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MONDO

Il colonialismo israeliano è nudo

La “vittoria” genocida del sionismo sul popolo nativo della Palestina o un orizzonte di decolonizzazione con una Palestina libera dal fiume al mare, sembrano essere le uniche due soluzioni possibili a una ferita coloniale che non si rimargina mai del tutto

«Sono qui davanti a voi mentre 2,3 milioni di palestinesi a Gaza, metà dei quali bambini, vengono assediati e bombardati, uccisi e mutilati, condannati alla fame e sfollati; mentre più di 3,5 milioni di palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, sono soggetti alla colonizzazione del loro territorio e alla violenza razzista che la consente; mentre 1,7 milioni di palestinesi in Israele sono trattati come cittadini di seconda classe e intrusi non graditi nella loro terra ancestrale; mentre a 7 milioni di rifugiati palestinesi continua a essere negato il diritto di tornare alla propria terra e alla propria casa». Queste parole sono state pronunciate lunedì 19 febbraio dal ministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese, Riyad al-Maliki, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, all’Aia.

L’intervento di Al-Maliki è avvenuto in un momento storico: per la prima volta l’occupazione israeliana è stata “processata” davanti a un tribunale internazionale. Tra il 19 e il 26 febbraio, 52 stati, insieme a tre organizzazioni internazionali (l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, l’Unione Africana e la Lega Araba) sono intervenuti davanti alla Corte. Il processo, avviato nel dicembre 2022 su iniziativa dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, richiede una decisione da parte della Corte Internazionale di Giustizia in merito alle «conseguenze legali derivanti dalle politiche e dalle pratiche di Israele nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est».

Durante gli interventi orali tenutisi questa settimana, si sono sentite più volte parole come colonialismo, annessione o riparazione e si è discusso del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e della fine dell’occupazione, delineando un ambito di discussione che Israele cerca di neutralizzare da decenni. Tuttavia, da quando è iniziata la vendetta per gli attacchi del 7 ottobre, il carattere coloniale dello Stato sionista è diventato sempre più visibile.

I due processi che deve affrontare davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (per occupazione e per genocidio) hanno fornito l’occasione per rimettere al centro la questione coloniale, mostrando allo stesso tempo una divisione del mondo in base alla posizione nei confronti di Israele, che separa un Occidente di tradizione coloniale dal resto del mondo.

Dopo «decenni di colonialismo e apartheid, dovrebbe essere concordata, con l’aiuto della comunità internazionale, una soluzione equa per tutti coloro che soddisfano i requisiti legali per vivere nella Palestina storica», ha dichiarato lunedì 19 all’Aia Vusimuzi Madonsela, Ambasciatore del Sud Africa nei Paesi Bassi, indicando uno scenario di post-occupazione. L’Algeria, da parte sua, ha avvertito che Israele «mira a un punto di non ritorno» nei territori occupati per «escludere qualsiasi possibilità di creare uno stato palestinese».

Altri paesi del sud del mondo come Cile, Brasile, Colombia e Bolivia hanno ribadito davanti alla Corte la loro posizione contro l’occupazione israeliana dopo aver preso, negli ultimi mesi, iniziative diplomatiche per opporsi allo stato sionista. Nel suo discorso di venerdì 23 febbraio 2024, la Namibia, vittima del primo genocidio del XX° secolo per mano della Germania, ha sottolineato ancora una volta la natura coloniale del conflitto e ne ha ricordato il contesto. La Ministra della Giustizia, Yvonne Dausab, ha ricordato che il suo paese «conosce troppo bene il dolore e la sofferenza dell’occupazione, del colonialismo, della discriminazione sistematica, dell’apartheid e delle sue profonde conseguenze».

