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La regina di ghiaccio e il grande gioco del rap

Il rap come lotta al capitalismo con Tony Joz, rapper delle scena napoletana degli anni 90 che ci porta a riflettere sulla potenza dell’industria musicale, su come sia cambiata nel tempo dalla produzione fino ai testi delle tracce

La pandemia ha colpito, in questi due anni, quei punti deboli che nella “vita normale” restano nascosti, illudendoci che vada tutto bene finché non hai la febbre o ti manca il fiato. Come nell’overture dell’iconico film L’odio, il problema non è la caduta ma l’atterraggio, eppure anche come si cade è essenziale almeno come si sta in piedi. È una questione di stile, basta chiedere ai breakers.

Parlando di hip hop, giusto per distrarsi dalla quotidiana conta dei morti e dei malati, è possibile annotare quali debolezze il virus abbia messo a nudo, rintracciando nello specifico di questa vicenda alcuni elementi utili a una discussione generale sullo stato delle culture alternative al mainstream.

Non sappiamo come e quando atterreremo ma come stiamo cadendo?

In un commento sui social scritto durante il lockdown Dj Skizo, storico funambolo del turntablism, faceva notare come, nel momento in cui tutti erano rinchiusi in casa, si fosse resa manifesta una strutturale debolezza della “scena attuale” o almeno della sua parte dominante, che mancando i club dove sfoggiare l’outfit del momento o la possibilità di girare video con catene d’oro e macchinoni, di fronte a quel disastro non aveva trovato proprio niente da dire.

Con tutta l’avversione possibile per la contrapposizione “vecchi e giovani”, non si può non ammettere che Skizo metteva a nudo un elemento strutturale che caratterizza da alcuni anni gran parte degli artisti contemporanei “di rima fila” che nel distaccarsi dal retaggio culturale degli anni ‘90, si sono infilati in uno spazio cupo.

Certo, sarebbe ridicolo, oggi, ascoltare pezzi che si rifanno a un passato che se rievocato senza il sangue vivo dell’attualità è solo esercizio di maniera, nessuno aspira a vedere riedizioni dell’Hip hop dei ’90 o delle Posse. È un fatto, però quello che viaggia in rete oggi è, in gran parte, di una piattezza disarmante.

Largo ai giovani, senza dubbio, però possiamo dire che un decennio di griffe, soldi (il cash), rivisitazioni patinate ma sempre squallide di un machismo fuori tempo massimo hanno francamente rotto le scatole? Allo stesso tempo va detto per onestà che, per quanto amore ed energia si trovi ancora nell’underground che continua a battere strade alternative alla narrazione dominante un vero e proprio nuovo orizzonte non è ancora apparso.

In questa frattura si inserisce un disco come La regina di ghiaccio e il grande gioco del rap, di Joz da quasi trent’anni sulla scena a livello del marciapiede, «cchiù underground d’e patane» per citare Clementino.

Napoletano di Fuorigrotta, Antonio “Joz” Ferreri ha attraversato da protagonista un periodo aureo dell’hip hop nostrano, segnando con uno stile sempre coerente con “il messaggio” la lunga e per certi versi oscurata storia della “doppia H” partenopea.

Da Quinto Elemento, prima formazione nata agli inizi degli anni Novanta alla storia dei 13 Bastardi, che hanno segnato un’epoca in Campania e in giro per lo stivale, con un solo disco, Persi nella giungla, per quella stramba fisionomia del rap napoletano, ricco di idee ma povero di mezzi e produttori.

Ci sono canzoni che segnano per sempre un artista e nel caso di Joz non si può fare a meno di identificarne la figura di rimatore con quel gioiello che è Per volere degli elementi, nella quale insieme a Domasan ed Ekspo ha scritto una pagina da ricordare.

Ascoltando quei versi, solidi dal punto di vista metrico e profondi da quello emozionale, non si può eludere un interrogativo: perché i numerosi gioielli di questa pagina della cultura napoletana non hanno brillato quanto meritavano? La prima risposta facile: follow the money.

A Napoli è mancata da sempre una struttura di produzione e distribuzione che avesse il coraggio di investire su un patrimonio culturale con radici profonde, se ancora oggi sono decine le crew e gli mc che si cimentano con le rime al microfono. Dall’altro lato il procedere irregolare di gruppi e singoli artisti che, a differenza di quanto accaduto a Milano (per ovvi motivi), ma anche a Bologna – che ha segnato con una storia solida un ventennio di hip hop –, hanno avuto percorsi frammentari, finendo per disperdere un patrimonio in una serie di piccoli rivoli che non hanno saputo costruire un percorso comune.

«Vengo dai tempi del bidone», racconta Joz, «pochi conoscono la storia del rap Napoletano e delle sue origini, ma chi ha letto Vai mò (Napolimonitor ed., 2016) può comprendere che quel periodo è il parto della scena napoletana, in cui germogliava l’hip hop a Napoli».

