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MONDO

La nuova Siria e la prevedibile parabola dell’Islam politico

A un anno dalla caduta di Assad, la Siria vive speranze, conflitti e contraddizioni: le promesse di democrazia futura, le violenze delle milizie governative, la svendita ai capitali stranieri e i limiti dell’islam politico – in contrasto eppure in dialogo con l’esperimento rivoluzionario del Nord-Est

Un anno fa le milizie salafite guidate da Al-Julani sono giunte in una Damasco già liberata dalle forze druse e arabe provenienti da sud, prendendone il controllo e insediando un esecutivo monocolore. La caduta della dinastia degli Assad, espressione storica della sconfitta del baathismo degli anni Sessanta, trasformato dagli Assad in sistema di privilegio protetto dai massacri di uno stato di polizia, è stata salutata con favore dalla maggior parte delle siriane e dei siriani nel Paese e nel mondo. Non sono mancate in molte, d’altra parte, le inquietudini per i caratteri che il nuovo potere avrebbe potuto assumere: milizie responsabili di orribili crimini di guerra venivano riunite nel progetto di un nuovo esercito, mentre i posti chiave venivano occupati da personalità foriere di ideologie che faticano a lasciare spazio al pluralismo politico e religioso – anche islamico e anche interno al mondo sunnita.

La promessa di Al-Jolani, durante la discesa su Damasco, fu di garantire la coesistenza di tutte le componenti del Paese. Questa promessa aveva positivamente stupito e lasciato sperare, dando all’uomo un credito personale che tra molte e molti conserva tuttora. (Altre e altri, anche in Siria, lo considerano un terrorista o un Assad di diverso colore). Quel che è chiaro è che egli non intendeva, un anno fa, aggregare nella nuova nazione le diverse componenti politiche, ma includere quelle comunitarie o linguistiche – a partire dalla minoranza curda, pur sempre sunnita – facendo leva sulle fazioni maggiormente docili e conservatrici al loro interno, anche se corrotte, insignificanti o minoritarie. Un disegno improbabile, fallito non appena alcune milizie a lui alleate, dirette da criminali di guerra come Abu Amsha o Abu Hatem Shaqra, hanno iniziato a commettere stragi ed eccidi contro diverse comunità considerate “infedeli” e continuato la guerra, attaccando l’Amministrazione democratica autonoma del nord-est (DAA) guidata dalle componenti socialiste della comunità curda, da dieci anni alleate di numerose componenti politiche e tribali arabe a est dell’Eufrate.

A Sheeba e Manbij, nel governatorato di Aleppo, Abu Amsha e Abu Shaqra si sono abbandonati a deportazioni forzate e massacri negli ospedali; a Hama e in villaggi cristiani millenari come Maaloula, nel giorno di Natale, si sono sfogati contro cristiani e alawiti; a inizio 2025 hanno assaltato invano le difese della DAA a Tishrin, lungo l’Eufrate, con l’ausilio di bombardamenti turchi su cortei di civili; lungo le zone costiere hanno fatto 1500 vittime alawite e cristiane a marzo, per poi perpetrare il massacro dei drusi a Suwayda lo scorso luglio. Le forze governative stesse hanno patito vittime e rappresaglie in questi scenari, e tanto più sfugge il senso politico di rigettare il Paese nella violenza dopo aver acceso speranze di pace e di svolta. Ad Al-Jolani, divenuto Al-Shaara, va dato atto di aver avviato, dopo i massacri sulla costa, un difficile negoziato con Mazlum Abdi, comandante delle Forze democratiche curdo-arabe che difendono la DAA. Un dialogo difficile, non facilitato dalla mediazione dell’amministrazione Trump molto vicina a Damasco, che per ora non ha condotto a decisivi risultati concreti.

D’altra parte la DAA, soprattutto dopo i massacri di marzo e luglio, è diventata in qualche modo un punto di riferimento per quanti in Siria non vogliono vivere in una nuova Arabia Saudita, bensì scegliere attraverso forme di sperimentazione democratica (anche nuova rispetto ai modelli occidentali) dove tutte le componenti socio-culturali trovino forme di convivenza, smettendo di dare adito a conflitti settari che permettono ogni volta a Israele, Stati Uniti o Iran di lucrare sulle sofferenze della regione.

Più che una conoscenza o simpatia per le teorie di Abdullah Öcalan, ciò che ha rafforzato in questi mesi il credito dell’Amministrazione è l’assenza di violenze di massa al suo interno, nonostante non manchino sentimenti contrastanti nei suoi confronti tra alcune delle famiglie più conservatrici tanto curde quanto arabe e vi convivano otto lingue e tre grandi sensibilità religiose: islam, cristianesimo ed ezidismo (ed entro i suoi confini le persone possono dichiararsi non credenti senza correre rischi). Il Consiglio delle donne siriane, ideato dalla DAA a Manbij nel 2016 e costituito nel 2017, ha aperto dopo l’8 dicembre 2024 sedi in tutti i principali centri urbani della Siria, e la stessa Ministra degli affari sociali (e unica donna) del governo di Damasco, Hind Kabawat, ha espresso più volte sostegno alle attività di questa organizzazione.

