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La cantina metropoli

Quando il frigorifero ancora non era entrato nel nostro universo domestico era la cantina a farne le veci. Un luogo staccato dall’appartamento, cacciato fin sotto il livello della strada, destinato a custodire il cibo da consumare nel corso della stagione. Un percorso “ verticale “con il proprio simmetrico polo terminale nel terrazzo in cima alle scale. Lì si stendeva, a turno, il bucato. Elementi che prolungavano l’abitare oltre la linea di terra rappresentata dal portone d’ingresso, e quella del cielo segnata dal cornicione che stringeva, a definirne l’altezza, tutto intorno la casa.

La nuova edilizia ha cancellato questi spazi riducendo spietatamente, come superfluo, tutto ciò che stando fuori degli appartamenti media il rapporto con la strada e quindi con la città. Le vecchie cantine sono passate ad essere da “ pancia” della casa a luogo dove depositare e spesso voler dimenticare per sempre tutto ciò che si è deciso di allontanare dalla propria vita.

Bernardo Bertolucci nel film Io e te “ precisa” crudelmente questo spazio – che Niccolò Ammanniti aveva lasciato indefinito tipologicamente nel romanzo a cui il film si ispira- facendolo diventare il luogo dove i nuovi proprietari hanno esiliato mobili e vestiti della vecchia inquilina dell’appartamento che, adesso, loro abitano avendo fatto il ricorso all’acquisto in “ nuda proprietà”.

Liberatisi dell’ingombro del corpo della vecchia contessa, non restava che cacciare giù in fondo alle scale mobili e vestiti e, con essi, anche uno scatolone con le (poche) cose di Olivia la figlia del padrone di casa nata da un precedente rapporto e che anni prima viveva con la nuova famiglia.

Lorenzo un ragazzo di quattordici anni tutte queste cose forse non le sa; sa solo che vuole divorare le scale elicoidali della palazzina dove ha lo studio lo psicanalista che lo dovrebbe aiutare a vincere il proprio voler starsene solo, per gettarsi nella musica sparata dagli auricolari e iniziare a camminare indifferente anche alla città che attraversa ogni giorno senza neanche degnarla di uno sguardo. Così come vuole poter fare a meno della presenza-controllo di una madre che nel figlio sembra cercare quel contatto con il proprio compagno che non comparirà mai.

Inevitabile quindi, per Lorenzo, fuggire proprio nella cantina, l’unico posto della casa (?) dove , sapendolo alla settimana bianca scolastica, nessuno lo verrà mai a cercare. Nessuno di quella famiglia vorrà mai, infatti, mettere piede in quella cantina che, insieme ai mobili, sembra contenere la vita stessa della vecchia proprietaria: i suoi cappelli, il suo armadio, i vestiti, uno straordinario divano di velluto rosso che la nuova padrona di casa ha certo trovato sconveniente per inserirlo nel suo nuovo arredamento minimale e maxischermo televisivo. Una sogli da non varcare.

Olivia arriva alla cantina in preda a una crisi di astinenza e nella forzata convivenza con il ritrovato fratello che le dice subito con veemenza di essere un’altra cosa da lei, obietta che se avessimo tutti il medesimo punto di vista saremmo tutti uguali; sono proprio le diversità reciproche a farci ricchi, basta scoprirle.

Lei come punto di osservazione sceglierebbe di appiattirsi dentro i muri, nelle carte da parati; Lorenzo lo fa osservando la vita di un formicaio, portato con lui in cantina, allontanando e avvicinando quel mondo con una lente d’ ingrandimento.

Ma i due non sono soli, si accorgono dell’altro e anche senza rendersene conto sanno praticare attenzioni reciproche . Olivia dice al fratello, di non leggere a testa in giù ; “ fa venire il sangue alla testa” ; Lorenzo le farà giurare, dopo qualche giorno, di non drogarsi più.

In uno scambio continuo di ruoli sarà lei a posare sulla testa del fratello l’intera collezione dei cappelli della contessa; sarà Lorenzo ad accudirla, fino a uscire dalla tana, per cercare in un’altra sofferenza ( la nonna malata terminale ricoverata in una ricca clinica privata) un antidodo alla crisi di astinenza della sorella.

E’ tutta, infatti, un questione di punti vista dice Olivia a suo fratello.

Vale anche per la città: Roma che Bertolucci ci farà percorrere nel quartiere borghese per eccellenza, i Parioli, scrutandola ad altezza d’occhio, non alzando mai la macchina da presa, al massimo con inquadrature frontali di alcuni palazzi, non cogliendo emergenze, ma quasi seguendo un filo che si dipana ad altezza d’occhio. Nessuna cupola ,nemmeno il Tevere, solo le sue sponde di cemento. Nessuna vertigine, nessuna scossa.

Questa avverrà nella cantina dove i movimenti di macchina , come se fossimo in esterno, ci faranno risalire cataste di mobili, varcare muri , penetrare in corridoi come lungo un viale, cogliere dall’apertura di una finestrella per catturali e negarli raggi di luce. E’ in questa straordinaria città ricostruita come una carta geografica più che come un luogo definito- non è un modello né un luogo- che Olivia e Lorenzo capiranno il mestiere del vivere in un ballo liberatorio dove lo struggente David Bowie di Space Oddity, nella versione italiana cucitagli addosso d Mogol, fa divenire quei pochi metri quadrati una metropoli del mondo.

Così Bertolucci , a differenza di Niccolò Ammaniti nel libro, affida alla strada che sembra tornare alla sua complessa normalità dopo aver trattenuto il fiato per un’intera settimana, il compito di farli allontanare forse per sempre dalle proprie paure.