Da parte loro, i paesi occidentali che sono intervenuti davanti alla Corte hanno sottolineato il «diritto di Israele a difendersi», ripetendo la narrazione dello stato sionista. René JM Lefeber, consulente legale del Ministero degli Affari Esteri olandese, ha sostenuto che «l’occupazione di un territorio può essere legittima nell’ambito del diritto all’autodifesa, in risposta a un attacco armato». Un argomento condiviso con il rappresentante francese, il quale il 21 febbraio ha spiegato che l’occupazione potrebbe essere legittima per evitare nuovi attacchi come quello del 7 ottobre. Tuttavia, anche tra questi alleati di Israele, si è insistito sulla necessità di porre fine all’espansione coloniale dello stato sionista.

Nel vecchio mandatario della Palestina, il Regno Unito, Israele ha trovato il suo più stretto alleato davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Il paese aveva già cercato di fermare il processo l’estate scorsa, quando in un’ampia relazione legale presentata alla Corte aveva mostrato la propria opposizione a che l’occupazione israeliana venisse posta sotto processo all’Aia. Nel testo, che già all’epoca aveva suscitato indignazione tra la diplomazia palestinese e i giuristi internazionali, si alludeva al fatto che il processo non aveva senso poiché non aveva il consenso di una delle parti, Israele. La stessa tesi è stata difesa venerdì 23 febbraio da Dan Sarooshi, rappresentante britannico presso la Corte.

Intervenendo alla Corte Internazionale di Giustizia venerdì, il rappresentante del Regno Unito Dan Sarooshi ha chiesto che la corte non esprimesse un parere consultivo sull’occupazione israeliana della Palestina perché Israele non aveva dato il consenso. Il Regno Unito ha anche dichiarato che il ritiro di Israele dai territori occupati dovrebbe avvenire tramite negoziati e non tramite la decisione di un tribunale.

Lunedì 26 febbraio è stata una giornata fondamentale per le due iniziative che hanno portato Israele davanti alla giustizia internazionale. Nell’ultimo giorno delle udienze sulle conseguenze giuridiche dell’occupazione israeliana, a cui parteciperà la Spagna, si aggiunge la presentazione da parte dello stato sionista di una relazione ufficiale che illustra come abbia rispettato le misure provvisorie dettate dall’organismo di giustizia internazionale, trascorso il mese previsto.

Nel frattempo, il numero degli abitanti di Gaza uccisi nell’offensiva israeliana ha raggiunto quota 30.000 e il numero dei feriti si avvicina a 70.000, Israele minaccia l’invasione per terra di Rafah e si succedono le dichiarazioni del governo israeliano che mirano all’espansione della colonizzazione della Cisgiordania e ai piani di riempire Gaza di insediamenti. Sabato 24 febbraio, il Sudafrica ha esortato i paesi a partecipare al processo contro lo stato sionista.

Colonialismo da TikTok

Una delle misure che Israele potrebbe introdurre nella sua relazione davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, sono i suoi recenti tentativi di disciplinare il proprio esercito di fronte alle azioni umilianti e sprezzanti che vengono messe in pratica fin dall’inizio del massacro e documentate sui propri social network. Anche il materiale diffuso dai membri dell’esercito occupante, presentato come prova nell’accusa sudafricana davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, mostra in maniera esplicita l’agenda colonizzatrice di Israele.

Lo scorso sabato, 24 febbraio, un soldato israeliano si vantava davanti alla telecamera del suo cellulare degli attacchi incendiari contro edifici residenziali nel quartiere Zeitoun di Gaza City. «Un piccolo barbecue è sempre divertente», ha detto, prima di precisare che tra un anno e mezzo la zona si riempirà di insediamenti israeliani. Già il 7 febbraio l’Ufficio Stampa del governo di Gaza aveva denunciato l’incendio di almeno 3.000 case, la maggior parte nel centro e nel nord della Striscia di Gaza. Questi incendi risponderebbero, secondo “Haaretz”, all’ordine dei comandanti dell’esercito israeliano di bruciare in massa le case a Gaza.

