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La dimensione sensoriale del mio nome

Leggere “Il colore del nome” di Vittorio Longhi pensando al proprio passato, alle identità multiple, all’appartenenza, sentendo l’esistenza nello stesso corpo di due vite separate.

Che colore ha il mio nome? Come suona? Gli italiani bianchi e gli afrodiscendenti egiziani pronunciano il mio nome in modo diverso, Miriam per gli italiani, Mariem per gli egiziani

Mentre scrivo è già passato più di un mese dalle elezioni politiche italiane e penso, come sempre, che in questo paese, in questa entità coloniale, non c’è mai stata un’elaborazione nazionale del lutto e allo stesso modo, secondo le stesse dinamiche e linearità, non l’ho avuta io. Leggere Il colore del nome di Vittorio Longhi ha funzionato per me come un’incandescenza, in un periodo della mia vita individuale e collettiva in cui vengono svolte continuamente considerazioni totali, storicizzate, sulla famiglia in quanto sistema sociale e antropologico – un reticolo di persone unite e compromesse dalle ombre del potere. L’autore trasforma l’autofiction in un racconto nazionale sulla storia italiana della colonizzazione. 

Il cinema Roma a Asmara. Fotografia di Clay Gilliland, da Flickr.

Esistono, nella mia personale esperienza e suggestione a questa lettura, dei temi-madre che si possono provare a esporre seguendo ancora il percorso narrativo tra analisi storica e sensazione sociale: come si possono narrare le persone che sono e sono state altro da noi; le divergenze non solo tra presente e passato ma anche tra i nostri mondi interiori e le linee di potere costruire dall’esterno, dalla storia che ci attraversa; il nome e l’identità. Innanzitutto, l’autore svolge un ottimo lavoro nel raccontare come si racconta un dolore, una storia complicata e costellata da conflitti e guerre dalla Giordania alla Siria all’Eritrea: esibire le immagini e le testimonianze raccolte con freddezza, in nome del giornalismo occidentale, di un prodotto editoriale che si vuole dare al mondo come un trofeo, è la prima riflessione sulle contraddizioni di quest’opera e della sua meta-narrazione. Poi analizzando i suddetti concetti in ordine sparso, così come le impressioni mi suggeriscono, penso anche alla mia di storia, inevitabilmente, al mio nome, alla mia identità commuovendomi e incendiandomi perché qualcuno ha messo nero su bianco l’idea e la pratica politica che si può essere di Roma anche con un nome, una storia e un passato divergenti, anche con la memoria interiorizzata di altre forme di vita, altri odori, altre immagini. Ammettere le proprie origini è come una battaglia. L’autore sostiene che si vorrebbe definire solo romano, fino a che non si scopre immerso in una passato ancora aperto e in un presente inaspettato per cui la pelle, la famiglia, i parenti lontani con cui non si sa più secondo quali linguaggi comunicare, devono fare i conti con l’afrodiscendenza e le contraddizioni di un passato coloniale, dell’essere il figlio di una generazione di uomini meticci nati sotto al segno dell’invasione (in Africa, nella colonie italiane di fine ‘800): come possiamo sottrarci ai padri? Come possiamo riappacificare le nostre storie senza rimuove e negare le responsabilità? Come si assume politicamente l’eredità del sangue? Dal racconto personale di questa storia si trovano le risposte a tutte queste domande in un modo o nell’altro. 

