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CULT

La ‘magia’ dell’improvvisazione musicale

L’estinzione dell’autore a favore dell’interprete nella sperimentazione dei compositori del Gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza e nel jazz, ma anche in filosofia e in politica.

Non è mica male che si affacci in questo buio/agitato momento del secolo una tensione verso la critica del concetto di autore. Che si affacci nelle aree dell’antagonismo (il termine andrebbe arricchito ma per ora teniamolo in gioco). Rispunta una suggestione del lungo ’68 italiano, coltivata con sfumature dall’ingenuo al riflessivo al proiettivo, quella proposizione della «creatività diffusa» secondo la quale i maestri delle arti andrebbero detronizzati, espropriati della loro sovranità sui prodotti delle arti (per non parlare della sovranità sui collaboratori nella realizzazione delle opere), dato che l’espressione è di tutti, il fare opere è di tutti e meglio ancora se si supera questo termine opera e lo si «apre» (oltre Eco e tanto altri maestri) fino a farlo scomparire: contano i momenti di esistenza sovversiva/espressiva non le opere con la loro cornice, pronte per il consumo, per la gioia e la riflessione, sì, certo, come negarlo, e anche per il museo.

Rispunta davvero questo spunto critico/utopico basato su una facoltà di cui l’autore si è impadronito nel corso del tempo e che si tratta di fare emergere con nuove modalità dell’operatività artistica? Di sicuro sappiamo che lo spunto va offerto alla discussione senza le tinte integraliste che lo hanno accompagnato e forse lo accompagnano. Il grande jazzman Sun Ra, magari sospettabile di autorialità, gelava gli ascoltatori armati di strumenti musicali che si assiepavano sotto il palco dei suoi concerti chiedendo di suonare con lui e come lui: «andate a studiare!». Certo, al posto di integraliste si potrebbe scrivere rivoluzionarie (non riformiste) e tutto cambierebbe. Critica dell’autore in generale (in assoluto…) e critica dell’autore nei casi in cui talune figure mettano in mostra in maniera spettacolare la ridondanza, la retorica, lo stile di un autore che esige la maiuscola (Autore). Il caso di Bernardo Bertolucci, per come è stato sollevato qui da Malvina Giordana.

La maiuscola è stata usata da un iconoclasta Franco Evangelisti nelle note di copertina del primo disco pubblicato nel 1966 (etichetta Rca) dal Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. «L’arte dell’improvvisazione è affascinante e questo modo di “comporre insieme” porta a una tensione interna ed esterna molto sensibile, e credo sia l’unica magia ancora possibile alla musica d’oggi, non più scritta e totalmente smiticizzata di fronte a quel personaggio che una volta si chiamava l’Autore». Evangelisti era un compositore importante, riconosciuto a tutti i livelli anche se non noto e celebrato come i Nono, Berio, Boulez, Stockhausen. Era un eretico come Giacinto Scelsi, oggi le sue composizioni scritte, prima della svolta verso l’improvvisazione, vengono viste come un prodigio di rigorosa spregiudicatezza nel filone post-seriale che però era poco post nelle mani di tanti chierici dei dettami del «comporre con dodici note tutte pari tra di loro in tutti i parametri usati per fare musica», il famoso «comunismo dei suoni» che ha rischiato di finire come il socialismo reale. Riunì altri compositori importanti (tra cui Mario Bertoncini, Ennio Morricone – sì, proprio lui, quello di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e di C’era una volta il West –, Frederic Rzewski, Ivan Vandor, e in seguito Egisto Macchi, Walter Branchi, Giancarlo Schiaffini) e fondò questo Gruppo di compositori-improvvisatori. Il Ginc faceva musica di genere «free» o «informale», rumorista, gestuale, materico con uso dal vivo dell’elettronica. Brani musicali prodotti senza alcuna traccia scritta e senza alcuno schema prestabilito ma dopo lunghe sedute di «esercizi creativi» ben diversi da quelle che vengono chiamate prove. Musica in costante polifonia, musica composta, perché di composizione occorreva parlare, in collettivo. L’apporto dei singoli compositori poteva anche essere ravvisato e studiato (l’arte di Bertoncini nella «preparazione» degli strumenti, per esempio, un compositore che più tardi avrebbe costruito vere macchine sonore assai complesse), ma era chiaro che si volevano mettere in circolo opere senza autore. Tra parentesi ma non tanto. Le opere del Ginc, valutabili come si fa con tutti i prodotti delle arti, appaiono tuttora di qualità altissima. Originalità, freschezza, ricchezza di pensiero. Contemporanee nel senso pieno della parola.