In un altro video pubblicato a dicembre, diverse giovani donne ballano al ritmo di musica elettronica in un ambiente desertico. Sono appartenenti all’esercito israeliano e si trovano a Gaza. Si divertono davanti alla telecamera dopo due mesi di offensiva israeliana che, all’epoca, aveva già causato la morte di circa 20.000 gazawi. Nel video non si vede alcuna popolazione palestinese nonostante sia la terza zona con la più alta densità di abitanti per chilometro quadrato al mondo. Questa immagine di Gaza vuota concorda con l’immaginario coloniale delle terre disabitate:

«Una terra senza popolo per un popolo senza terra». 75 anni dopo, l’Israele di Benjamin Netanyahu sembra deciso a concretizzare quella finzione con l’espulsione definitiva della popolazione dalla Striscia.

Proprio come le potenze coloniali europee appoggiarono il progetto sionista alle sue origini, legittimandolo con la Dichiarazione Balfour (1917), anche nel XXI secolo continuano a esserne le principali alleate. Sostengono materialmente Israele con una fitta rete di scambi commerciali e di affari ma anche simbolicamente: mentre viene apertamente espressa la volontà di Israele di intensificare ed espandere l’occupazione, la bandiera palestinese o la kefiah vengono considerate simboli terroristici e si criminalizzano gli slogan della resistenza.

Un esempio paradigmatico degli ultimi tempi è il caso di «From the river to the sea, Palestine will be free», coro che è stato accusato di antisemitismo. La fino a pochi mesi fa Ministra dell’Interno britannica, Suella Braverman, aveva fatto riferimento all’uso di questo slogan per argomentare che le manifestazioni filo-palestinesi nel Regno Unito sostenevano il terrorismo. Lo slogan è stato criticato anche dai laburisti inglesi e da alcuni settori della sinistra, perché ritengono che metta in discussione il diritto di esistere di Israele.

«Amici, dobbiamo smettere di usare lo slogan “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. State chiedendo di porre fine all’intero Stato di Israele. E questo è antisemita. Quello che invece dovreste dire è: “Dalla sponda est del fiume Giordano, compreso Jenin e il suo campo profughi, Tulkarem e Nablus fino al primo checkpoint, e se ti lasciano passare saltando le città israeliane di Qalquiya e Fasa fino al prossimo checkpoint, avanzando attraverso le città palestinesi fino alla fine della Cisgiordania…». Così l’utente @qawemisrael, di fronte all’astrazione del diritto di esistere dello stato sionista, mappa ironicamente su TikTok un territorio palestinese occupato, composto da agglomerati urbani non collegati tra loro, attraversato da checkpoint e insediamenti. Mostra la realtà dell’occupazione 75 anni dopo la creazione di Israele: lo slogan è controverso perché sottolinea il quadro coloniale del “conflitto”. E Israele, sin dalla sua creazione, ha negato che si tratti di un’impresa di colonizzazione.

All’inizio di dicembre, il presidente israeliano Isaac Herzog è stato intervistato da un giornalista francese. Quest’ultimo gli ha posto una domanda sui coloni, usando il termine francese “colons”. L’interprete ha tradotto in inglese, ma non ha usato la parola “settlers”, derivata da “settlement” [insediamenti – ndt], che è quella che si usa abitualmente in inglese, bensì “colonist” [“colonizzatore” – ndt]. Herzog negò aggressivamente l’esistenza del colonialismo in Israele. Mohamed Dhia Hammami, l’analista politico che documenta l’episodio, spiega come dal 1967 Israele e i suoi alleati anglosassoni abbiano fatto «ginnastica linguistica» per evitare di usare il termine colonialismo.

