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La Forza della tradizione

“L’ascesa di Skywalker”, ovvero il nono e ultimo capitolo (per ora) di “Guerre Stellari”, è uno splendido film che chiude in modo spettacolare ed emozionante un’epopea durata 42 anni. Ma dietro molte delle scelte di sceneggiatura e di regia di J.J. Abrams c’è un’interpretazione tradizionalista della saga che si ricollega all’Episodio VII diretto dallo stesso regista quattro anni fa, mettendo tra parentesi l’innovazione e modernità dell’ottavo capitolo firmato due anni fa da Rian Johnson

«Tutti dite di conoscermi, ma nessuno mi conosce davvero», dice Rey estenuata a un certo punto de L’ascesa di Skywalker, quando persino Finn, ovvero colui che è sempre stato il suo più intimo alleato pare volerla tirare per la giacchetta. Ma appunto, chi è davvero Rey? Da dove viene? Perché i suoi genitori l’hanno abbandonata da piccola? Era questo, il vero e più grande enigma che Episodio IX doveva sciogliere e che J. J. Abrhams e lo sceneggiatore Chris Terio decidono di risolvere nella maniera più classica e “tradizionalista” possibile (perché ormai possiamo persino parlare di un vero e proprio conflitto delle interpretazioni per una saga che ha “strabordato” ben oltre i nove film che costituiscono la storia principale), provando a cancellare molti degli indizi che invece avevano caratterizzato il precedente Gli ultimi Jedi di Rian Johnson.

 

 

Ma facciamo un passo indietro e proviamo a ricostruire perché l’origine di questo personaggio era così importante per l’epilogo di Guerre stellari. Rey era comparsa la prima volta ne Il risveglio della Forza, ovvero Episodio VII, nel pianeta desertico di Jakku: è una ragazzina che vive di espedienti, rovistando tra i rottami e vendendoli per un tozzo di pane a un cinico trafficante che la prende a male parole. È un personaggio che vive ai margini, come un po’ tutti i principali protagonisti della Resistenza, che nascono come contrabbandieri, truffatori, disertori, ecc. e che vengono costretti a combattere l’Impero per via delle angherie e dell’ingiustificata violenza che il potere riversa su di loro. Rey incontra per caso un droide, BB-8, che contiene delle informazioni fondamentali per la guerra, e si trova in mezzo a uno scontro a fuoco tra la Resistenza e il Primo Ordine che fa sì che si trovi a scappare insieme a Finn, Poe e Han Solo e a partecipare a un’azione della Resistenza. Quando poco dopo con questo gruppo di fortuna atterra sul pianeta di Takodana e incontra un enigmatico personaggio di nome Maz Kanata – un’ex pirata e contrabbandiere vecchia di oltre mille anni che gestisce una taverna interstellare – questa vede in lei delle tracce della forza Jedi (e infatti poco dopo sarà lei a consegnargli la spada di Anakin/Luke). Rey insomma sembra entrare nell’universo Jedi un po’ per via di un incontro casuale e un po’ per “elezione”, perché ha qualcosa che è dentro di lei e che la rende più vicina alla forza.

 

 

Dunque che cos’è la forza? È qualcosa che attiene all’universo, che è nelle cose stesse? O qualcosa che hanno dentro di sé solo alcuni personaggi, come se fossero un gruppo eletto di semi-dei? Obi Wan-Kenobi nel primo Guerre stellari la definisce come «un campo energetico creato da tutti gli esseri viventi» e David Filoni, ovvero colui che ha firmato la serie animata The Clone Wars (un’opera fondamentale per capire molti snodi di trama della saga), ne parla come di qualcosa a cui tutti i personaggi possono teoricamente avere accesso: alcuni, come Luke Skywalker ne sono consapevoli, mentre altri come Han Solo o Finn, ne attingono solo inconsapevolmente. Se la forza sia un superpotere che alcuni hanno e altri no, o se invece sia qualcosa che si può “coltivare” tramite addestramento, etica, o disposizione soggettiva cambia completamente l’interpretazione di Guerre stellari. Se Rey è una ragazza qualunque, trovata per caso a rovistare in mezzo ai rottami di Jakku durante una campagna di Poe Dameron, o se invece è un’ “eletta” i cui poteri gli vengono dal proprio lignaggio è cosa ben diversa.