L’inizio degli anni ’90 è il periodo nel quale i primordi del rap napoletano comincia a diventare adulto. Nel 1993 mentre le elezioni comunali a Napoli regalano la vittoria al centrosinistra di Bassolino, la città è in fermento e solo l’opportunismo politico farà sì che si diffonda una narrazione che prova ad ascrivere a quel centro sinistra un “rinascimento” che, invece, affonda le radici in un risveglio complessivo della società, al quale aveva dato uno slancio la rinascita della lotta politica dopo il “Grande Freddo” degli Ottanta, con la Pantera.  

Il centro storico è vivo come non accadeva da tempo, Piazza San Domenico e piazza del Gesù sono i luoghi più rappresentativi di quella stagione. Questa energia, che si protrarrà per gran parte del decennio, investe anche l’hip hop, che comincia ad abbandonare il mondo sommerso nel quale si era mosso fino ad allora e si muove, aggrega, lascia tracce. Graffi sui muri, rumori dai vinili, parole in metrica.

Un ruolo centrale nella sua diffusione lo avrà un gruppo di rimatori che comincia in quel periodo a vedersi in piazza San Domenico per dare vita a contest improvvisati. Come intorno a un totem, gli adepti di quella nuova cultura si riuniscono per gareggiare, creare rime, raccontare storie. Per fare il rap intorno a un bidone della spazzatura ricoperto di tag.

Sono non più di una decina, sostanzialmente tutto l’hip hop che c’era a Napoli e dal quale si svilupperanno le storie che hanno segnato un decennio. Storie collettive, perché l’hip hop insegna soprattutto che da solo sei poca cosa e quanto di buono puoi fare non è hip hop se non vive dentro una comunità.

È il “periodo del bidone”, in cui il rap napoletano passa a un utilizzo più consapevole della lingua madre e il seme gettato a metà degli anni ’80 dai primi B-boys comincia a germogliare dentro una folla composita, in cui si ritrovano militanti politici, studenti fuorisede, vecchi e nuovi freak, intellettuali e balordi trascinati da quella corrente che attraversa il cuore antico della città.

«Dal ricordo di quel periodo», prosegue Joz, «è nato il pezzo con Iabo e Mopo, che vede nel finale un cameo di Speaker Cenzou. Ognuno di loro è un capitolo della mia vita musicale, come un libro. Se un giorno dovessi decidere di scriverlo, il primo capitolo sarebbe dedicato a Speaker Cenzou che mi ha iniziato all’arte del rap. Un essere per metà uomo e metà musica, fonte inesauribile di vibrazioni positive. Uno che c’è sempre stato e al quale sono grato».

Sulla scia di questo legame con le origini, Joz prova a segnare ancora una volta una linea che non è un recinto identitario ma sicuramente una dichiarazione di intenti e di poetica. Esiste un hip hop che vive ancora di vibrazioni lontane da tanta paccottiglia di mercato e che prova a dire che l’elemento centrale, in tutta questa storia, è “il furor del dire”, come si intitolava un testo di Georges Lapassade e Philippe Roussellot (Bepress, 2009).

Un’esigenza espressiva che non ha bisogno di raccontare la propria voglia di fama e denaro, brillantemente derisa da Checco Zalone a Sanremo con Poco ricco, pezzo ironico che è una vera hit.

Il progetto di Joz nasce nel 2019, subito dopo l’uscita di Calma piatta, ultimo lavoro di questo mc che ha lasciato Napoli per vivere tra le Tremiti e la costa orientale del Molise. Un disco sicuramente molto eterogeneo, composto da pezzi “classici” che rimandano ai codici narrativi delle origini e altri che provano a guardare oltre.

«Il doppio titolo non è un caso. La regina di ghiaccio è la musica e il grande gioco del rap lo strumento per conquistare le sue grazie. Ho scritto queste canzoni con l’intento di staccarmi dallo stereotipo del rapper che se non se la prende con qualcuno non appaga il proprio ego. In un verso dico: «a fà ‘o figlio ‘e bucchin cu ‘e rime chiene ‘e autostima, scritte addò meni meni, preferisco ‘o messaggio».

Ho una storia trentennale alle spalle, non voglio campare sugli allori del passato, ma di quel tempo andato voglio raccontare i temi importanti. E allora parlo di cose semplici, amore, amicizia, di quello che significa per me far parte della scena hip hop italiana. Ho abbracciato questo stile di vita da adolescente e da allora mi accompagna. I miei rap sono i miei mantra, le mie preghiere laiche per affrontare la vita di tutti i giorni. Il gioco del rap è cibo per la mia mente».

Sulla base di questo codice genetico semplice eppure profondo, il disco vede la partecipazione di artisti dalle storie differenti, da Dj2Phast, storico componente dei 13 Bastardi e Dj Simi, mago dei giradischi de “La famiglia”, a Daniele Sepe e Pier Paolo Polcari, anima degli Almamegretta, sempre per tornare alla genesi dei primi anni ’90.