Ciò che rende preoccupante il divario che cresce tra la stabilità relativa del Nord-Est e lo stato di violenza e tensione nel resto del Paese sono anche le conseguenze economiche. Non soltanto la tensione non aiuta l’uscita dalla povertà causata dalla guerra, ma Al-Shaara ha aperto disinvoltamente il mercato siriano a investimenti miliardari dei capitali occidentali e arabi, accettando senza colpo ferire gli stilemi regolativi del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Significa affidare la ricostruzione e le risorse ecologiche siriane a imprese multinazionali votate alla sola accumulazione di profitto, senza garanzie per la forza lavoro siriana e i suoi diritti, la democrazia economica e l’ambiente. L’esaltazione surreale con cui Al-Shaara è ricevuto dai rappresentanti di Paesi occidentali (che hanno giustificato decenni di guerre con la repressione del suo progetto politico) si fonda su questa profana circostanza. Se è vero che non tutti partiti politici del Congresso siriano democratico, organo politico della DAA a vocazione nazionale, hanno una chiara agenda economica, è certo che l’indirizzo del governo di Damasco è in fatale contrasto con quello del Consiglio economico e dell’agricoltura del Nord-Est, che promuove e finanzia migliaia di cooperative, tra i governatorati di Hasakah e Raqqa, fondate sulla condivisione dei proventi e, in parte, del prodotto dell’attività lavorativa.

La fine del vecchio regime è stata, l’8 dicembre del 2024, una novità eccezionale, commovente e foriera di gioia per chiunque abbia in questi anni empatizzato con chi ha subito repressioni indicibili e ha continuato a lottare con coraggio (ossia per chiunque conservi un minimo di umanità, la stessa che è necessaria per empatizzare con le popolazioni palestinese e ucraina). Il cambiamento era agognato in diverse forme da tutte le componenti, con l’eccezione di buona parte degli alawiti, e ha aperto una fase di libertà di espressione concreta e inedita nel Paese. Le violenze delle milizie affiliate al nuovo governo, tuttavia, hanno fatto della Siria a un anno di distanza un Paese nuovamente diviso, piagato da centinaia di rapimenti, sparizioni, omicidi settari, rapine, violenze e abusi contro le donne (dalle imposizioni arbitrarie di codici di comportamento e abbigliamento alle frustate agli amici che le accompagnano fuori di casa, fino all’esecuzione sommaria di ragazze colpevoli di andare a ballare nelle discoteche damascene).

Stupisce quanto poco questo sia stato in quest’anno raccontato, approfondito e spiegato nei canali d’informazione italiani. Il mondo nel suo insieme è catturato dalle telecamere soltanto nei tempi e nei luoghi di crisi estrema, per poi abbandonare lo scoop lasciando il pubblico nell’ignoranza non soltanto delle premesse, ma anche degli sviluppi e dei processi sociali che li spiegano.

Così come la Palestina o l’Ucraina hanno egemonizzato l’attenzione mediatica a fasi alterne e soltanto nei picchi della violenza (Gaza, ora che se ne decidono le sorti che motiveranno le insurrezioni e le violenze future, è scomparsa dai media), la Siria è stata messa al centro dell’attenzione soltanto quando l’Europa e gli USA sono stati colpiti dalla violenza di Daesh. Nessuno ha davvero mai spiegato da dove venisse la componente suprematista dell’opposizione siriana. Si sarebbe scoperto che l’Italia, assieme a un buon numero di Paesi arabi e occidentali, ha supportato ufficialmente la Coalizione nazionale siriana fondata nel 2012, diretta dai Fratelli musulmani, le cui milizie sono quelle ieri e oggi responsabili dei peggiori massacri a sfondo politico e settario nel Paese. Si sarebbe scoperto che mentre i Fratelli musulmani sono dipinti come il demonio a Gaza perché resistono all’occupazione di Israele (e un imam di Torino viene addirittura espulso per il suo impegno nel sostenerli), sono alleati del cinico Stato italiano soltanto a pochi chilometri di distanza, dove portano invece avanti forme di ingegneria demografica e pulizia etno-politica.

Questo paradosso ha conseguenze gravissime: le legazioni diplomatiche italiane in Siria non hanno mai avviato contatti ufficiali con l’Amministrazione autonoma del Nord-Est Siria, nonostante l’adesione alla Coalizione contro Daesh, così che l’Italia non contribuisce agli sforzi per promuovere il dialogo tra Al-Shaara e Abdi – pur di non infastidire i summenzionati gruppi alleati della Turchia, che persino per Al-Shaara sono da tempo un problema. Così Giorgia Meloni, che ha costruito la sua carriera sulla retorica islamofoba che equipara le musulmane e i musulmani al terrorismo, è oggi ben felice, come il suprematista bianco Donald Trump, di imbastire in modo unilaterale affari e investimenti con chi il terrore contro le donne, le famiglie e i civili lo ha diffuso e lo diffonde davvero, in nome di una concezione del tutto marginale e minoritaria dell’Islam, spesso mero riferimento retorico per giustificare appropriazioni di beni e terreni. Sull’altro versante, molte e molti di coloro che hanno creduto in un “Islam politico” decoloniale, che potesse essere una soluzione per le società regionali o della lotta contro Israele, si rendono ora conto che l’Islam non è se non un fatto sociale plurale e che il “politico” come uniformazione violenta non è la soluzione ma il problema: la prima fonte di divisione e debolezza per il Levante e per il mondo arabo nel suo complesso.

La copertina è di Beshr Abdulhadi (Flickr)

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