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La scia di Moby Dick. Su una balena bianca e l’Atlantico nero
La bella mostra sul mito di Moby Dick al Palazzo ducale di Genova offre l’occasione a F. Rahola di sfruttare uno spunto appena suggerito nella rassegna: il dialogo allegorico fra la bianchezza della balena albina e la nerezza del middle passage, la tratta degli schiavi su quel medesimo Atlantico. E ci si interroga se quella “balena” non abbia a che vedere con l’immagine benjaminiana del passato che “balena” nel momento del pericolo
C’è una mostra molto bella su Moby Dick, a Genova (Moby Dick. Storia di un mito dall’antichità all’arte contemporanea, a cura di Ilaria Bonacossa e Marina Avia Estrada, Palazzo Ducale), e al suo interno, forse, una lacuna: come uno spazio vuoto colmato da uno straordinario film di John Akomfrah (Vertigo sea, già presentato a Kassel nel 2016) e da un dialogo che non si instaura, perlomeno non del tutto, tra la mostra e un’opera, un libro e una storia, Moby Dick e il Middle Passage. Ma esiste davvero la possibilità di un dialogo tra quella balena bianca e l’Atlantico nero, tra gli itinerari impazziti di un ineffabile capodoglio albino e il viaggio di mezzo di 16 milioni di donne e uomini strappati da terra/africa, trasportati in catene, stivati in navi negriere, depositati sui fondali o tradotti in merce in un nuovo altro-mondo?
Allegorie incrociate
Forse è proprio questa (im)possibile relazione, questo (im)possibile dialogo il vero vuoto all’incrocio tra i mille angoli, punti di vista e letture che continuano ad assillare quel romanzo del 1851 rendendolo un enigma, una presenza enigmatica come la sua balena.
Eppure ci sono indizi. Ci sono la biografia e la scrittura di Melville, che nella vita è stato clerk e marinaio («ogni volta che un umido novembre mi scende nell’anima …cerco il mare»), e poi anche Bartleby, the Scrivener, del 1853, che ha due anni meno di Achab ma sembra più vecchio, afflitto da molti umidi novembri. Sono entrambi racconti di sparizione, due possibili figure del nichilismo (che presagiscono Kurtz di Conrad e forse Kafka), due risposte diverse ma analogamente ostinate nella sparizione: la distruzione e la negazione, cupio dissolvi e sciopero umano. Ma quale sparizione e quale distruzione? Di chi, di cosa?
La cifra dominante per leggere Moby Dick sembra essere l’allegoria. A partire da C.L.R. James che vede nella baleniera Pequod una metafora dello Stato, del capitale, della colonialità del potere, del totalitarismo (dello stalinismo), della fabbrica e soprattutto di un mondo già postcoloniale. L’accento per James cade infatti sull’equipaggio della nave, un crogiolo, a postcolonial crucible simile a quello che, da detenuto vittima del maccartismo, James aveva di fronte agli occhi mentre scriveva, Ellis Island 1952 (da dove indirizzava una strana lettera al Congresso con una pistola puntata alla tempia), ma simile anche alle motley crew delle navi dei pirati o a quella di cui scriverà Amitav Gosh nella trilogia dell’Ibis.
Whiteness
Quindi c’è l’enigma centrale, narrativo, diegetico, il terrore bianco incarnato da Moby Dick. E il capitolo forse più controverso e sorprendente del romanzo, quello sulla whiteness, la bianchezza della balena: come leggere questo sublime/terrore bianco?