La maiuscola di Evangelisti non era «riformista» o occasionale: era rivoluzionaria. Il ruolo (il dominio) dell’autore andava superato. L’autore doveva estinguersi, come lo stato. Oppure quella maiuscola era integralista? Questo è un problema non da poco. A quanto si è capito in seguito allo scioglimento del Ginc dopo un’attività ultradecennale, la difficoltà di trovare nuovi stimoli a produrre musiche col criterio della assoluta esclusione della notazione sul pentagramma e dell’assoluta esclusione di nuclei sonori preordinati non fu l’unico motivo della fine dell’esperienza. Molto probabile l’esigenza sentita da parecchi tra i membri dell’organico (variabile da una seduta all’altra) di seguire una propria strada come autori, appunto. Una strada lungo la quale le personali filosofie musicali potessero essere esaltate, anche se l’«anonimato» del Ginc era luminoso. Bertoncini in una intervista al manifesto del 2005 sostenne la tesi dell’integralismo. «Evangelisti… pensava che l’improvvisazione totale collettiva fosse l’unica e l’ultima chance per chi voleva comporre musica. Questa convinzione lo rendeva troppo rigido, poco discorsivo, poco comunicativo». Osservazioni probabilmente fondate. Le vicende musicali in tutti i generi, «colti» o «extracolti», hanno dimostrato negli anni successivi che le chances di compiere azioni sonore assai vitali, con modi di produzione diversi da quello dell’improvvisazione totale collettiva, c’erano. Cosmic Pulse (2006) di Karlheinz Stockhausen o Bells for the South Side (2017) di Roscoe Mitchell, per restare a esempi recenti – e occorrerebbe citare mille brani di jazz, free e non, di rock nelle coniugazioni punk e oltre, di elettronica d’uso – non sono accademia, non sono freddo laboratorio, contengono dosi forti di «magia», come direbbe Evangelisti. Termine che – azzardiamo – vuol dire un modo di entrare nel discorso pubblico con atti divergenti rispetto a ogni formazione di pensare/sentire dominante. Immettendo fascino, piacere, possibilità.

Restiamo un momento nei pressi di Cosmic Pulse e di Bells for the South Side. La prima opera (elettronica) è completamente scritta ed è frutto di un compositore che è Autore in modo conclamato. Difficile immaginare lì dentro una incrinatura del ruolo e dell’aura autoriali. Se non per il fatto che moduli sonori giocati in un vertiginoso procedimento contrappuntistico rimandano a un lavoro di alto artigianato. Visionario, però. Propositivo per chi vi si sintonizza di quel «divenire sperimentali» che riconosciamo come lo slogan rivoluzionario più pregnante. La seconda opera è invece prodotta con un mix di scrittura e improvvisazione. La scrittura vera e propria è di Mitchell ed è, come tutta l’opera del resto, di impianto «informale» con apertura rilassata a inflessioni di cantabilità. La «scrittura» senza pentagramma di alcune parti è sua e di altri solisti, il cui apporto è molto significativo. Questo modello è all’incirca quello di molto jazz classico e di molto jazz d’avanguardia. Dove i solisti, magari secondari in una specifica opera, sono fortemente autori delle loro parti dato che puntano su una sonorità personale e su un altrettanto personale lessico musicale. Diciamolo pure: è il modello del rapporto tra comune e singolarità.

Singolarità nel comune, singolarità punto e basta. Forse la questione, che si è fatta complessa come tutte le questioni (ce ne sarà mai una che scorre facile facile, senza contraddizioni? macché, vana speranza), è da porre come un intreccio tra la tensione verso la critica dell’autore e la tensione a fare irrompere la singolarità in tutti gli ambiti dell’esistenza e oltre il territorio degli specialisti in espressività singolare. Ma il comune è una condizione umana di cui riusciamo solo a intravvedere la possibilità oppure è una forma dei rapporti sociali che in situazioni di creatività artistica e di creatività rivoluzionaria «già accade ed è già accaduta»? La seconda risposta è realistica e propulsiva. A questo punto più che criticare l’autore fino a negarlo si tratterebbe di studiare e percepire di più le dinamiche e i conflitti sociali – e in molti casi il lavoro di gruppo ravvicinato – che stanno intorno al lavoro dell’autore, anche il più «sovrano». Quanto lo determinano, quanto spiegano le sue invenzioni e le sue innovazioni. L’autore è in fondo un interprete. Chiaro che l’obiettivo di condurre l’autore all’estinzione con pratiche completamente nuove rimane interessante e importante.

Nota a margine. Perché se si apre il capitolo della critica (anzi, della contestazione) dell’autore si pensa solo al campo delle arti? Gli autori di saggi filosofici e politici, ad esempio, non sono autori? Marx non è un autore? Nelle aree antagoniste affiora più la tendenza ad attribuirgli la maiuscola (spregiativa nel caso di Bernardo Bertolucci) che la tendenza a vederne una qualche invasività, o addirittura una sottrazione di sapere e di energia trasformatrice ai tanti o tutti che pure ne possiedono in potenza. Marx viene vissuto più come autore che come interprete di una fase storica e di una prospettiva storica ed esistenziale. E ci sono persino gli autori di rivoluzioni. Lenin, per esempio. Visto come l’autore dell’ottobre sovietico, lui con le sue decisive Tesi di aprile. Lui che forse – dicono Dardot e Laval – avrebbe fatto meglio a essere meno autore e più interprete rispetto ai soviet e rispetto al processo rivoluzionario liberatorio che era in atto e che ben presto avrebbe dato luogo a un regime oppressore. Strano il privilegio in negativo che viene dato agli artisti.