approfondimenti

Emma Montella e Martina Ucci

ITALIA

«In trecento senza stipendio da ottobre»: la lotta delle lavoratrici di La Perla

La storia di una longeva industria di lingerie bolognese di lusso. Venduta nel 2008 al fondo americano Jh Partners, che dopo vari tentativi di rilancio, a sua volta cede la società nel 2013, per 69 milioni di euro all’imprenditore Silvio Scaglia, con l’intento di rilanciare il marchio, senza successo, così l’azienda fu rivenduta nel 2018 alla società olandese Sapinda Holding (oggi Tennor), di proprietà dell’investitore tedesco Lars Windhorst. Una vendita poco trasparente, senza una politica di finanziamento chiara e un piano industriale. Intervista a Stefania Prestopino, rappresentante sindacale e grafica di La Perla

Fondata nel 1954 dalla stilista Ada Masotti, soprannominata “Forbici d’oro”, La Perla non tardò a diventare una delle più importanti aziende di lusso italiane. Nata come marchio di lingerie nel dopoguerra, La Perla conta sulla grande maestria tessile delle proprie lavoratrici ed è sempre stata sinonimo di qualità, con la sua corsetteria composta di sete e pizzi preziosi lavorati a mano. Il nome stesso conferma l’unicità dei capi, che venivano venduti in piccoli cofanetti in velluto rosso, proprio come se fossero delle perle. Il brand non fatica a stare al passo con i tempi: se difatti troviamo una selezione più tradizionalista negli anni ’50, composta da merletti macramè, seta realizzata con tecniche a soutache, a frastaglio, e ricami Cornely, si passa a uno stile decisamente diverso per gli Swinging Sixties, più anticonformista, floreale e colorato. Poco dopo furono lanciate le prime linee di costume da bagno e negli anni ’70 invece fu introdotto il tessuto in jersey di seta. Insomma, le collezioni di La Perla hanno sempre assicurato un’eleganza legata a una sensibilità creativa che hanno distinto il brand dalla sua nascita. 

Il marchio non tarda ad acquisire fama mondiale e la sua storia è oggi alquanto travagliata.

Negli anni ’60 fu il figlio di Ada, Alberto Masotti, a diventare direttore del brand, un uomo che aveva ereditato la passione e l’inventiva della madre per la moda.


Alberto Masotti portò avanti il marchio fino al 2008, quando la crisi finanziaria colpì il paese e lui prese la triste decisione di vendere La Perla al fondo americano Jh Partners che, dopo vari tentativi di rilancio dell’azienda, a sua volta cedette la società nel 2013. Questa venne comprata per 69 milioni di euro dall’imprenditore Silvio Scaglia, con l’intento di rilanciare il marchio. Anche quest’ultimo tentativo non ebbe successo e l’azienda fu rivenduta nel 2018 alla società olandese Sapinda Holding (oggi Tennor), di proprietà dell’investitore tedesco Lars Windhorst. 

La Perla quindi subisce lo stesso destino di molti altri brand di lusso italiani, inizialmente caratterizzati dall’unicità artigianale locale che non viene compresa dai grandi investitori esteri che li acquistano e li ripropongono sul mercato globale.

Oggi la Tennor sta riuscendo a far fallire un brand del calibro di La Perla, affamando le sue dipendenti, che già avevano dovuto fare i conti con lunghi periodi di incertezza lavorativa tra il 2008 e il 2014. Oggi le lavoratrici del marchio si ritrovano da mesi senza stipendio e con frequente ricorso alla cassa integrazione. Ad agosto 2023 erano più di 300 i dipendenti rimasti senza stipendio dalla Tennor, che a giugno aveva promesso un finanziamento mai arrivato di 70 milioni per far ripartire la produzione. Questo atteggiamento scostante non è nuovo alla società olandese, che negli anni ha dimostrato un’assoluta inaffidabilità nel rispettare i patti e garantire i finanziamenti. 

La Perla è composta principalmente di lavoratrici, che ribadiscono i loro diritti anche avvalendosi dell’aiuto dei sindacati che sono attivi e in contatto con la regione già da mesi. Rimane inaccettabile che una realtà industriale come quella di La Perla dipenda da una gestione finanziaria che non ha alcun interesse se non quello di mettere fine alla storia del brand spogliandolo della sua essenza. 

