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“L’ignoranza è il tuo nemico, la conoscenza un’arma”

Nei cinema italiani 120 battiti al minuto di Robin Campillo che racconta la storia di ACT UP-Paris , la coalizione di attivisti nata all’interno della comunità omosessuale per difendere i diritti delle persone positive all’HIV

Partiamo dai fatti di cronaca. Due giorni fa è stato aggredito all’entrata della propria abitazione a Roma Sebastiano Riso, il regista del film sull’omogenitorialità “Una famiglia” presentato allo scorso Festival del Cinema di Venezia. Colpito doppiamente, a causa dei contenuti del suo film e per il fatto di essere gay. Negli stessi giorni 120 battiti al minuto di Robin Campillo è stato oggetto di una serie di attacchi omofobi sui social network e ha ricevuto – al contrario della Francia, dove è stato prodotto, e di molti altri paesi europei – un divieto ai minori di 14 anni alquanto sospetto che ha suscitato l’ottimo comunicato della casa di distribuzione Teodora. Vicende analoghe avvengono in Italia ogni giorno, per le strade e nelle scuole. Si tratta da una parte dell’applicazione esplicita della violenza su soggetti e gruppi considerati “anormali”, dall’altra della loro simbolica marchiatura a fuoco attraverso l’altra faccia della violenza esplicita, il suo modo di offrirsi più intimo, insidioso, implicito: lo stigma.

Tanto più è potente in questo quadro di dominio della cronaca brutale, il film di Robin Campillo, 120 battiti al minuto, vincitore a Cannes del Gran premio speciale della Giuria, della FIPRESCI (Federazione internazionale della stampa cinematografica), della Queer Palm e candidato per la Francia come Miglior Film Straniero ai prossimi Oscar. Perché fa i conti con il super-stigma, quello che ha influenzato le coscienze di intere generazioni tra gli anni Ottanta e Novanta, e ha vestito la comunità sieropositiva italiana di un’indimenticabile alone viola. Il film racconta le prime azioni di ACT UP in Francia nel 1989, che sulla scia di quello statunitense comincia a far politica, come la si fa nei movimenti: con azioni mediatiche eclatanti, con manifestazioni e Gay Pride, con una paziente organizzazione assembleare, tessitura di idee e di pratiche. Ha detto bene Vieri Razzini durante l’anteprima milanese: questo non è un film sulla militanza ma un vero e proprio film militante. Non è un caso che il regista del film abbia fatto parte di questa associazione per molto tempo e il suo produttore, Hugues Charbonneau, sia tuttora uno degli attivisti più noti di ACT UP Paris.

120 battiti al minuto è infatti uno degli inviti alla lotta contro l’omofobia e la sierofobia più efficaci che si siano mai visti al cinema negli ultimi tempi. Manca qualsiasi ossessione per il corpo malato, il suo deperimento, la sua decadenza. Certo la morte è presente sin dalla prima scena: siamo negli anni in cui l’infezione dal virus HIV portava inesorabilmente all’AIDS e in cui si tentava di sopravvivere con gli inefficaci farmaci AZT e il DDI, e anzi si lottava proprio perché le case farmaceutiche (in questo caso la Melton Pharm) immettessero sul mercato gli inibitori della proteasi, gli antenati degli stessi antiretrovirali che abbiamo a disposizione oggi. La pressione della morte è costante: “sei sicuro che sopravvivrai?” chiede Sean ad un compagno in assemblea. La risposta è affermativa e netta, perché si agisce come se si dovesse sopravvivere. La vulnerabilità del corpo, che nella malattia si fa palese, inscindibile dalla sua dimensione di dolore, dalla sua strutturale incomunicabilità, diventa una relazione d’amore, si fa voce pubblica, manifestazione esplicita. Tutti i giorni si combatte per rovesciare la morte in vita.

