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ROMA

Verso lo sciopero transfemminista: dati e analisi delle ultime regolamentazioni sul lavoro

Le donne in Italia hanno un tasso di occupazione del 52,2% e un tasso di inattività del 42,1%, hanno salari bassi, pensioni basse, e si caricano della maggior parte del lavoro di cura. Inoltre questi dati invisibilizzano le persone trans, disabili, razzializzate, che nel mondo del lavoro vivono una doppia se non tripla discriminaizone. Martedì 20 alle 18:30 Non una di meno Roma convoca l’assemblea pubblica verso lo sciopero tranfemminista dell’8 marzo

Il 25 novembre l’Italia è stata invasa dalla marea transfemminista: più di 500mila persone sono scese in piazza contro le molteplici forme assunte dalla violenza di genere formando un unico corpo collettivo che ha imposto a istituzioni, media e opinione pubblica di affrontare la questione a partire dal dato reale dell’energia sociale sprigionata da quella marea, al di là delle celebrazioni. Quel giorno per noi, come compagn* di Non Una Di Meno, è stato un momento di grande consapevolezza: possiamo osare, possiamo andare oltre persino noi stess*, possiamo – e dobbiamo – pensare sul lungo periodo, in un percorso politico e vertenziale di lotta contro ogni forma di sessismo e discriminazione e di costruzione di una società femminista e transfemminista. Il prossimo passo, la prossima scommessa, sarà lo sciopero transfemminista dell’8 Marzo quando, ancora una volta, proveremo a dimostrare concretamente che ‘se ci fermiamo noi, si ferma il mondo’.

Sono i dati e la realtà che viviamo quotidianamente sulla nostra pelle a dimostrarci l’urgenza e la necessità di scioperare, espandendo i confini dell’azione collettiva e tessendo alleanze con lavorator* e sindacalist*, ovvero intersezioni di lotta che rafforzano la potenza transfemminista. Basta considerare alcuni esempi: il tasso di occupazione maschile secondo ISTAT nell’ultimo trimestre del 2023 era pari al 70,9%, mentre quello femminile era pari al 52,2% (il più basso in Europa!), con differenze territoriali evidenti tra Nord e Sud Italia, dove le donne sono ulteriormente svantaggiate. Se guardiamo, poi, al tasso di inattività, quello maschile a novembre 2023 si attestava sul 24%, mentre quello femminile era pari al 42,1%. I dati, già molto significativi, invisibilizzano, inoltre, la condizione lavorativa delle persone trans*: la forzata autonomia economica e abitativa in età precoce, correlata alle frequenti violenze transfobiche intrafamiliari, si innesta su una diffusa discriminazione nell’accesso agli studi, alla formazione e al mondo del lavoro.

Le donne in Italia, dunque, non solo sono occupate in misura minore rispetto agli uomini, ma sono anche più scoraggiate nella ricerca di lavoro, sulla base di una valutazione che tiene spesso conto delle responsabilità di cura familiare che non vengono soddisfatte a livello istituzionale con l’implementazione di servizi pubblici accessibili. A questo ricatto della cura si aggiunge, poi, il tema del costante peggioramento delle condizioni di lavoro che segnano l’occupazione femminile.

I dati sul part-time involontario parlano chiaro: secondo il report di Save the Children “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2022” e il “Gender Policies Report” dell’INAPP, i contratti part time interessano il 49,6% delle donne e il 26,6% degli uomini; inoltre, per il 61,2% di queste lavoratrici, si tratta di un part time imposto dal datore di lavoro, dunque involontario. Le donne in Italia, lavorano con contratti più precari degli uomini, spesso per meno ore, essendo titolari di contratti a tempo determinato, contratti part time, contratti a progetto e di tutta quell’ampia fetta di contratti atipici, ovvero poco tutelanti, il cui uso è stato sdoganato politicamente a fronte di riforme del lavoro – da parte di governi di colori diversi- che non hanno mai osato mettere in discussione il mantra di quella flexsecurity neoliberale, che ha tutto della flexibility e molto poco della security. Inoltre, i più recenti dati sul gender pay gap (INPS) ci ricordano che, anche a fronte delle diverse condizioni di lavoro, nel settore privato le donne guadagnano circa 7.922 euro in meno rispetto agli uomini. Dimensioni determinanti sono, in tal senso, il sotto-inquadramento, la titolarità di forme contrattuali meno tutelate, l’esclusione dalle posizioni lavorative apicali, le carriere bloccate, un sistema premiante dei salari aziendali (contrattati e non) che penalizza l’accesso volontario alle misure di equilibrio vita-lavoro, a cui ricorrono quasi esclusivamente le donne.