La storia di La Perla è solo l’ennesima conferma che a salvare la manifattura locale non sono i milioni della finanza internazionale, che spesso e volentieri delocalizzano le produzioni in paesi low-cost, ma sono le mani e l’abilità degli artigiani a garantire la qualità dei capi. Purtroppo le sorti del mercato e il disinteresse al dialogo, hanno deciso il destino di un brand che nasce a stretto contatto con il territorio bolognese. La sua fondatrice, Ada Masotti, lavorava tête a tête con le sarte della fabbrica di via Mattei e ne sapeva valorizzare la maestria. 



Abbiamo intervistato Stefania Prestopino, rappresentante sindacale e grafica di La Perla. 

Qual è la situazione interna all’azienda in questo momento? 

Noi dipendenti La Perla di Bologna siamo circa in trecento e siamo senza stipendio dal mese di ottobre, ma siamo a casa da inizio novembre. Molte di noi hanno iniziato a dare le dimissioni, e parlo al femminile perché siamo quasi tutte donne. Alcune di noi invece, passate le tre mensilità non retribuite si sono licenziate e hanno richiesto la Naspi. Purtroppo la situazione è molto triste perchè tra noi ci sono colleghe altamente qualificate e richieste da molte altre realtà del settore. Per ora l’azienda ha aperto dei contratti di solidarietà ma diciamo che rimaniamo appese all’esito della sentenza finale.

Come si struttura esattamente l’azienda? 

Allora, ci sono tre diverse aziende : La Perla UK, di cui in italia siamo dipendent in 65, che comprende tutta la parte dei servizi che vanno dall’amministrazione all’ufficio logistica alla tesoreria etc. Poi c’è La Perla Manufacturing, che invece comprende la parte di sviluppo prodotto, campionario e attività che spesso rimangono più “nascoste” perchè il focus principale rimane quello della produzione, anche se questa occupa solo un 7 percento di tutta la nostra attività; il resto è dedicato alla “vita vera e propria del prodotto”, che va dal primo schizzo dello stilista, all’approvazione della prototipia con lo studio dei materiali impiegati, la qualità ecc. Dopo una serie di prototipi si passa all’approvazione del primo campionario e da qui si sviluppa un processo molto lungo e complicato che include lo stoccaggio in magazzino e il controllo delle materie prime. Insomma, ci sono moltissime persone all’interno del settore Manufacturing. Infine, abbiamo La Perla Italia, con tutta la rete dei negozi. Purtroppo in Italia hanno chiuso praticamente tutti, a dicembre l’ultima boutique a Roma per insolvenza. 

E per quanto riguarda lo store online?

Io sono una grafica digitale e lavoro specificatamente nella produzione dell’ e-commerce e del sito. Per mesi siamo riuscite a effettuare un numero notevole di vendite tramite il sito, anche perchè abbiamo delle clienti affezionate che acquistano un prodotto appena esce la newsletter. Oggi però lo store online è bloccato, anche se la piattaforma in sé è agibile, non riuscireste a effettuare un ordine. Ogni servizio, dalla posta elettronica a tutto il sistema dei programmi e delle applicazioni che hanno un costo mensile, è stato sospeso, anche perché neanche i fornitori vengono pagati. Paradossalmente alla fine di ottobre, solo per il weekend di Halloween, avevamo 17mila euro di ordini nel carrello, che però non abbiamo potuto spedire, perché rimaneva bloccata anche la logistica. I nostri magazzini hanno a giacenza un grandissimo numero di capi finiti e pronti per la vendita, che però la logistica non ci restituisce perché non viene pagata.

Quando è iniziata questa situazione? 

Ufficialmente le cose sono precipitate quando è stata messa in liquidazione l’azienda madre, sommersa di debiti, ovvero La Perla UK, che è quella che detiene il marchio. Dopodiché sono stati congelati tutti i conti correnti e c’è stato il mancato pagamento degli stipendi. Per farvi capire nel giro di una settimana negli Stati Uniti, Francia e Svizzera hanno chiuso i negozi e licenziato tutti. Diciamo che il brand è in crisi da anni, da quando Silvio Scaglia decise di trasferire la sede dell’azienda all’estero per motivi puramente fiscali, creando nuovi headquarters con nuovi dirigenti che dirigevano a loro volta quelli di Bologna. Per cui a parte i debiti questa operazione ha creato un ulteriore divario di comunicazione perché certe politiche venivano imposte da persone che non avevano idea di come funzionasse la realtà locale. Questo “cercare di sostituirsi alla parte italiana” senza però mai riuscirci ha creato dei danni.

La Perla rimane una realtà molto radicata sul territorio. Mi ricordo che a Bologna c’erano degli store importanti. Quando hanno chiuso e perché?