In qualche modo, per alcuni decenni ci sono riusciti. Anche grazie alla complicità della sinistra, come spiega l’attivista Daniel Lobato nell’inchiesta La rottura del confinamento di Gaza, il cadavere israeliano e la sinistra di fronte alla Palestina, pubblicata su “El Salto”: «L’evidente processo di colonialismo tramite gli insediamenti dei coloni e la sostituzione demografica forzata dei palestinesi indigeni è stato trasformato dagli Accordi di Oslo in un falso accordo tra presunte parti uguali». Con questo cambiamento, spiega Lobato, si sostituisce il lessico delle lotte anticoloniali (quando si parlava di diritto al ritorno o di resistenza) con il lessico del processo di pace, che ha introdotto il diritto dello stato occupante a difendersi, e la lotta armata del popolo occupato veniva considerata terrorismo. Culmina così, secondo lui, un processo evidenziato nell’Internazionale Socialista tenutasi nel 1960 ad Haifa, città oggetto di pulizia etnica appena 12 anni prima. I partiti lì riuniti hanno rilasciato una «dichiarazione finale che difende la decolonizzazione nel mondo, ma legittima la colonizzazione della Palestina». Nel suo articolo, pubblicato il 9 ottobre, Lobato sottolinea comunque che negli ultimi anni la sinistra sembra essere tornata sul piano coloniale.

Intersezionalità, nemica di Israele

Un uomo che fa parapendio sventola una bandiera palestinese. Questa è l’immagine che la sezione di Chicago del movimento Black Lives Matter (BLM)ha pubblicato sui social media il 7 ottobre, accompagnata dalla frase: «I stand with Palestine». La foto ha ricevuto forti critiche in un Paese dove è opinione comune che tutte le azioni armate compiute dai Palestinesi siano atti di terrorismo, in particolare l’attentato del 7 ottobre che ha causato il maggior numero di morti israeliani dal 1948 a oggi (1.139 tra civili e soldati secondo gli ultimi dati ufficiali). Alla fine, il movimento ha cancellato il messaggio, scusandosi, ma ha aggiunto: «Siamo con la Palestina e con le persone che faranno ciò che è necessario per vivere in libertà».

L’esempio mostra come negli Stati Uniti, principale alleato di Israele, la lotta intersezionale in generale e il movimento BLM in particolare, con il loro sostegno al popolo palestinese abbiano raccolto il testimone dello sguardo anticoloniale. Nel luglio 2014, Israele ha lanciato uno degli attacchi più feroci contro Gaza; nell’agosto dello stesso anno, l’adolescente afroamericano Michael Brown è stato assassinato dalla polizia a Ferguson nel Missouri, un evento che ha rappresentato uno shock per il giovane movimento BLM. All’epoca, uno dei principali portavoce era un palestinese americano, Bassem Masri. Il collegamento non si è limitato a questo, attivisti del movimento BLM si sono recati nei territori occupati e si sono espressi a favore della Palestina. Come documentato dalla giornalista Fabiola Cineas nel suo articolo La lunga, complicata storia della solidarietà nera con Palestinesi ed Ebrei, dopo la morte di George Floyd nel 2020, questo legame si è approfondito: nei territori occupati sono stati dipinti murales del cittadino afroamericano, mentre molti palestinesi, quando vengono attaccati dalle forze armate israeliane, dicono «Non riesco a respirare», dichiara il ricercatore Sam Klug nell’articolo citato.


Murales in memoria di George Floyd dipinto sul muro di separazione a Betlemme.
Cisgiordania, 9 giugno 2020. Fotografia
: Wikicommons

Questa connessione tra il movimento nero e il popolo palestinese non è sempre stata così: nel 1948 alcune comunità afroamericane, ignare del quadro della Nakba e dell’oppressione palestinese, celebrarono la creazione di Israele, empatizzando con un altro popolo oppresso. Il progetto sionista, di fatto, entrava in risonanza con alcune narrazioni della comunità afroamericana legate all’idea di una comunità oppressa che fonda il proprio stato in quella che considera la propria terra di origine. La creazione dello Stato della Liberia condivide questa narrazione; non è un caso che questo stato africano abbia mantenuto rapporti privilegiati con Israele per gran parte della propria storia. La simpatia verso Israele di alcuni settori del movimento nero è diminuita man mano che la struttura coloniale del piano sionista diventava più evidente evidente.

