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EUROPA

La guerra e il gas

La Russia è un partner fondamentale nel mondo del fossile per tutta l’Europa e sa di avere “il coltello della parte del manico”. Ecco perché fra le multinazionali europee sta iniziando il balletto per smarcarsi da questi rapporti

È risaputo che le guerre nascono spesso da contese relative all’approvvigionamento di fonti energetiche. Questo ovviamente vale sia per conflitti ad ampia scala come furono le due guerre del Golfo, così come per tensioni regionali, come quelle dei gruppi guerriglieri oppositori allo sfruttamento petrolifero delle multinazionali nel golfo del Niger.

Quello che contraddistingue la guerra ucraina è che il conflitto avviene in un momento storico in cui l’emergenza climatica è finalmente sotto gli occhi di chiunque e quindi forse analizzare gli intrecci tra interessi della lobby del fossile e conflitto diventa pure un modo per contestare l’insostenibile sudditanza dei governi mondiali a quegli interessi tossici.

Partiamo da alcuni elementi chiave. L’Ucraina non è un paese oggi rilevante in termini di estrazione fossile, ma è il paese che la maggior parte dei gasdotti russi attraversano per raggiungere l’Europa, incluso quello che entra a Tarvisio, in provincia di Udine, e rifornisce l’Italia.

La Russia, in generale, è un partner fondamentale nel mondo del fossile per tutta l’Europa. Gazprom, il colosso oil and gas russo controllato dal Cremlino, estrae da solo il 10% del gas mondiale e ha contratti e progetti comuni con svariati gruppi finanziari e fossili europei. Come riporta accuratamente l’ong olandese Banktrack, il secondo finanziatore di Gazprom è l’italianissima Unicredit.

Inoltre la multinazionale partecipata dal nostro Ministero del Tesoro, cioè Eni, ha svariati progetti in joint venture con Gazprom, in particolar modo nel gasdotto BlueStream2 finalizzato a collegare Russia e Turchia, oltre che ulteriori esplorazioni estrattive nell’Artico con l’altra multinazionale controllata dal Cremlino, Rosneft. Simili investimenti li ha anche Saipem, la controllata di Eni e Cassa Depositi e Prestiti che si preoccupa di infrastrutture per le fossili.

In questi momenti concitati, in cui chiunque si professa sostenitore della resistenza ucraina contro l’invasione russa, è già iniziato il balletto delle dichiarazioni di sottrazione da questi investimenti, sarà da dimostrare se poi alle dichiarazioni reggeranno i fatti.

Un primo gesto evidente è stato compiuto da Intesa San Paolo, che ha deciso il 1 marzo di congelare il suo investimento di 21 miliardi di Euro nel progetto estrattivo di gas Artico LNG 2, della azienda russa Novatek. Il gruppo finanziario torinese era da tempo target di campagna di Recommon e Greenpeace che chiedevano il ritiro da progetti simili soprattutto in zone fragili come l’Artico.

Eni ha poi seguito la scelta di Banca Intesa, arrivando nel pomeriggio del 2 marzo a dichiarare di fare un passo indietro rispetto al gasdotto Blue Stream 2. Analogamente si è mossa BP dichiarando di ritirarsi da progetti comuni con Rosneft. Dove non arrivò la preoccupazione per il clima, verrebbe da dire, arrivò la preoccupazione per la guerra.

Altri colossi non stanno muovendosi in questa direzione, l’ong francese Reclaim Finance insiste che questo passo non sta venendo compiuto da Crédit Agricole, che finanzia sia Gazprom che Total.

Abbiamo già menzionato Unicredit, mentre Recommon accusa SACE, la controllata di Cassa Depositi e Prestiti, di avere pesanti investimenti in tutto il territorio russo, che è il settimo paese al mondo per investimenti della società, fino a 4,3 miliardi nel 2020.

