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La libertà è terapeutica?

Fotografa di fama internazionale, Letizia Battaglia è da sempre schierata dalla parte dei reietti, dei confinati, dei disagiati. Famosa per i suoi scatti di mafia, è però anche molto altro e in questa intervista racconta i manicomi, la follia, le istituzioni totali, il fine pena mai dei “poveracci” reclusi perché altro dal moralmente accettato. L’ingresso nella Casa dei matti di Palermo, i due anni come volontaria nel manicomio, i laboratori teatrali, la palla che, fatta rimbalzare nel cortile, crea un primo contatto con un’umanità disabituata ai rapporti sociali, le buste di carta con sapone e carta igienica, e poi la storia di Rosaria, Graziella e di molte altre ombre a cui Letizia, pur usando rigorosamente il bianco e nero, è riuscita a dare colore. Temi di cui Letizia Battaglia tornerà a parlare mercoledì 15 gennaio a Roma con Goffredo Fofi, nell’incontro promosso dall’associazione Collettiva che si terrà dalle 18 a Palazzo Merulana.

Quarant’anni fa moriva Franco Basaglia, il rivoluzionario psichiatra che cambiò da dentro l’istituzione totale dei manicomi. Tu hai avuto una lunga esperienza nella Casa dei matti di Palermo, un’esperienza privata prima che professionale. Ci racconti come è nata?

Il giornale “l’Ora” mi aveva mandato al manicomio di via Pindemonte, a Palermo, per fare qualche foto, io mi sentivo da sempre fortemente attratta da questo luogo, una specie di lager segreto e inaccessibile, li pregai di farmi entrare e promisi di non fare foto pur di provare a instaurare un rapporto con i “malatini”. Riuscii a convincerli, entrai, e cominciai ad andare lì ogni giorno: reparto donne schizofreniche. Ci passai tre anni.

Le persone che incontrai erano totalmente disabituate a qualsiasi tipo di contatto sociale, io sapevo poco o nulla delle cure che ricevevano/subivano, per entrare in contatto con loro bisognava conquistare la loro fiducia ma soprattutto risvegliarle dal letargo indotto dai sedativi assunti per tutta una vita. Tiravo la palla e loro andavano dalla parte opposta, finché non riuscii a creare delle relazioni.

Le donne che abitavano il manicomio di Palermo erano ombre abituate da anni a fare niente, e niente vuol dire niente. Non erano più nulla, non avevano più nulla, venivano derubate anche dei ricordi. Chi aveva ancora dei parenti che non si erano dimenticati della loro esistenza vagava con un sacchetto di plastica stretto nel pugno, nel sacchetto c’era la carta igienica, del sapone e un asciugamano. A chi non aveva questi privilegi, la doccia veniva fatta una volta l’anno con un tubo che gettava acqua gelida. Io uscivo da lì che puzzavo. Queste strutture, quella di Palermo, ma anche gli altri manicomi italiani, costavano allo Stato 500mila lire al giorno e non c’era neanche la carta igienica! Mi ricordo di Giovanna, una malatina molto bella. Vagava per i corridoi, le sale, il cortile dicendo «una verdurina, una verdurina per favore»…

Ci hai parlato di Giovanna, hai altre storie legate alle vite delle internate?

Ricordo una cosa terribile: una ragazza ebbe una brutta crisi epilettica, le infermiere fecero un cerchio intorno a lei e misero in scena una specie di danza mentre quella si agitava per terra con la bava alla bocca. Rispetto alla malattia, c’era una freddezza… Sembrava come i canili dei cagnetti abbandonati. Ecco, loro godevano dello stesso disprezzo, non ricevevano alcun rispetto. Poi mi ricordo di Fara Lamberti. Fara era entrata in manicomio perché era rimasta incinta del prete del paese, la buttarono in manicomio, il bambino fu adottato e il prete continuò a fare le sue messe. Era una donna molto pulita, molto per bene, molto curata e aveva sotto il letto, nascosto tra la rete della branda e il materasso, qualche oggettino. Un giorno suor Crescenza decise di pulire, buttò tutto e Fara morì. Morì di crepacuore, Fara, perché le furono portate via anche le poche misere cose che la tenevano legata al mondo, le sue piccole cose, i suoi teneri ricordi, un anellino… e non so cos’altro…