L’alleanza dell’ultimo decennio tra il movimento BLM e il popolo palestinese è anche un riflesso dell’alleanza tra i rispettivi oppressori. In un articolo pubblicato su “Al Jazeera” nel 2020, l’attivista israelo-americano Yoav Litvin osserva:

«I progetti di supremazia bianca e di colonizzazione degli Stati Uniti e di Israele condividono principi di base, tattiche oppressive, strategie aggressive, tecniche e apparati di propaganda».

Di fatto, come sviluppato nel testo, le forze di polizia di entrambi i paesi spesso si addestrano insieme: «I falchi sionisti hanno affermato che il movimento Black Lives Matter viene utilizzato in una campagna politica contro Israele, confondendo le opinioni anticoloniali espresse dagli attivisti antirazzisti con l’antisemitismo».

Poco più di tre anni dopo, nel pieno della campagna israeliana di sterminio di Gaza, una decina di deputati democratici hanno chiesto a Joe Biden di spingere Israele verso un cessate il fuoco. Il gruppo, guidato dalla rappresentante di origine palestinese Rashida Tlaib, aveva qualcosa in comune: la stragrande maggioranza era di origine araba, afroamericana o latina. In un altro articolo, lo stesso Litvin ha segnalato come, dopo che nel 2019 Israele aveva già negato l’ingresso a Tlaib e alla deputata Ilhan Omar, che gli attacchi contro queste due deputate erano dovuti al fatto che Israele vede il punto di vista intersezionale come un pericolo: «Vedere e resistere all’oppressione attraverso la lente dell’intersezionalità galvanizza le lezioni dei movimenti anticoloniali del passato e aiuta a rompere le narrazioni politiche fittizie della supremazia bianca, dell’imperialismo, del razzismo e del patriarcato. Inoltre, il riconoscimento che popoli oppressi diversi hanno nemici comuni serve a rafforzare la solidarietà tra loro e aiuta i movimenti di base come il BDS [Boycott, Divestment and Sanctions, ovvero Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele – ndt]».

Che Israele consideri le alleanze intersezionali un pericolo è certificato dal rapporto Navigating Intersectional Landscapes [Orientarsi in Ambiti Intersezionali – ndt], realizzato dall’Istituto Reute [think-tank e lobby di Tel Aviv fondata nel 20024 – ndt] e dal Jewish Council for Public Affairs [Consiglio Ebraico per i Pubblici Affari, fondato negli Stati Uniti nel 1945 – ndt]. Il documento problematizza il suddetto avvicinamento tra il movimento BLM e i movimenti filo-palestinesi del 2014 sotto l’hashtag #Palestina2Ferguson. Mette in guardia anche dalla “corbynizzazione” che si starebbe «diffondendo in settori della sinistra politica», in riferimento alla posizione filo-palestinese dell’ex-leader del partito laburista britannico, sospeso dopo essere stato accusato di non aver affrontato l’antisemitismo all’interno del partito.

Nel caso statunitense, colui che avrebbe potuto svolgere un ruolo simile a Corbyn, Bernie Sanders, è rimasto fedele ai postulati filo-israeliani (la lobby dell’AIPAC lo ringrazierebbe pubblicamente [AIPAC, American Israel Public Affairs Committee, Commissione Israelo Americana per gli Affari Pubblici, fondata nel 1954 e considerata la lobby più potente di Washington – ndt]). mentre le deputate del gruppo chiamato “Squad” [gruppo informale composto da 8 parlamentari democratici, fondato da Alexandria Ocasio Cortez nel 2014 – ndt] vicine a questo leader, le uniche che stanno denunciando Israele più apertamente, rappresentano un cambiamento nell’opinione delle nuove generazioni democratiche. Il documento esprime anche allarme per l’avanzata dell’antisionismo all’interno di ampi settori ebraici che descrive come radicali, indicando, allarmato dal posto di questi gruppi ebraici nelle alleanze intersezionali, come siano «Antisionisti che denunciano Israele. Spesso servono come “sigillo Kosher” per “legittimare” le campagne antisioniste».