 

 

Gli ultimi Jedi aveva lasciato intendere che la prima di queste interpretazioni potesse essere più plausibile, mentre J. J. Abrams ne L’ascesa di Skywalker riporta il tutto a un’interpretazione più tradizionalista: Rey è in realtà la nipote del cattivo dei cattivi per eccellenza, che è stato parte della saga fin dall’inizio: l’Imperatore Palpatine. I suoi genitori l’avevano abbandonata per tentare di sottrarla al proprio nonno, ma il destino – esattamente come in una tragedia greca – è ineluttabile: quello che noi pensavamo fosse il caso – il suo incontro con BB-8 e un gruppo della Resistenza ne Il risveglio della Forza – è in realtà il compiersi di una storia necessaria.

È per questo che J. J. Abrams è sembrato voler cancellare tutto quello che l’Episodio VIII (che rimarrà comunque come il film più moderno della nuova trilogia) aveva lasciato intendere: non è più una questione “soggettiva” quella che tormenta Rey – non è la libertà del suo poter diventare una Jedi – ma à una faccenda di destino. Se la modernità è proprio quell’universo simbolico caratterizzato dall’idea che un soggetto sia l’anello mancante della catena dell’essere – che cioè il suo posto nel mondo non sia dato, non sia parte di alcun ordine prestabilito: che non ci sia giustificazione per la sua esistenza – la nostalgia pre-moderna (e di fatto, ahinoi, reazionaria) di Guerre stellari sta invece tutta nel costruire un universo dove i personaggi devono semplicemente incontrare/scontrare/giustificare un destino che trascende le loro scelte.

 

 

È per questo che, come ha scritto giustamente Lorenzo Rossi su Cineforum, questo è «un film di padri e figli, di nonni e nipoti»: è un film cioè che mette a tema il rapporto tra un personaggio e l’Altro; o meglio tra un personaggio e un universo che è già “formato”, che è già dato. La libertà sta nell’accettarlo o nel rifiutarlo; dunque nel conformarsi a un equilibrio che i personaggi guardano dall’esterno e che al limite possono solo “sentire”. Non c’è niente di nuovo in tutto questo: il pensiero reazionario ha da sempre attinto a universi ontologici “in equilibrio” dove i principi di ying e yang, di ragione e sentimento, di maschile e femminile, di attivo e passivo devono essere riportati alla loro giusta proporzione (e dove dunque lo scandalo della soggettività della modernità deve essere rigettato). E infatti Rey e Ben Solo hanno passato tre film a porsi il problema di come essere all’altezza di un equilibrio che è più grande di loro (mentre Luke, Leila e Han, dovevano usare la forza per qualcosa di nuovo). La frase rivelatrice è proprio quando Kylo Ren (ormai ridiventato Ben e ritornato al lato “chiaro” della forza) dice «io so ciò che devo fare, ma non so se ho la forza di farlo», come per dire: io so già ciò che l’universo ha in serbo per me, ma non so se sono all’altezza di quello che l’Altro ha già deciso per me.

 

 

Ci sarebbe molto da dire su questo “ritorno della tradizione” e del grande Altro nella nuova trilogia e su come J. J. Abrams abbia voluto compiere quest’atto di restaurazione. D’altra parte, se la battaglia conclusiva de L’ascesa di Skywalker reintroduce una divisione tra il piano dei semi-dei Jedi/Sith e quello dei combattenti della Resistenza/Primo Ordine (e i successi o sconfitte dei secondi dipendono totalmente del destino dei primi), Gli ultimi Jedi finiva con dei bambini che giocavano per strada con il mito della Forza, dando l’impressione di una sua possibile universalizzazione. Eppure, nonostante questo, anche in Episodio IX in quell’esitazione e in quel dubbio che ha attraversato Rey e Ben nel dover essere all’altezza del proprio destino c’è il germe di un possibile rifiuto e di una dimensione autenticamente soggettiva. Sono i due poli – epico uno, moderno l’altro – che hanno caratterizzato tutta la saga e che, anche se Episodio IX ha deciso di scioglierli in una certa direzione, hanno da sempre alimentato la tensione fondamentale dell’intera saga. E che continueranno a farlo anche dopo la sua conclusione e in un certo senso persino indipendentemente da essa.

E adesso?

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