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La trappola negazionista. Se Auschwitz è nulla di Donatella Di Cesare

Torna in una nuova edizione un saggio utile per smontare il pericoloso congegno ideologico del negazionismo, comprenderne il funzionamento, difendersene e cercare di neutralizzarlo

«Ciò che li spaventa non è il contenuto della verità, che neppure sospettano, ma la forma stessa del vero, questo oggetto di approssimazione indefinita»

Jean-Paul Sartre

Il motivo per cui Se Auschwitz è nulla, bellissimo saggio di Donatella di Cesare originariamente pubblicato nel 2012, si presenta oggi sotto una nuova luce, non è da ricercare solo nei nuovi contenuti che caratterizzano la riedizione ampliata, uscita qualche giorno fa: mutato è il contesto storico con cui il testo si trova a dialogare, segnato dalla crisi profonda che la pandemia ha determinato nel cuore della nostra società; diversa è la fisionomia del dibattito pubblico che, dopo aver subito un processo di lenta degenerazione lessicale e concettuale nell’ultimo decennio, è precipitato negli ultimi due anni in un territorio buio, caratterizzato da diffuse derive complottiste e dal fenomeno della negazione della pandemia.

Le riflessioni di Di Cesare sul negazionismo, che dieci anni fa si interfacciavano con un fenomeno tutto sommato circoscritto, assumono oggi una valenza diversa, entrando in risonanza con alcune configurazioni discorsive che attraverso i social media hanno assunto un’inedita rilevanza: complotto e negazione.

Il negazionismo nel XXI secolo ha oltrepassato gli argini della negazione della Shoah, per diventare, come scrive Di Cesare, «una forma di propaganda politica che negli ultimi anni si è diffusa entro lo spazio pubblico coinvolgendo ambiti diversi e assumendo accenti sempre più subdoli e violenti (…) Basti pensare alla recente sconcertante negazione della pandemia, non riducibile a frange estreme, per tacere di coloro che ridicolizzano o banalizzano l’emergenza climatica».

Smontare questo pericoloso congegno ideologico, comprenderne il funzionamento, è utile per difendersene e per cercare di neutralizzarlo. Per questo è estremamente istruttivo seguire il ragionamento che Di Cesare conduce con rigore e profondità di analisi, alla ricerca di una mappatura concettuale del fenomeno negazionista, di una ricognizione della sua progressione storica, di un esame dei suoi tropi retorici e dei suoi temi ricorrenti, di una strategia per arginarlo: sia nella sua forma originaria di negazione dell’esistenza dei campi di sterminio e delle camere a gas, che nelle sue gemmazioni contemporanee. Le pagine del saggio si concentrano perciò su diversi aspetti del fenomeno negazionista, tracciandone la storia e la morfologia.

Sul piano storico, Di Cesare individua quattro cesure periodizzanti, che contraddistinguono altrettante modalità di configurarsi del discorso negazionista.

La prima è la fine della Seconda Guerra Mondiale. Già nell’immediato dopoguerra circolano nei confronti degli ebrei accuse di “menzogna” e “falsificazione della storia”: è la nuova sembianza sotto cui si presenta l’antisemitismo postbellico, quella della negazione di ciò che è accaduto. Gli ebrei vengono accusati di mentire, riproducendo l’antico stereotipo antisemita dell’ebreo “mentitore”. I testimoni vengono presi per falsari. Le prove messe in discussione con metodi capziosi, volgari e banalizzanti.

La seconda discontinuità è rappresentata dalla Guerra dei sei Giorni, che offre alla retorica negazionista nuova linfa di cui sostanziarsi. Gli ebrei avrebbero studiato la menzogna dello sterminio «non solo per colpevolizzare l’Europa e tenere sotto scacco la Germania, ma anche per trarre profitto da quella “truffa” che ha permesso la creazione abusiva dello Stato di Israele». Torna in vita, con nuove vesti, la paranoia del complotto ebaico mondiale.

La terza fase è inaugurata invece dall’affaire Faurisson, che coinvolge il mondo accademico e si introduce abilmente nel dibattito storiografico.

Il negazionismo si presenta stavolta come “revisionismo storico”, come interpretazione alternativa dei fatti, pretendendo di potersi legittimamente insediare nella saggistica, nelle aule universitarie, nelle pagine culturali dei giornali.

Dagli anni Novanta si assiste ad una quarta fase, dove l’elemento di novità è costituito dalla diffusione del negazionismo nella Rete e nei social media, con un processo di rafforzamento e di espansione nel discorso pubblico. Il negazionismo inizia a colonizzare altri ambiti di discorso: invece che indebolirsi, come un residuo del passato destinato a scomparire, si rinforza, muta la propria forma, diventa forma mentis diffusa e accettata da aree non trascurabili dell’opinione pubblica.

Oltre l’analisi storica del fenomeno, l’aspetto del libro che con più forza interroga il presente, è la ricostruzione di una “morfologia” del negazionismo, di cui Di Cesare individua alcuni mitologemi fondativi. Questa operazione consente peraltro di traslare il concetto di “negazionismo” al di fuori del suo contesto originario, quello della negazione della Shoah, trasformandolo in un paradigma con cui comprendere alcuni aspetti dell’ideologia contemporanea. Il “discorso” negazionista si configura infatti come un complesso costrutto ideologico, che si può sezionare in una serie di elementi ben riconoscibili.

È profondamente radicato nel negazionismo un pervasivo scetticismo nei confronti del sapere, dalla scienza e degli “esperti” che la rappresentano.

