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Il teatro dell’infanzia

Il 19 ottobre del 1891 nasceva Asja Lacis, comunista e femminista ante-litteram . Attraverso la sua opera parliamo di educazione politica ed estetica dei bambini.

In times of struggles, art has to be both an ally and friend of those in conflict.
(Asja Lacis)

«Che cos’è un palo del telegrafo? È un abete riveduto e corretto. Purtroppo vengono spesso riveduti e corretti in tal modo anche i nostri bambini» una battuta indovinata, quella di Asja Lacis: rivoluzionaria, bolscevica, regista teatrale nata il 19 ottobre del 1891 a Riga, in Lettonia. La biografia di questa militante comunista, dove vita, teatro e politica sono collegate al punto da non essere scindibili, è scritta nell’intemperie culturale tra la Germania della Repubblica di Weimar e l’Unione Sovietica. Dimenticata presto tanto nell’est Europa, perseguitata e costretta all’esilio sotto Stalin, quanto nell’Occidente, dove si conserva di lei una conoscenza indiretta, per così dire indiziaria, legata ai nomi di intellettuali suoi contemporanei.

I suoi lavori a Orël, Riga, Mosca, Valmiera e in Kazakistan hanno dato vita a percorsi in cui la pedagogia e il ruolo di regista sbaragliano le convenzionalità con i mezzi dell’invenzione teatrale. Il suo teatro proletario per bambini è stato capace di rappresentare un rapporto tra adulti e bambini dove i primi rimangono completamente in disparte e i secondi recitano per loro stessi con la certezza di fare tutto da soli. Tale messa in scena esige che il bambino afferri l’intera sua vita, mentre attraverso l’improvvisazione teatrale prende parte “a cose vere” e si misura con quelle cose “più grandi di lui” per crescere. Un uso politico del teatro dunque, un teatro militante che preconizza l’emancipazione del collettivo infantile attraverso l’emancipazione del gioco teatrale.

I primi lavori di Asja Lacis si collocano subito dopo la Rivoluzione russa, nel pieno dell’«ottobre teatrale» dove la strada irrompe nel teatro e il teatro nelle strade del piccolo villaggio russo di Orel. Qua coinvolge i piccoli besprisorniki, gli orfani di guerra, nella gestione del teatro cittadino nel biennio 1918-19. Questi bambini abbandonati «andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di briganti, vittime della guerra mondiale e di quella civile. Il governo sovietico si adoperava per sistemare i bambini sbandati in college e officine, ma riuscivano sempre a scappare. Negli ospizi municipali invece erano ospitati gli orfani di guerra».

Con loro avvia un teatro fatto anzitutto per l’autocomprensione degli autori, dove sono i bambini a costruire le storie da allestire. Si tratta di storie dall’andamento rapsodico con piena libertà di seguire, a ogni passo, nuovi sentieri, suggerimenti improvvisi, deviazioni. Dove l’incompiutezza è produttiva. Storie senza sentimento del rischio, prodotte da specialisti in divagazioni, fughe, invenzioni, salti mortali. A loro viene interamente lasciata anche la realizzazione degli aspetti tecnici: gli allestimenti scenici, i costumi, le musiche, le luci. Giocando al teatro si dimenticano della comparsa davanti al pubblico che farebbe altrimenti perdere «la gioia del produrre giocando» come afferma Asja Lacis, esaltando così il tratto processuale di questa drammaturgia. «La ricompensa più alta viene dal processo stesso del gioco piuttosto che dal successo o dalle approvazioni che potranno avere degli adulti», le farà eco Lev Vygotskij nel suo Immaginazione e creatività nell’età infantile.

Il gioco infrange l’autosufficienza dello spettacolo a cui sostituisce la sperimentazione collettiva, che presuppone allo stesso tempo un modello e delle variazioni libere. «Recitano tutti insieme, e sanno che è una commedia, ma la recitano per sovrabbondanza di felicità». Con queste parole, Lev Tolstoj, in un articolo scritto nel 1862 per la sua rivista “Jasnaja Polijana”, sembra descrivere non i suoi giovanissimi studenti, figli di contadini a cui insegnava a scrivere alle prese con la composizione, ma quello che sarebbe stato il lavoro proposto dalla Lacis. Come sempre, le definizioni più esplicite spettano ai precursori.

Nel teatro dell’infanzia, nella messa in gioco dell’infanzia a teatro, il bambino contempla le strutture della propria immaginazione e nello stesso tempo le fabbrica, costruendo gli strumenti indispensabili per la conoscenza e la presa del reale. I bambini, improvvisando, hanno la sensazione di giocare, e l’attore, lo spettatore, l’autore del dramma, lo scenografo e il tecnico sono riuniti in una sola persona.

Punto di partenza di quest’arte teatrale è l’osservazione: «i bambini osservano le cose, i loro rapporti reciproci e la loro modificabilità; gli educatori osservano i bambini, ciò che riescono a ottenere e fino a che punto sanno utilizzare in maniera produttiva le proprie capacità».

Tale metodo dove la dimensione processuale e collettiva conta più del risultato finale sarà riproposto nel 1927 quando, assieme a Nadežda Krupskaja dà vita, a Mosca, al cinema per ragazzi Balkan dove «i piccoli spettatori non erano consumatori passivi e producevano il materiale da esposizione: manifesti, disegni, poesie, estratti storici e letterari per ogni film. Compito loro era anche mantenere l’ordine nella sala di proiezione».

La preziosa testimonianza di questo lavoro svolto con i bambini, proteso alla creazione di un percorso pedagogico nel teatro e per il teatro, ha gettato le basi di un’educazione capace di liberare la produttività a prescindere dalle attitudini personali di ciascuno. Anni dopo, è a questo metodo che si richiama Bertold Brecht nel suo Lehrstück (dramma per imparare) per un’educazione estetico-politica che allena al gioco teatrale coloro che non si accontentano di stare semplicemente a guardare.

Oggi il nome di Asja Lacis appare nella carta geografica del sapere come uno strappo che si spalanca, destinato a allargarsi man mano che si immagina quel comunismo radicale dove sono gli adulti a avere bisogno dei bambini. Non il contrario.

Nota
Le citazioni di Asja Lacis sono estratte dal volume Professione: rivoluzionaria, edito da Feltrinelli nel 1976.