«È stato un onore lavorare con questi artisti, con gente come Il Drugo dei Banana Spliff, Mopo, Iabo, Marco La Fratta, B Boy Nervo e Speaker Cenzou. Vanessa “Vea” Natale oltre a darmi dei beat favolosi si è presa in carico il mix e il master per un prodotto che uscirà solo su vinile, e che quindi ha avuto bisogno di essere approcciato diversamente da un album digitale. Ho avuto il piacere di condividere il lavoro con gente come K9 e il Drugo e una con Stritti, entrambi di Ancona e presenti dal “giorno zero” e con B-boy Nervo, una leggenda del breaking con la sua crew Rapidi sul Marmo».

Dopo l’ultima traccia resta la sensazione di aver ascoltato qualcosa di inattuale e questo è sicuramente un bene. Il valore di un’opera, tuttavia, più che nelle risposte che sa dare sta nelle domande che riesce a fare, e questo lavoro ne pone molte.

Se è centrale il tentativo di resistere ai dettami dell’industria musicale dominante, altrettanto importante è la domanda sulle possibilità espressive che questa e altre forme culturali possono avere oggi e nell’immediato futuro. La regina di ghiaccio e il grande gioco del rap nel provare a delineare un perimetro che segna l’estraneità a codici e forme interne alla moda come dispositivo culturale sceglie di scavare nel passato, per riportarne in vita temi, istanze, domande.

In questo senso si tratta di un lavoro che ha un suo valore nel riproporre il tema della necessità di una produzione autonoma dai dettami dell’industria ma riporta anche a galla i problemi che su questo tema sono stati lasciati irrisolti. È vero che la mancanza di capitali e di una strategia produttiva e distributiva sono alla base di una subalternità delle produzioni indipendenti rispetto al mainstream.

Ma resta da capire per quali motivi non si sia sviluppato un circuito indipendente forte e strutturato, non per concorrere con i colossi a conquistare il mercato, che sarebbe una follia, ma almeno per costruire uno scenario autonomo stabile, forte, in grado di sedimentare le numerose intuizioni e visioni che il marciapiede ha prodotto in questi ultimi decenni. E non è questione che riguardi solo l’hip hop, anzi.

In realtà addurre la sola motivazione, pur rilevante, della mancanza di un’industria alternativa finisce per diventare una scusa perché circuiti, progetti ed energie ci sono stati, eccome. Lungo tutti gli anni Novanta numerosi esperimenti di produzione indipendente hanno saputo ritagliarsi spazi consistenti e quelle produzioni, sostenute in particolare dalla rete dei centri sociali, hanno prodotto un immaginario che per ampi tratti è stato egemone nel cuore delle città.

Queste energie sono state poi riassorbite e metabolizzate dal grande circuito della produzione capitalista, il che è un meccanismo quasi “naturale” già dagli anni Sessanta. Si pensi al fatto che i media indipendenti nascono nel cuore delle rivolte del “decennio rivoluzionario” seguito al ’68 per finire poi sul mercato tra le mani di personaggi come Berlusconi o ancora al fatto che il primo esperimento di utilizzo politico della rete nasce dentro il magma delle culture antagoniste, con il progetto Ecn.org finendo poi per essere digerito in chiave reazionaria dall’accoppiata Beppe Grillo-Casaleggio.

Un esemplare meccanismo di sussunzione da parte del Capitale delle istanze antagoniste e della loro riproposizione secondo i propri fini contro il quale, però, è mancata sempre la capacità di opporre un terreno contrario strutturato, in grado di contendere spazi e combattere per una propria autonomia. Questo è il tema centrale, su cui riflettere, sul quale si giocano le capacità e le possibilità di chi voglia fare arte e cultura in un ambito indipendente.

Il disco di Joz, nel suo riproporre lo stile “classico” che rispetto a tanta produzione mainstream conserva solidità di contenuti e un’ostinata voglia di indipendenza parla anche di questo, lasciando a chi ascolta la possibilità di provare a rassegnarsi alla narrazione dominante. Quello è lo stile, quella è l’attitudine, sta a chi ascolta avere la capacità di trarre spunto e andare avanti, magari trovando forme espressive e contenuti che sappiano incrociare i temi che il presente pone e che sono urgenti.

Altrimenti dovremmo rassegnarci alle rime sui brand da indossare, allo squallido machismo o alle provocazioni di plastica che nel vuoto attuale sembrano significative e invece sono soltanto l’ennesimo innocuo prodotto di mercato, tanto da arrivare sul palco di Sanremo. Ma queste sono solo parole, per giunta troppe, per capirci qualcosa di più bisogna appicciare ‘o stereo.

Immagine di copertina di Antonio Bove