Questo disprezzo per la verità elaborata dalla comunità scientifica non nasce da una sensibilità per così dire “epistemologica”, ma da un’accusa sistematica – per quanto priva di reali prove fattuali – di asservimento della verità al potere. Il negazionismo si nutre della convinzione che i circuiti dell’informazione e della ricerca scientifica accreditati come validi nella nostra società, siano in realtà asserviti a poteri occulti. I negazionisti ritengono che la comunità scientifica, i giornali, la comunità degli storici, dei letterati, dei filosofi, non siano nient’altro che strumenti, più o meno consapevoli, nelle mani di “poteri” dai contorni imprecisi, in cui gli ebrei giocherebbero un ruolo chiave. «Nel rifiuto della “versione ufficiale», nella millantata ricerca di un’“informazione alternativa” – scrive Di Cesare – «il negazionismo lascia intravvedere quel dispositivo del complotto che ne costituisce la matrice».

Il “complottismo” è infatti il secondo tratto caratteristico del discorso negazionista. Lo sterminio degli ebrei viene negato a partire dalla convinzione che vi sia un complotto, ordito da forze profonde e invisibili, da potenti élite ebraiche, capaci di piegare la storia in proprio favore, per legittimare le proprie ambizioni di dominio, a partire dalla creazione, per i negazionisti illegittima, dello Stato di Israele.

Da qui scaturisce un terzo elemento caratteristico, il “vittimismo”. Il negazionismo capovolge i ruoli della storia, trasformando il popolo tedesco in una vittima e negli ebrei i carnefici, con un’acrobazia concettuale dove «l’inversione delle parti è presto un fatto compiuto. Gli ebrei vengono nazificati (…) con un capovolgimento che verrà reiterato con successo anche in altri contesti».

Chi difende con argomenti razionali e ben fondati la verità storica, è bersagliato con argomentazioni surreali, che si accaniscono su particolari irrilevanti, tramutati in chiavi di lettura universali. I negazionisti «vanno perlustrando ossessivamente le indagini altrui per trovare un’inesattezza, un’incoerenza, lo spiraglio di una contraddizione (…) si attaccano ad ogni particolare». Questo rapporto di radicale nichilismo nei confronti della verità storica ci porta a riflettere su un altro punto.

L’interrogativo filosofico più importante posto da Di Cesare riguarda la possibilità di considerare il negazionismo come un’opinione fra tante. La questione sembra banale, quasi difficile da comprendere: come negare a una teoria, per quanto subdola, lo status di “opinione”? Per rispondere Di Cesare articola un discorso complesso sul senso della libertà di opinione, un discorso che, per essere svolto, richiede un’analisi non superficiale dei due sostantivi che compongono il sintagma, “libertà” e “opinione”.

Di Cesare insiste soprattutto sul secondo termine e si chiede se il negazionismo possa legittimamente essere ammesso a interloquire, su un piano di paritetica competizione intellettuale, con altre “opinioni” e “teorie” concorrenti, come se si trattasse semplicemente di un’opzione interpretativa come tutte le altre.

Il punto è di speciale importanza, se si considera che uno dei dispositivi difensivi più efficaci del discorso negazionista consiste proprio nella rivendicazione vittimistica della libertà di opinione, di cui i suoi sostenitori si fanno paladini. Non solo, anche fra i suoi oppositori si pone il problema di decidere se sia opportuno ingaggiare un confronto intellettuale con le tesi negazioniste, volto alla loro neutralizzazione, con il rischio però di legittimarne le modalità argomentative.

«Si può dire che il negazionismo sia un’opinione? (…) E rivendicare dunque, per chi nega, la libertà di intervenire nello spazio pubblico?». La questione a dire il vero non è nuova, ed era già stata affrontata dagli storici che, negli anni Ottanta e Novanta, si erano battuti con competenza ed energia contro le tesi negazioniste di Faurisson, Garaudy ecc. Nel rispetto del principio democratico della libertà di opinione, in molti avevano deciso di accettare un confronto con le tesi negazioniste, con le sole armi dell’analisi critica delle fonti, del rigoroso controllo di testimonianze e documenti storici.

In questo dibattito era intervenuto – purtroppo con esiti disastrosi – persino Noam Chomsky, che nel 1980 aveva preso posizione in difesa della libertà di espressione, ignorando qualsiasi considerazione di contesto storico e legittimando le tesi di Robert Faurisson, che furbescamente – prima che Chomsky se ne potesse accorgere – utilizzò le sue pagine come introduzione a un suo libro.

Al di là di questa situazione paradossale, Di Cesare insiste sull’inefficacia del confronto “alla pari” con le tesi negazioniste: «il dibattito storico è votato al naufragio contro chi nega anche di fronte alla prova più schiacciante».

E questo perché, come sosteneva già Jean-Paul Sartre «l’antisemitismo non rientra nella categoria dei pensieri protetti dal diritto di libera opinione. Del resto è tutt’altro che un pensiero. È innanzi tutto una passione».

Contravvenendo in modo sistematico ai più elementari e condivisi criteri di verificazione scientifica, il negazionismo rivendica la libertà di opinione senza accettare le regole dell’“opinare”, disgrega le regole condivise dell’argomentazione, rifiutando il dialogo razionale – di cui propone solo una versione contraffatta – come prassi fondativa del legame sociale e dei processi decisionali: «è la condivisione stessa [dello spazio pubblico] che i negazionisti vogliono minare». Per questo, conclude Di Cesare, il negazionismo «non è un’opinione come un’altra. Piuttosto è la soppressione delle condizioni per un confronto. È un’attività fantasmatica, non una ricerca intellettuale. E come tale si esercita in una vuota, spettrale, funerea negazione».

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