E’ proprio a partire dall’analisi delle condizioni di lavoro della popolazione femminile, ancora identificata nel nostro paese come principale motore delle attività domestiche e di cura, che si parla di femminilizzazione del lavoro in senso qualitativo. Quest’espressione si riferisce al progressivo sdoganamento di lavoro precario, lavoro povero, lavoro poco tutelato che, pur essendo storicamente la condizione di normalità dell’occupazione di moltissime donne, ormai, supera le frontiere del genere e interessa gran parte degli occupati, soprattutto tra i più giovani, nel cui caso diventa spesso lavoro gratuito, di addestramento disciplinare.

Non è una combinazione, poi, che le donne siano occupate soprattutto nel settore dei servizi e all’interno di quelle attività che, seppur definite essenziali perché legate alle stesse necessità di riproduzione sociale della vita e del sistema economico in cui viviamo, vengono costantemente invisibilizzate e svalutate, tanto a livello sociale, quanto economico. Si tratta spesso di forza lavoro (operator* sanitari*, educator*, insegnant*, lavorator* della cura, lavorator* domestic*, etc.) altamente femminilizzata – e spesso razzializzata- proprio a partire dalla costruzione storica e sociale di determinate attività e competenze come intrinsecamente e naturalmente femminili (cura, linguaggio, relazione). Le vertenze che si sviluppano in tali ambiti lavorativi mostrano con evidenza il nesso tra violenza patriarcale e politiche neoliberali: pensiamo alle lavoratrici OEPAC (operator* educativ* per l’autonomia e la comunicazione), che si prendono carico dell’educazione e cura di persone con disabilità a condizioni lavorative vergognose e nella totale dismissione del welfare, ma pensiamo anche alle operatrici all’interno dei Centri anti-violenza, il cui valore sociale imprescindibile non viene riconosciuto, nemmeno quando tutta Italia sembra scioccarsi di fronte all’ennesimo femminicidio. E’ contro la svalutazione del lavoro femminile e femminilizzato, tanto nell’ambito del lavoro salariato, quanto in quello privato delle case, che intendiamo tornare a scioperare. I numeri mostrano plasticamente che degli oltre 960mila lavorator* domestici* regolari nel 2021 (Rapporto Domina su dati Inps) l’85% sono donne e che, in generale, il tasso di occupazione delle donne straniere sta subendo negli ultimi anni una marcata contrazione: le donne rappresentano il 62% de* disoccupat* stranier* in Italia.

Crediamo che dare un segnale forte, oggi, sia particolarmente importante. Nell’epoca del primo governo guidato da una donna, infatti, la politica sembra andare ostinatamente contro gli interessi delle donne e delle libere soggettività; fatto che non ci sorprende, essendo ben consapevoli che sono proprio le donne di potere che interiorizzano e riproducono dinamiche patriarcali, che antepongono l’economia alla vita, a rappresentare un grande pericolo per tutte le altre, negando le radici sociali dell’oppressione di genere.

Analizzando i recenti provvedimenti governativi, in particolare l’ultimo Decreto Lavoro e l’ultima finanziaria, ciò che salta immediatamente agli occhi è l’impronta prettamente familistica delle misure adottate, che facilitano le donne solo in quanto madri. Per quanto riguarda l’ultimo Decreto Lavoro, infatti, la strada seguita è quella dell’ulteriore precarizzazione contrattuale, nonostante tutti i dati ci ricordino che l’Italia è l’unico paese in Europa in cui i salari sono diminuiti e non aumentati negli ultimi 30 anni, in cui lavoro povero e lavoro poco tutelato sono condizioni strutturali del mercato del lavoro, e in cui non esiste un salario minimo.