Io, Franco Zecchin (fotografo, fondatore con Letizia Battaglia nel 1977 del Centro Culturale per la Fotografia e poi del Centro di Documentazione contro la Mafia “G. Impastato”, ndr), le mie figlie e gli attori e le attrici con cui organizzavamo i laboratori teatrali lì dentro, le facemmo un funerale, ballando e cantando intorno al suo cadavere, poco diverso dal suo corpo in vita, e gridando: Viva Fara Lamberti!…

Tu in qualche modo provavi a proteggerti rispetto a tutto questo?

No. Io stessa, con grande incoscienza, portai a casa mia una ragazza. Si chiamava Graziella, aveva 23 anni ed era stata chiusa in manicomio da quando ne aveva quattro. Veniva da un misero paesino del Belice, il Belice del terremoto, dove tutto era distrutto. Dopo il disastro la madre la portò in manicomio. E lì rimase. Io e Franco Zecchin, il mio compagno di allora, la curammo tanto, ogni tanto la dovevamo ospedalizzare, vedeva i mostri con i denti di fuori, i diavoli. Poi a un certo punto lei mi disse «io non voglio guarire, io voglio rimanere malata…». Graziella non voleva la responsabilità di essere una persona normale, perché non glielo aveva insegnato nessuno.

Letizia Battaglia, Via Pindemonte, Ospedale Psichiatrico. Palermo 1983

Come sono entrate le foto in tutto questo percorso?

Sono riuscita a fare delle fotografie perché l’amministrazione aveva apprezzato il fatto che io sul mio giornale non avessi mai fatto una denuncia, come avrei dovuto e potuto. Non volevo essere allontanata, stavo facendo delle cose meravigliose, ero riuscita a organizzare un concerto punk dentro il Real Casa dei Matti, così si chiamava il manicomio di Palermo, un nome bellissimo. I Punk erano arrivati da tutte le parti della Sicilia, e non solo, erano venuti con le creste, con i trucchi, con i vestiti di pelle e i malatini dicevano «questi sono pazzi».

Rispetto a quello che hai detto su Graziella, quello che subivano gli internati era un fine pena mai, una condanna a vita da un processo che non c’era mai stato. Hai storie di qualcuno che è riuscito a sopravvivere alla clausura del manicomio ricostruendosi un presente libero?

Il manicomio di Palermo continuò a vivere per altri due o tre anni dopo l’istituzione, nel 1978, della cosiddetta legge Basaglia. La struttura non riusciva a smaltire gli oltre 2000 ospiti. Non sapevano dove andare, non avevano più famiglia e, quando c’erano, si erano dimenticati di loro. La legge Basaglia è servita a chi sarebbe stato internato dopo e non lo è stato, ma chi era recluso è rimasto recluso.

Quanto al fine pena mai, che dire… La maggior parte di loro erano poveri, reietti, figli dell’ignoranza e della miseria. Le persone entravano lì dentro per motivi diversi e lì dentro diventavano pazzi. Un esempio tra i tanti: avevi una moglie che non volevi più, tu la facevi innervosire e poi si chiamava la polizia, la si chiamava una volta, due volte e alla terza volta la facevi portare in manicomio. Così era allora. Si eliminavano le persone per interesse o per disinteresse. Queste persone diventavano niente. Come la vita dei cani abbandonati.

Direi che per te la libertà sia terapeutica. È così?

La libertà è assolutamente terapeutica, la libertà è tutto. Io sono anche contro il carcere, ma questa è un’altra storia, non serve a niente, solo a imprigionare se sei feroce, ma se la società fosse giusta e corretta queste istituzioni totali non esisterebbero.

Foto di copertina di Shobha