Su queste contraddizioni l’autore scrive, in riferimento ai primi incontri con Fauziya, la ragazza londinese nera con cui ha collaborato e alla quale si avvicina: «Da subito Fauziya mi ha guardato con una famigliarità che da un lato mi attira, ma dall’altro mi imbarazza e quasi mi inquieta. È la prima donna nera che mi considera più simile a lei rispetto a tutti gli altri europei bianchi. Ed è la prima persona che in quarant’anni mi ha parlato dell’Africa come se fosse una cosa che mi riguarda». Questa storia è la nostra storia come lo è anche la rimozione. Esiste un’enorme letteratura sul colonialismo e questo racconto ci si inserisce pur essendo un’altra cosa, rispondendo prima al corpo e alle sue difformità e solo poi alle esteriorità politiche. Il mito del buon italiano, del civilizzatore, appare come una malattia congenita che si manifesta con forme di potere solo da costruire o da distruggere. Il racconto dell’autore si trova nel mezzo, questo perché riesce a spiegare con una narrazione fluida e viva cosa è il meticciato e cosa è l’assimilazione, in questo caso riguardanti gli italoeritrei, figli delle unioni miste e, in un’ottica coloniale, del rapporto di potere tra colonizzatori e colonizzati, rapporto che si tramuta immediatamente in un legame di sangue e assorbimento delle storie e delle soggettività. Anche qui troviamo l’importanza, e poi le difficoltà, del nome e del colore: l’assimilazione e il meticciato indicano un insediamento che però ha in sé altre vite. Longhi ci dice che i meticci erano un elemento imprevisto e incomprensibile, un effetto collaterale dell’occupazione italiana. L’autore ha un nome italiano, figlio della propria storia e in collisione continua con la sua identità, dall’esperienza del bisnonno al padre, per cento anni. 

Le questioni che esistono e sono suscitate dalla storia che scrive Longhi sono spesso sottili, rilegate in parte alla dimensione sensoriale del racconto, ci vengono comunicate come retaggi coloniali – modelli e programmazioni intime – a partire dai gesti famigliari, dagli odori, ovvero il rapporto tra colonialismo e postcolonialismo, poi tra colonizzatore e confederato, tra la memoria e la rimozione e poi ancora tra simboli e ritualizzazione. In questo flusso politico di autorappresentazione, spesso ho difficoltà a ricordare il mio passato – quando l’Egitto era per me una vera seconda casa –, ho difficoltà a trovare un legame tra il mondo culturale e sociale che vivo e i mondi che per vie traverse sono stati in me, in noi, per via delle nostre famiglie: il ricordo sfocato delle strade, il modo in cui avevo a che fare con le persone e il modo di vivere tutto questo è ancora in me nonostante mi identifichi in altro, questo mi ha donato la capacità di empatia; ci sono cose che non accetto, che non comprendo e che non ordino più ma sono in me. 

La statua di Colombo al Minnesota State Capitol a St. Paul, Minnesota, 10 giugno 2020. Foto da Flickr

Vitaliano Ravagli e Wu Ming in Asce di guerra scrivono: «…ma la linearità e la geografia non servono a capire le cose. Le frasi fatte e le formule ripetute dai palchi, come dai pulpiti, coprono la rabbia, lo sporco, la dinamite. Consegnano al presente quello che chiede». Poi mentre leggo penso a Roma e alle statue, all monuments must fall, penso alla toponomastica e alle strade, alla decolonizzazione degli spazi pubblici, al fatto che anche nella peggiore periferia romana il nostro cognome non possa vivere uno sdoppiamento come quello che a volte ci imponiamo, penso al cuore di tenebra di Conrad, al senso di colpa di Flaiano. Forse per l’Ennio Flaiano di Tempo di uccidere il colonialismo è stato davvero solo lo sfondo esistenziale al suo dramma, ma è proprio così forse che ci si libera dalle colpe non compiute, dai significati del nome. Gli italiani bianchi e gli afrodiscendenti egiziani pronunciano il mio nome in modo diverso, Miriam per gli italiani, Mariem per gli egiziani e allora la mia autonarrazione deraglia, percependo l’esistenza nello stesso corpo di due vite separate e sentendomi sempre così: in modo diverso. Non ho dubbi che anche i miei genitori, emigrati in Italia a fine anni ottanta, si sentano allo stesso modo ma al contrario, perché al contrario ha funzionato la storia politica con loro. Il racconto che fa Vittorio Longhi, italoeritreo, è sicuramente una fetta importante di decostruzione pubblica, riguardo l’Italia e la sua storia, dalle sue rivendicazioni politiche (la cittadinanza, il welfare, i sistemi di accoglienza) ai suoi flussi migratori, nelle prospettive di razza, genere e classe.

In copertina, edificio coloniale a Asmara, fotografia di Clay Gilliland, da Flickr.