Una lecture di Toni Morrison e un titolo che resta conficcato, “Unspeakable things unspoken”, interpretano il terrore che ammanta la whiteness come nucleo ideologico centrale del romanzo, un terrore costruito sulla (rimozione della) schiavitù, sulle black lives, di fronte al quale Melville (probabilmente abolizionista, verosimilmente antirazzista) e il suo Achab escono pazzi. Sulla scia di Morrison ci si potrebbe chiedere come è stato silenziato tutto quanto non è bianco, ed è soprattutto nero, dentro al mito della whiteness, e pensarlo con lei come «a ghost in the machine»:
«Le cose invisibili non sono necessariamente inesistenti, un vuoto può essere un vuoto ma non necessariamente il vuoto assoluto, un vacuum […] Quali imprese intellettuali hanno dovuto compiere l’autore o il suo critico per cancellarmi da uno società che ribolle della mia presenza, e quale effetto ha avuto tale impresa sull’opera?». È la domanda che Morrison rivolge, come metodo, non tanto a Melville, che in qualche modo risponde con la pazzia di Achab, ma all’intera letteratura americana: «dove si trova nel romanzo americano l’ombra della presenza da cui il testo è fuggito?» La “fuga dal nero”, più ancora che la presenza di un soggetto (barrato) “nero”, è il vero ghost in the machine: perché il 1851 è anche l’anno della sentenza del giudice Shaw (che era suocero di Melville) sul fugitive act, la legge che imponeva a chiunque, nelle libere città del nord, si imbattesse in un presunto schiavo fuggiasco di consegnarlo alle autorità e rispedirlo al mittente, al padrone, alle piantagione. E di fronte alle mobilitazioni abolizioniste e alle rappresaglie e i linciaggi delle pro-slavery mobs suprematiste, il reazionario “New York Herald” si chiedeva: «avete mai visto una balena?».
Ma quale balena? Gli schiavi in fuga, la diserzione di massa dalle catene delle piantagioni, il fugitive act, il terrore bianco, la guerra civile?
Scrivere una cronologia della balena, dalla sua «nascita in uno stato naturale alla sua trasformazione in merce» significa scrivere una cronologia del middle passage e della blackness; ma scrivere la storia di una balena bianca, che trascende tutte le altre, implica uno sforzo diverso, confrontandosi con qualcosa che diventa un’astrazione, «un’idea malvagia”» e che fa impazzire.
Quale nasty idea? Per Melville, secondo Morrison, è l’idea mostruosa che intorno al bianco e alla bianchezza costruisce un’ideologia della razza. Melville, sempre secondo Morrison, sarebbe «sopraffatto dalle incongruenze filosofiche e metafisiche di un’idea straordinaria e senza precedenti che trovò la sua massima manifestazione nel suo tempo e nel suo paese» (USA 1851); «l’affermazione riuscita del bianco come ideologia razziale». Ciò l’avrebbe portato a scrivere: «Questo mondo visibile e colorato sembra formato dall’amore; le sfere invisibili, bianche, sono state formate dalla paura, dal terrore», per dire che l’invenzione del bianco come (colore) invisibile è stata effettivamente costruita sulla paura, è fatta di paura.
Sul mare: balenare e balena
Ma dove appare questo bianco invisibile, il terrore che incute la balena? Fuor di metafora, la balena appare solo in mare, è una figura che può esistere in un solo e unico sfondo. Sfondo e figura hanno sempre un rapporto strabico (era Starobinski, credo) e, in effetti, più che l’America, è soprattutto il mare che dal settimo capitolo in poi diventa sfondo assoluto e quotidiano degli eventi, pretesto per le digressioni infinite che scompaginano Moby Dick. Proprio per questo, più che allegoria di vicende di terra, occorrerebbe leggere Moby Dick come un romanzo acquatico (come fa questa mostra), chiedendosi per esempio se l’idea di whiteness non nasca proprio in mare, nel mare della tratta; o più moderatamente come quel bianco cambi in mare, anche diventando un’astrazione, a nasty idea. Perché, se il mare è sfondo, ciò significa che lo sfondo determina il modo e vale più di ogni figura o silhouette che se ne stagli, definendola e (de)formandola. Qualcuno ha detto che il mare non è metafora di nulla se non del mare (o una metafora rovesciata come nell’idea di hydrarchy, la terra come metafora del mare). Forse è un’asserzione troppo categorica, ma l’assenza di allegoricità del mare dipende soprattutto dal fatto di percepirlo come pura estensione priva di scrittura, di caratteri, carattere, confini, sovranità, kharessein (C. Schmitt). Una pura superficie di cui però, oltre alle risorse, alle opportunità estrattive e ai confini mobili, si presagiscono anche gli abissi, le creature spesso mostruose che li abitano, qualcosa che affiora e risprofonda, e che non si può far altro che inseguire.