La storia ci dirà cosa significhi tutto questo nello scacchiere energetico internazionale e cosa implicherà per gli scenari climatici. Senza dubbio Putin sa di avere il coltello dalla parte del manico, gli asset fossili sono i suoi, può trovare altri mercati al di fuori di quello europeo – a est, ad esempio – può essere lui a “chiudere i rubinetti” creando situazioni poco gestibili per le multinazionali europee. Forse in tal senso – togliersi di mezzo prima che arrivi il peggio – si può intendere la mossa compiuta in questi giorni da alcuni soggetti legati a doppio filo al Cremlino. Più difficile è pensare che lo facciano per mantenere la propria reputazione, visto che non è mai stata una loro preoccupazione centrale.

In una lettera spedita all’attivismo climatico mondiale alcuni attivistƏ di XR Ukraina, hanno denunciato che la crisi attuale è stata finanziata negli anni dall’industria fossile mondiale che è stata cliente assidua dello stato russo. C’è un fondo di verità in questo: nel 2019, il 41 per cento delle importazioni europee di gas naturale veniva dalla Russia, secondo Eurostat. Circa il 26.0 per cento di tutto il petrolio era russo così pure il 46.7 dei combustibili fossili solidi.

Ricordiamo che proprio per la nostra tossica dipendenza dal gas, anche russo, la Commissione Europea ha di recente emanato la direttiva sulle fonti “green” che si possono finanziare con fondi pubblici, la cosiddetta tassonomia, e il gas è stato incluso tra quelle. La scienza ha già ampiamente dimostrato che considerando tutti i passaggi dall’estrazione alla combustione il gas inquina al pari delle altre fonti fossili, ma questo non ha impedito la decisione.

Possiamo avanzare parziali conclusioni da questo quadro preoccupante.

1) Le fonti fossili, per il loro carattere e ruolo, per la loro strutturale relazione con gli apparati dirigenti degli Stati, sono un fattore che inevitabilmente surriscalda la geopolitica e esaspera le tensioni fino a portare ai drammatici scenari ucraini di questi giorni. Le fonti energetiche devono essere di prossimità, prodotte in scala ridotta e basate sul rinnovabile. Ogni altra strada porta a guerre e tensioni internazionali oltre che al disastro climatico.

2) La leadership europea non è certo motivata ad approfittare della situazione per svolte epocali a favore delle rinnovabili, anzi. Il DPCM approvato da Draghi che permette di inviare armi all’Ucraina contiene anche misure che permettono un ritorno addirittura al carbone come fonte di approvvigionamento energetico. Difficile pensare che gli altri governi europei si discostino molto da questa linea.

3) L’economia pesante di guerra e l’economia fossile vivono in osmosi e si alimentano vicendevolmente. Con ogni probabilità, in una Europa in cui l’industria delle armi ritorna al centro dell’investimento nel pubblico, ogni debole piano di Green New Deal rischia di evaporare nel nulla. L’investimento nel militare diventa un investimento nel fossile e viceversa.

4) La guerra in Ucraina è l’ennesimo disastro ecologico che il pianeta non può più sostenere. Vi sono rischi seri di contaminazione chimica, industriale e nucleare con il procedere dell’avanzata russa nel paese. Considerando che la produzione agraria europea ha nell’Ucraina una fonte di approvvigionamento chiave, questo rischio dovrebbe forse preoccuparci un po’ di più di quanto stia accadendo.

Il 28 febbraio l’IPCC ha prodotto uno dei suoi report periodici sulla situazione dei cambiamenti climatici. Guterres è stato durissimo nel commentarlo all’assemblea delle Nazioni Unite a New York, il quadro che abbiamo davanti è sempre più grave e stiamo finendo gli strumenti possibili per riuscire ad adattarci ad esso.

Purtroppo il report ha avuto pochissimo risalto nei media nazionali, come avveniva prima del 2018, così concentrati nella crisi ucraina da non riuscire a vedere il legame tra questa e quella climatica.

Rimangono le piazze invece a tenere i fili tra le due lotte. Sabato a 5 marzo Roma, così come il 25 marzo per il nuovo Global Climate Strike che vedrà il rifiuto della guerra come tema centrale.

La sfida è aperta, anche se, come sempre, in salita.

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