C’è bisogno più che mai di un film di questo tipo oggi, nell’epoca del cosiddetto “secondo silenzio” sull’HIV, fatta di narrazioni contraddistinte dall’ignoranza e della stigmatizzante distinzione del “malato” dal “sano”. Solo in Italia sono quasi 4000 i nuovi casi ogni anno, 11 contagi al giorno che raccontano bene come il virus non abbia mai fatto distinzioni in base all’orientamento sessuale. A livello mediatico mai una riga sui benefici delle nuove terapie sulla vita delle coppie sierodiscordanti e delle persone che vivono con HIV (in Italia più di 150mila), sulla difficoltà di una loro presa di parola soggettiva, sull’uso della PEP come trattamento d’urgenza in caso di probabile contagio, sul fatto che il virus si diffonde tanto facilmente solo perché non si fa il test con regolarità. E ancora nulla si dice della “notizia”, ormai ampiamente riconosciuta dalla comunità medica mondiale ma puntualmente taciuta, che le persone che vivono con l’HIV e seguono la terapia non sono in grado di trasmettere il virus. In realtà non si spendono nemmeno più soldi in campagne di prevenzione, come se l’HIV fosse scomparso. Al “discorso” sulla sieropositività si è sostituito il silenzio, che è un’altra forma di stigmatizzazione di quei “gruppi” che nell’immaginario collettivo erano coinvolti dall’epidemia, ovvero “puttane”, “froci” e “tossici”. Ora quel discorso si presenta nella modalità della sua obliterazione.

Per questo nel film di Campillo non c’è solo la potenza (o l’impotenza) dei corpi e la gioia dell’azione (sempre ripresa in modo impeccabile, senza alcun afflato caricaturale come si usa invece fare quando si riprendono i movimenti politici), ma molto dialogo, perché la parola determina la capacità organizzativa comune e al contempo nomina, identifica, afferma. La parola si fa corpo, e alle volte il corpo riesce a farsi anche integralmente parola: il sangue “infetto” diviene simbolo da usare nello spazio pubblico. La vulnerabilità si rovescia e diviene conoscenza e coscienza di sé, ad esempio rispetto al problema di come attraversare la medicalizzazione necessaria, quando in gioco c’è la questione di una sindrome virale concreta. È possibile che la prima risposta alle operazioni biopolitiche innestate per controllare un certo fenomeno o una certa popolazione passi sempre attraverso una difesa biopolitica nel senso più immediato e diretto: nella “guerra dell’AIDS” di fine anni Ottanta la posta in gioco era la disponibilità di massa di medicinali efficaci a costi tollerabili. E in buona misura lo è tuttora, non solo in Africa e in Asia, ma anche nelle nazioni dove i sistemi sanitari nazionali sono messi quotidianamente in pericolo dall’ingordigia delle case farmaceutiche e dei processi di privatizzazione neoliberali: praticamente ovunque. I fronti che il film illumina sono caldi ancora oggi, sopra ogni altro la riappropriazione di un discorso pienamente laico sulla prevenzione, sui copyright dei farmaci e sulla lotta alla sierofobia.

Corpi e parole furono le armi che ACT UP-Paris usò nella “guerra all’AIDS” e anche strumenti di dibattito tra posizioni diverse all’interno della coalizione (il nome letteralmente significa “Coalizione AIDS per scatenare il potere”). È più semplice trovare un piano d’azione, una strategia comunicativa, e un’efficacia quando si fa sensibilizzazione sulla prevenzione, ma come rapportarsi allo scontro con le case farmaceutiche? Occorre fare lobby oppure azioni di rottura?  Come si costruisce un discorso o una narrazione sulla “malattia” dal punto di vista di chi con la “malattia” ci vive? Qual è il potere d’azione dei soggetti rispetto alle ambiguità di chi porta avanti la ricerca con la priorità di conseguire profitti altissimi proprio sulla letalità del virus? Il film ripercorre in superficie tutta questa complessità, non risolvendola, ma credendo che il compito di trovare delle risposte sia in tutte le prossime lotte.

Immagini di Luca Modesti dei Conigli Bianchi, ARtivisti contro la Sierofobia