Anche grazie alla traduzione di Pavese vale davvero la pena leggere Moby Dick in italiano. Perché solo in italiano si dice balenare (in inglese flashing, in tedesco blitz). [Diz. Derivato da balena, nel senso dell’apparire improvviso di un animale fantastico – prima metà sec. XIV. Treccani attenua: forse der. di balena, secondo una tendenza popolare di indicare i fenomeni atmosferici con nomi di mostri marini]. Il significato comunque sembra convergere su questa derivazione (balena), e addirittura rovesciarlo, come sa balena provenisse da balenare, indicando qualcosa che appare improvvisamente/fugacemente, che occorrerebbe afferrare e sarebbe meglio catturare, se non altro “fotostaticamente”. Un esempio di questa fugace apparizione lo offre W. Benjamin, ricorrendo allo stesso verbo (perlomeno nella traduzione italiana): «impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo». Il tedesco Gefahraufblitzt tiene insieme le due parole, il balenare di un pericolo, quasi a suggerire la sovrapposizione tra i due termini. Con queste parole, tra l’altro, Benjamin introduce l’idea di immagine dialettica (e anche di inconscio ottico, di fotografia, l’attimo a occhio nudo invisibile in cui si allunga il passo) ed è utile riprendere quel passaggio, anche perché sembra parlare di o a Melville, Ismaele, MobyDick. [VI tesi: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propriamente è stato“. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo».]
Essere nella o sulla scia di quel momento o istante di pericolo (un’illuminazione profana versus ogni rivelazione che contenga già una verità) significa avvertire ancora l’attimo di una distruzione, di una balena bianca, di una nave, un libro, e di un autore, forse anche l’attimo prolungato di una sparizione (la scia del middle passage).
L’ultima parola, quella del titolo di questo intervento, non può essere che scia. Che in inglese si dice wake, come il titolo di un libro, In the wake di Christina Sharpe, in cui indica soprattutto l’afterlife della slavery e del Middle Passage: come se fossimo, e in realtà siamo, tutte/i ancora catturati nel mezzo di quel viaggio di mezzo (di cui Maria Téresa Alves ha immaginato un terzo tempo, la zavorra/ballast che riempiva quelle navi svuotate del loro carico umano andando a impollinare e contaminare giardini imperiali). Ma scia, aggiunge Sharpe, può indicare anche la particolare scrittura del mare, contro chi la nega: qualcosa che il mare write back, riscrive, rimanda indietro, risucchia, tramanda, inghiotte e trasporta.
Insomma, una polisemia (scia, traccia, eco, memoria, ricordo). Dizionario alla mano, Sharpe offre diverse possibili definizioni di wake: «the track left on the water’s surface by a ship, but also the disturbance caused by a body swimming or moved, in water»; e anche «the air currents behind a body in flight»; o «a region of disturbed flow» (turbolenza, forse contro-corrente). In questi termini, la scia è fondamentalmente una sorta di iscrizione basculante e volatile, sull’acqua o nell’aria, che lascia dietro di sé un segno fugace, ma anche un tipo specifico di traccia e memoria (un ricordo di e dall’acqua). Non a caso Sharpe aggiunge che wake vuol dire anche veglia funebre («a watch or vigil held beside the body of someone who has died (sometimes accompanied by ritual observances including eating and drinking)». Una veglia per tutto quanto si è depositato in mare, «balls and chains gone green» (Glissant 1990), e non solo. La parola wake contiene però anche un’apertura, che in inglese potrebbe essere resa con watershed, spartiacque, la divaricazione di scie prodotta dal passaggio di un corpo sull’acqua. Tradotto nella lingua degli storici, watershed diventa crocevia, bivio: il momento o l’incrocio a partire dal quale gli eventi possono prendere direzioni, pieghe e rotte diverse. L’aspetto interessante è che si può risalire al punto di queste divaricazioni, al momento di irruzione delle forze che le generano, magari percorrendo la storia a ritroso (a contropelo) per seguirne le diramazioni. È probabile che Melville si trovasse in questo tipo di crocevia nel 1851, anno di Moby Dick, delle fugitive laws, della Underground railroad e della diserzione in massa degli schiavi, merce che si ribella. E si potrebbe immaginare uno strano incrocio o collisione tra la sua balena bianca e le (ultime?) navi negriere. Questo forse vuol dire essere sulla scia di Moby Dick.