Il decreto prevede nuove causali per il ricorso ai contratti a termine: in particolare, ci saranno meno vincoli per i rinnovi che vanno oltre l’anno (fino ai 12 mesi non sono proprio previste), aumentando così il grado di ricattabilità dell* lavorator* interessat*. Ancora, si alza da 10mila a 15mila euro la soglia entro cui sono ammesse le cosiddette prestazioni di lavoro occasionale (voucher) per i settori dei congressi, delle fiere e di altri settori legati al turismo, per le imprese che hanno fino a 25 lavorator* subordinati a tempo indeterminato (prima l* lavorator* dovevano essere al massimo 8), aumentando notevolmente la platea delle imprese e quindi de* lavorator* interessat*. Torna anche il cosiddetto bonus dipendenti, arrivando alla soglia in vigore fino alla fine del 2022, circa 3mila euro, con la differenza che sarà destinato solamente a lavorator*con figli a carico.

Infine, la misura più rilevante è la sostituzione del Reddito di Cittadinanza con il nuovo Assegno di Inclusione, che ha una dimensione fortemente familistica, ma solo per famiglie con persone disabili o figli minori o over 67, è condizionato alla prova dei mezzi (ovvero ISEE inferiore o uguale a 9360 euro e reddito sotto i 6000 euro) e interessa solo cittadin* italian*, titolari di protezione internazionale e titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo. Tutti i nuclei familiari non fragili devono seguire specifici percorsi di attivazione. Per loro è istituito lo Strumento di attivazione: l’assegno sarà di 350 euro al mese (per la durata temporale massima di 12 mesi), ma verrà perso dall’intero nucleo familiare se dovesse essere rifiutata un’offerta di lavoro, a tempo pieno o parziale, non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno. Questa misura, dunque, riduce ampliamente la platea dell* beneficiar* del RdC (che, come ci ricordano i dati, erano in quasi il 60% dei casi donne), mentre procede nella stigmatizzazione della povertà, considerata come problema individuale e non sociale, e nel rafforzare il ricatto dell’occupabilità, costringendo le persone “occupabili” ad accettare qualunque tipo di lavoro. D’altra parte, resta la dimensione familista dell’Assegno di inclusione e resta anche la condizione di discriminazione di persone non italiane.

La nuova Legge di Bilancio, poi, continua a individuare nella maternità la funzione sociale prioritaria delle donne, prevedendo misure a livello economico, quali ulteriori sgravi fiscali per le donne assunte a tempo indeterminato e che abbiano tre o più figli (dunque una platea abbastanza ristretta e “privilegiata” di lavoratrici). Anche l’aumento del bonus nido riguarda chi ha almeno due figli, così come la facilitazione per l’acquisto della prima casa.

Come ricordato da Sabrina Marchetti e Barbara Leda Kenny nell’articolo “Signora finanziaria”, uscito il 17 gennaio su InGenere, questa manovra sembra interessare solo le donne più “privilegiate”, ovvero quelle che hanno un impiego a tempo indeterminato (il più delle volte sottoccupate e sotto-inquadrate) e che hanno potuto scegliere di avere due figli (destreggiandosi quotidianamente tra lavoro e vita), mentre si escludono le donne con meno risorse economiche, le precarie e tutte coloro che avrebbero più bisogno di un supporto e che, invece, si ritroveranno ad essere colpite non solo dall’ulteriore precarizzazione dell’impiego prevista dal Decreto Lavoro, ma anche da misure come l’aumento dal 5 al 10% dell’IVA su prodotti legati alla prima infanzia, pannolini e assorbenti. Sostegni insufficienti e incentivi/doti all’assunzione per le imprese, se siamo madri; ricatto del lavoro povero, precarietà, inattività e disoccupazione per chi non lo è.

Lo sciopero femminista e transfemminista è, quindi, necessario, poiché è il solo in grado di connettere lo sfruttamento visibile del lavoro povero e precario, con quello invisibile della cura e delle attività domestiche. Dopo la marea del 25 novembre, anche quest’anno sciopereremo per tutto: per le nostre vite che vogliamo libere dallo sfruttamento economico e dal ricatto della maternità non autodeterminata, scioperiamo dai generi e dai consumi, scioperiamo contro la violenza fisica e psicologica. Scioperiamo per noi. Per chi non può scioperare. Per chi non c’è più, ma c’è sempre. Con una rabbia che non può più essere arginata. Perché ‘le nostre vite valgono’.

Immagine di copertina di Marta Iaquinto