A Bologna avevamo due store che Scaglia fece chiudere nel 2013-2014, uno in galleria Cavour e l’altro in via Farini. Erano due negozi perfetti perché erano piccoli e molto rappresentativi. Scaglia voleva fare le cose in grande e li fece chiudere per aprire una nuova boutique di tre piani molto più monumentale delle altre, in via Farini 11, davanti piazza Minghetti dove una volta c’era Armani. Quest’ultimo aveva chiuso per un motivo ben preciso: infatti per pochi metri di differenza, nessuno entrava nel negozio, mentre Galleria Cavour è estremamente frequentata da tutta la clientela esclusiva che lì però non passava. Un altro errore di Scaglia è stato quello di voler fare abbigliamento, investendo tantissimi soldi. Ma chi veste firmato va negli store di La Perla per l’intimo, non per l’abbigliamento. La nuova boutique, pur essendo bellissima, è quindi stata un fiasco da tutti i punti di vista, compresi gli affitti altissimi. 

C’è stato un rallentamento del settore dopo il Covid? 

Per quanto riguarda le vendite, la piattaforma online ha funzionato bene anche durante il Covid, anche se il rallentamento è stato inevitabile, abbiamo invece registrato un’impennata di vendite nel periodo post-pandemia. Posso confermare che il mondo del lusso non è stato minimamente intaccato dalla crisi post-Covid e che i primi licenziamenti sono stati effettuati nel 2019 appena era entrato il nuovo fondo della Tennor. 

Che rapporto avete avuto voi con Lars Windhorst? 

Lui è il fondatore del gruppo Tennor, proprietario del fondo che detiene La Perla. Per essere elegante lo definirei un filibustiere, uno che ha affossato definitivamente l’azienda. Durante il primo incontro ufficiale con la regione, lui si è presentato da remoto con la telecamera oscurata, perché «non aveva campo».

Noi sappiamo che lui risiede in una villa da 46 milioni di euro, ma non aveva una sala per fare una videoconferenza. In quel primo incontro ci ha liquidati dicendo che sarebbe arrivato un finanziamento da 60 milioni di euro, che ovviamente non è arrivato. La seconda e ultima volta che l’ho visto invece è stata a settembre in occasione dell’incontro con il ministro del Made in Italy a Roma, dove si è collegato online e siamo finalmente riusciti a vedere il suo volto. Ci ha fatto notare che era all’interno del suo jet privato e mentre annunciava la liquidazione dell’azienda ci ha detto: «mettetevi nei miei panni». 

Windhorst ha comunque comprato un’azienda da Scaglia in modo molto poco trasparente e sin dall’acquisizione la Tennor non ha mai adottato una politica di finanziamento chiara né un piano industriale, che era peraltro stato richiesto anche dal ministero stesso. Questo conferma la poca autorevolezza del ministero. 

Il 19 gennaio avevate un incontro con il giudice a Bologna. Qual è stata la sentenza? 

La questione è piuttosto intricata perché si tratta di una vertenza internazionale e persino il giudice si è riservato di emettere una sentenza il 19 gennaio a Bologna. Da un lato perché è coinvolta anche la legislazione inglese, per cui adesso il tribunale nel Regno Unito si sta avvalendo di una società esterna, che sta gestendo questa fase. Questa società ci ha impedito di utilizzare il marchio. Quindi ora come ora noi non potremmo neanche più vendere o pubblicizzare alcunché con il nome di La Perla. Il giudice di Bologna ha quindi effettuato un sequestro preventivo del marchio il 15 dicembre, proprio per evitare che lo mettessero in vendita, perché le intenzioni erano quelle. Il tema grosso della vertenza è cercare di evitare la vendita del marchio in quanto nome, solo per fare profitto, scorporato dal resto, come d’altronde è successo a tanti altri brand. Ma per evitare tutto ciò bisogna connettere il logo a quella che è la storia e la specificità di questo marchio, insieme alla sua modalità di produzione che abbiamo solo noi. Purtroppo a fine gennaio il tribunale di Bologna ha dichiarato il fallimento della società che controlla il marchio, escludendo però il gruppo Tennor, in un primo tentativo di togliere il controllo all’azienda anglo-olandese. 

A proposito di produzione, è importante che il lavoro e le tecniche delle lavoratrici dell’azienda vengano tramandate o si corre il rischio che vadano perse per sempre. 

