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Inattualità del comunismo

È uscito nei giorni scorsi in Italia “La casa sul mare”, l’ultimo bellissimo film di Robert Guédiguian, figura storica del cinema francese di sinistra che firma un film personale e politico che racconta senza nostalgie i bilanci esistenziali di tre fratelli ex-sessantottini durante gli ultimi giorni di vita del padre

“Hai la mente a destra e il cuore a sinistra. Come tutti al giorno d’oggi. Non è molto originale”. È quello che dice Joseph, vecchio comunista e reduce dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta a Bérangère, giovane ragazza che ha la metà dei suoi anni e che si è innamorata di lui quando era sua studente all’università, affascinata dal passato di una rivoluzione che lei può vivere solo tramite i ricordi degli altri. Ma le proiezioni immaginarie – si sa – durano al massimo il tempo di un lustro, poi subentra la realtà, che in questo film – lo splendido La casa sul mare di Robert Guédiguian uscito nei giorni scorsi nelle sale italiane dopo un passaggio al Festival di Venezia lo scorso settembre – morde duramente ogni possibile idealizzazione. “Non ho più fiato per starti dietro e per mettermi a ballare” dice sempre il vecchio Joseph, “mentre a me piace ballare” risponde la ragazza, che infatti lo lascia per un coetaneo con cui può andare al tempo del mondo in cui vive. La generazione comunista del Sessantotto insomma, è diventata una faccenda sentimentale, poetica, che affascina così come può affascinare un romanzo o uno spettacolo teatrale: è stata insomma cannibalizzata dalla società dello spettacolo. L’altro giovane infatti, l’idealista Benjamin, che fa il pescatore ma a cui piace leggere Claudel, ha un atteggiamento simile nei confronti di Angèle, vecchia attrice di teatro che ha visto anni prima ne L’anima buona di Sezuan di Brecht e della quale è stato da sempre segretamente innamorato. Ma il suo è l’innamoramento immaginario di un adolescente che dell’amore sogna la forma letteraria e irreale. Se Bérangère prova ormai pietà per un vecchio sessantottino per il quale non ha più alcun desiderio, Benjamin è preso da un amore narcisistico che parla molto più dei suoi fantasmi che di Angèle.

 

In generale nell’ultimo film di Robert Guédiguian, figura storica del cinema di sinistra francese, la vecchia generazione sessantottina non c’è più, o meglio vive in un tempo che non appartiene più a questo mondo. I giovani o la riducono a un’icona o la considerano anacronistica (“davvero ti ricordi ancora del mondo operaio?”). È geniale il rovesciamento generazionale di questo film dove i vecchi sono poveri e comunisti mentre i giovani parlano il linguaggio dei soldi e del mercato (“parli come un padrone” si dice a un certo punto) e sono tutti benestanti e borghesi. Sappiamo che la realtà è molto diversa e le nuove generazioni, in Francia come in Italia, sono più povere di quelle dei propri padri e delle proprie madri ma questa licenza poetica permette al film di mostrare che il posto simbolico di una generazione non c’è semplicemente più.

Joseph, Angèle e Armand – i tre fratelli protagonisti di La casa sul mare – sono molto più che una semplice generazione, sono l’incarnazione di tre strade attraverso cui un’idea politica ed esistenziale – quella comunista – ha provato a tradursi in una forma di vita: chi si è dato alla politica e alla dimensione collettiva (ma ha sacrificato la propria vita privata e sentimentale), chi si è dato all’arte politica (ma ha dovuto confrontarsi con una tragedia famigliare), e chi, come Armand, ha invece scelto la comunità ed è rimasto a gestire il piccolo ristorante popolare di pesce del padre. Tutto il film si svolge infatti quasi interamente nella casa paterna in un piccolo paesino di pescatori vicino a Marsiglia dove il padre dei tre protagonisti è costretto a un’infermità quasi vegetativa. I bilanci esistenziali dei tre fratelli –che naturalmente sono anche i bilanci politici di una generazione che ha visto l’ipotesi comunista essere sconfitta – avvengono dunque letteralmente attorno al corpo del padre: fermo, incosciente, bloccato in un letto esattamente come quell’idea di trasformazione della realtà che ha guidato le loro vite.

E tuttavia dobbiamo stare attenti a non ridurre La casa sul mare all’elegia della vecchia sinistra che sta scomparendo, in quella sorta di eterno rimpianto per una grande tradizione del movimento operaio che è stata spazzata via dalla controrivoluzione neo-liberale. C’è senz’altro la coscienza, lucida e senza sconti, da parte di Guédiguian di essere parte di una storia sconfitta, ma non c’è alcun compiacimento tragico nel guardare il proprio declino, né alcun accenno di cinico disincanto. Il mondo va compreso per quello che è, non va mai condannato. Il problema è semmai come provare a mettere a tema nel presente l’inattualità e la non-appartenenza a questo mondo di quella storia. Per farlo Guédiguian sceglie un dispositivo esplicitamente teatrale a partire dal Méjean, il paese dove è girato il film, che – dice il regista – dal ponte ferroviario nelle retrovie alle case che danno sul porticciolo sembra essere davvero un palcoscenico naturale. Ma c’è qualcosa di più di un espediente scenografico in questa esplicita teatralizzazione del film, perché come viene detto da Angèle citando Claudel – quando il mondo non lo si può cambiare, lo si deve quanto meno immaginare. E il teatro è proprio quel dispositivo dove il mondo viene rimontato diverso da come è.

Non è facile fare un film dove si tengono insieme la finitudine della coscienza del tempo che passa e l’infinitezza dell’idea di cambiamento del reale. È possibile pensare ancora alla trasformazione del mondo in cui si vive quando quell’idea di cambiamento è ormai ridotta all’infermità? È possibile lottare ancora per la trasformazione di questo mondo quando si è così vecchi che non si ha più la forza di “ballare” né di rincorrere i giovani di oggi? Guédiguian vince questa scommessa perché fa quello che ha sempre fatto al cinema: sa che per parlare dell’infinito del comunismo sotto forma di immagini in movimento bisogna tradurlo in una forma finita di vita, in un dispositivo esistenziale, in un corpo. E non si tratta solo di mettere in scena ancora una volta i corpi e i volti di Ariane Ascaride, Gérard Meylan e Jean-Pierre Darroussin con i quali il regista di Marsiglia ha girato lungo tutta una vita tutti i suoi film più belli, né di inserire un inserto di Ki Lo Sa del 1985 con I Want You di Bob Dylan in sottofondo, dove i tre attorni giovanissimi si buttano in un porticciolo che sembra proprio quello di Méjean,; si tratta piuttosto di essere consapevoli che la logica dell’espressione di un’idea al cinema è la logica di una sensazione. Guédiguian sa che per mostrare l’enigma di come l’insegnamento comunista di un padre possa di nuovo “farsi vita” anche a fronte della propria vecchiaia bisogna bypassare il tono elegiaco e ri-attivare questo insegnamento in una maniera diversa, mettendo insieme a un tempo la coscienza del tempo che passa e l’imprescindibilità del presente, i rimpianti e le possibilità, i bilanci passati e i progetti futuri. E per una volta, il riferimento ai rifugiati con chi si chiude il film, non è una ruffianeria per accattivarsi il pubblico impegnato, ma un modo per mostrarci che anche al netto della sua consistente dose di malinconia, questo film che sembrerebbe parlare solo di vecchi comunisti è comunque rivolto verso il futuro.