Ma serve una chiusura, un modo per indicare gli elementi di un dialogo e una relazione non detti, «the unspeakable things unspoken», tra un libro e una o la storia, una balena bianca e l’Atlantico nero, un’opera e una mostra. Non è facile, perlomeno concettualmente, ma può aiutare l’immaginazione, la fabulazione, e quindi anche due brani, due tracce di Laurie Anderson, One White Whale e Pieces and Parts, alla ricerca rispettivamente di una voce o un’eco e ancora di una scia, una traccia di Moby Dick. Il resto è molto incerto ed è questione di sentire o presentire una parentela, un’intimacy, delle affinità e solidarietà idriche.
Scie e angeli sull’Atlantico nero
«You leave your echoes in the water» è il modo per Anderson di (ri)sentire la scia di una balena bianca, il suono di Moby Dick, la sua non-voce, l’eco appunto, nell’acqua, dall’acqua. Ed è davvero una questione di rifrazioni sonore attraverso un mezzo mobile come l’acqua, un’eco liquida. Come si conduce, deforma o informa la voce nell’acqua? Esiste per i cetacei la possibilità di una voce che non passi attraverso l’acqua, come per gli umani l’aria, l’aere? L’acqua però, trasmettendo, modulando, attutendo, deformando, non è solo un mezzo, un conduttore di suoni, ma diventa il suono, la voce, quella voce liquida, e si tratta di un altro suono, un’altra voce, un’altra storia. Quando Derek Walcott affermava «Ocean is history», intendeva dire anche che la storia, la modernità, passa soprattutto dal mare, nasce soprattutto in mare, e che scritta dal mare diventa un’altra storia, raccontata da una voce che attraverso il mare vacilla (e fa vacillare parole come libertà, uguaglianza, proprietà, sovranità, confini), lasciando scie, portando segni a terra. Per riscoprire le traiettorie e le scie di questa storia serve ancora un brano di Laurie Anderson, che origina da un racconto, una leggenda.
Si dice che in una piantagione in Alabama, prima della guerra civile, forse sul confine che lambisce il golfo del Messico, alcuni schiavi abbiano disseppellito lo scheletro di una grande balena – addirittura un capodoglio, vallo a sapere. Anderson ha immaginato un suono e una voce per dire le parole di quegli schiavi: «these must be the bones of a fallen angel, these must be the bones of a fallen angel». Due strofe antifonali, come nel blues, quasi a ribadire che allora, forse, sono davvero le ossa di un angelo caduto, di un angelus novus, il suo precipitare rivolto al passato e risucchiato verso il futuro. Del resto, per quegli schiavi, dire angelo poteva essere un modo sensibile per rispondere a una crisi di presenza e dar senso a un mondo che non aveva più nulla di riconoscibile, privo di punti cospicui che non fossero un lavoro forzato, una piantagione, la canna, il cotone, catene, morte; un modo per reagire a un evento tanto violento quanto irrevocabile, a una cesura, un viaggio di sola andata, in cattività. Ma era anche un modo per spiegare l’inspiegabile o forse solo alluderlo (“the unspeakable things unspoken”), raccontandolo come un precipitare da un altrove letteralmente siderale, «brothers from another planet. L’idea di provenire dal cielo, da Marte, è un tema ricorrente dell’afrofuturismo, da Sun Ra in poi. E qui è anche un messaggio in codice, tipico di chi è in cattività, la percezione di un’esperienza condivisa: «brothers/sisters from the same sea». Come la balena, come Moby Dick, anche chi l’ha trovata è venuto dal mare, dall’acqua e in qualche modo lo sa, presagisce questo viaggio comune. Un’acqua che ha trasportato, trascinato, spesso inghiottito. Poi, verosimilmente, quell’acqua si è ritirata lasciando come residuo o pegno il fossile di un enorme cetaceo, una balena, a black whitewhale, compagna di traversata di corpi in catene trasformati in fossili sui fondali, in merce in una piantagione. Una traccia, un’iscrizione. Qualcosa che riaffiora e riscrive, dal mare: se fosse questo scheletro/fossile la scia di Moby Dick?
La copertina è di Christopher Michel (Flickr)
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