Esatto, e per evitare questo bisogna congiungere il logo a quella che è la storia e la specificità di questo marchio e della sua modalità di produzione che conosciamo solo noi. Oltre all’impatto sociale che avrebbe questo licenziamento, noi dipendenti italiane stiamo facendo tutto il possibile per mobilitarci e salvare il brand. Siamo andate al parlamento europeo a Bruxelles, siamo state ricevute al ministero, il cosiddetto ministero del Made in Italy, e abbiamo ancora una richiesta di convocazione urgente che non viene considerata. Da un ministero che dovrebbe tutelare il Made in Italy e che non dovrebbe essere estraneo alla vicenda, chiediamo di dare autorevolezza a questa nostra battaglia, perché se tra poco saremo tutte disoccupate graveremo soltanto sulle spalle dello Stato, attingendo a fondi pubblici. 

Quindi perché non agire in maniera preventiva rivendicando il Made in Italy che tanto si vuole rivendicare? 

Se la nostra azienda finisse nelle mani giuste avrebbe tantissimo da offrire in termini di ricchezza e di lavoro. In questo momento stanno distruggendo un’azienda storica, un patrimonio che non è riproducibile perché per imparare un certo tipo di lavorazioni ci vogliono degli anni. Quando Masotti gestiva l’azienda aveva istituito una vera e propria scuola al suo interno, in cui soprattutto ragazze imparavano le lavorazioni tessili. Quindi fin a un certo punto c’è stato un ricambio generazionale che però ora si è bloccato. Oggi siamo un’azienda di “ragazze di una volta” e questo non lo dico per sminuire perché noi abbiamo ancora delle professioniste che sono in grado di portare avanti l’azienda, ma vorremmo creare nuovi posti di lavoro per una nuova generazione che può specializzarvisi. Se chiudiamo baracca e burattini queste mansioni vanno perdute per sempre.

Voi siete andate anche a Bruxelles a protestare. Quali sono i prossimi passi? come procederete con questa lotta? 

Abbiamo deciso di andare a Bruxelles dopo la seconda udienza a Bologna, in cui il giudice si è riservato di analizzare bene tutta la normativa, che è molto complessa perché coinvolge anche le richieste degli inglesi. I nostri avvocati hanno richiesto che l’acquisizione avvenga da parte di un imprenditore serio e attento allo sviluppo dell’azienda e non solo alla speculazione. Il giudice si è quindi preso dieci giorni di tempo. Noi abbiamo richiesto un’amministrazione controllata che implica un coinvolgimento anche da parte del ministero che manderebbe degli amministratori a gestire questa fase nell’ottica di una continuità. Mentre dall’altra parte è stata richiesta una liquidazione. Noi speriamo che il giudice si pronunci a favore di un’amministrazione controllata di modo di avere uno spiraglio di possibilità che l’azienda lentamente riprenda, nonostante i debiti. 

Siamo state molto contente di essere andate a Bruxelles e di aver avuto questo spazio, perché non era scontato. Mi aspettavo più partecipazione anche da parte dei parlamentari che corrispondono alle forze governative italiane. C’erano il PD e i Cinque Stelle ma non abbiamo visto né Fratelli d’Italia né la Lega e non è stato un bel messaggio, perché erano stati invitati tutti. 

Avete trovato dei modi per autofinanziarvi durante la protesta?

Stiamo cercando di reinventarci. In occasione della prima udienza abbiamo fatto un banchetto in cui le nostre sarte hanno utilizzato tutti gli avanzi dei pizzi e dei merletti per produrre biglietti stupendi, magliette e segnalibri che sono andati a ruba. Sono fantastiche, non stanno ferme un attimo e hanno sempre nuove idee per riutilizzare i tessuti.

Grazie per averci concesso questa intervista. Ci auguriamo che questa vostra protesta possa riportare in alto il nome di La Perla e soprattutto che possa portare a tutelare i lavoratori del Made in Italy. 

Noi lavoratrici stiamo portando avanti questa protesta, ma se da un lato abbiamo una vertenza internazionale, dall’altro abbiamo il serio problema delle retribuzioni, che è prioritario. Abbiamo bisogno di percepire quantomeno la quota di ammortizzatore sociale, perché sennò anche questa lotta non è più sostenibile. A Bruxelles abbiamo sollevato questa problematica insieme a quella di smettere di consentire ai fondi di essere smembrati. Il ministero del Made in Italy è solo un logo o può istituire anche delle leggi di protezione, riconoscendo le competenze dei lavoratori?

Tutte le foto di Emma Montella e Martina Ucci