che sono ben coscienti e armati di principi rivoluzionari dovrebbero sbarrare la strada al dominio delle forze armate e all’oligarchia compradora. Slogan come “L’esercito e il popolo sono fratelli” non possono essere applicati ai generali corrotti che hanno beneficiato del governo di Bouteflika e lo hanno sostenuto.

Il popolo algerino (in particolare le masse popolari) deve essere diffidente dell’interventismo di tali attori per evitare uno scenario alla Al-Sisi in Egitto. Anche lì, Al-Sisi ha affermato di intervenire a nome del popolo quando ha messo in atto il colpo di stato contro Morsi e sappiamo tutti cosa è successo dopo. Potrebbe essere tattico trarre profitto dalla lotta interna in corso tra le élite al potere, ma sarebbe un errore fatale credere che la leadership dell’esercito possa essere dalla parte del popolo o della sua rivoluzione.

In questo momento, gli intellettuali rivoluzionari organici, i leader dell’opposizione e gli attivisti devono assumersi lo storico compito del coinvolgimento e della riflessione con le masse, educandole politicamente, organizzandole e facendo avanzare le loro richieste. A questo riguardo i sindacati autonomi, i comitati studenteschi, le organizzazioni di disoccupati possono svolgere un ruolo importante nella mobilitazione delle persone, incanalando la loro rabbia.

Alcuni in Algeria chiedono un periodo di transizione da tre a sei mesi. Ciò deve essere respinto perché non dobbiamo metterci fretta. Deve essere dato abbastanza tempo alle masse per organizzarsi a livello locale e affinché i rappresentanti e i leader emergano in modo organico per partecipare pienamente alla costruzione di una democrazia radicale.

Il confronto è al centro di ogni pratica rivoluzionaria, dunque, invece di evitarlo, è meglio preparare e continuare a organizzare e moltiplicare gli spazi per il dibattito e la riflessione sulle vere alternative democratiche all’attuale status quo dello sfruttamento e dell’autorità. Le masse devono continuare a mobilitarsi e respingere qualsiasi intervento straniero. Per non perdere questa storica opportunità, la transizione democratica deve aver luogo su iniziativa e sotto la guida del popolo.

Hamza Hamouchene è un ricercatore algerino, attivista e opinionista. È il coordinatore di Environmental Justice North Africa (EJNA) e co-fondatore di Algeria Solidarity Campaign (ASC).

Articolo originale pubblicato l’8 aprile 2019 su roarmag

Traduzione di Serena Tarascio per DINAMOpress