La visione anticoloniale

Una giovane e attraente ragazza bianca parla in un video su TikTok: invita gli ebrei di tutto il mondo a unirsi all’IDF in Israele. Mahal, l’agenzia israeliana che si occupa di reclutare giovani ebrei nel mondo, presenta “l’esperienza” quasi come un’attività giovanile qualunque, con foto di ragazzi e ragazze bianchi che sorridono o si allenano, circondati da armi. Sebbene “il nemico” non appaia in nessuna delle immagini, uno sguardo antirazzista non può non capire a quali “noi” si riferisce la campagna e contro quali “loro” sono invitati a combattere. Sempre più persone vedono in quelle uniformi immacolate un esercito coloniale di occupazione.

«Gli studiosi discutono da decenni se Israele costituisca di fatto una colonia di insediamenti e, seguendo le argomentazioni di eminenti studiosi come Joseph Massad, Rashid Khalidi, Noura Erakat, Ilan Pappe, Hamid Dabashi e Robert Wolfe tra gli altri, la risposta è convincente: Israele é il prodotto di un progetto coloniale nazionale basato sugli insediamenti», ha sostenuto in un articolo il sociologo Muhannad Ayyash, che sottolineava la necessità di partire da questa realtà per poter pensare al futuro, partendo dal presupposto che è nella natura di uno stato con queste caratteristiche continuare ad annettere territori, come si è potuto vedere nel corso della storia israeliana e come sembra potrebbe accadere dopo quest’ultima campagna genocida.

Foto di Ali Hamad da wikimedia

Il 17 dicembre, il leader di Hamas, Osama Hamdan, ha ricordato questo asse coloniale davanti al Primo Ministro francese: «Prima di parlare di diritti umani, Macron dovrebbe restituire i teschi algerini dai musei francesi». Hamdan ha così affermato il seguente sottotesto: le potenze occidentali non possono parlare di diritti umani nascondendo il quadro di oppressione che comporta il colonialismo. I teschi menzionati appartengono ai combattenti della resistenza algerina contro il colonialismo francese.

È proprio l’Algeria che, in qualche modo, custodisce lo spirito anticoloniale, essendo la sua guerra di liberazione afferente a questo ambito. Il suo attuale presidente, Abdelmadjid Tebboune, ha voluto recuperare questa tradizione che pone l’Algeria tra i principali alleati del popolo palestinese, dopo quasi tre decenni in cui la guerra civile algerina e il lungo governo di Abdelaziz Buteflika avevano offuscato questo capitale politico come simbolo della lotta anticoloniale, soprattutto dopo la normalizzazione di Israele da parte di molti paesi arabi.

Israele e il razzismo

Nel 1975 viene approvata la risoluzione 3379 delle Nazioni Unite che definiva il sionismo come una forma di razzismo. La risoluzione è stata revocata nel 1991. Tuttavia, alla Conferenza Mondiale contro il Razzismo tenutasi a Durban nel 2001, il sionismo è stato nuovamente associato al razzismo. «I sionisti liberali e “di sinistra” sostengono che il governo sempre più di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sia una “degenerazione” del cosiddetto sogno sionista. Ci viene detto che questa visione rappresenta un rifugio egualitario per i popoli ebrei oppressi del mondo. Questa è una fantasia astorica», ha dichiarato il ricercatore Asa Winstanley nel suo articolo Perché il sionismo è sempre stato un’ideologia razzista?, nel quale afferma che la creazione di uno “Stato Ebraico” in un territorio a maggioranza non ebraica, era sin dagli inizi un progetto escludente e razzista, come qualsiasi progetto coloniale europeo dell’epoca.

Tuttavia, nell’ambito della sua strategia di sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo, Israele cerca di sfruttare a proprio vantaggio la carta del razzismo: nel 2021 sul “Jerusalem Post”, il direttore del MEPIN [Middle East Political and Information Network, Rete Politica e di Informazione del Medio Oriente fondata da Eric R. Mandel, Co-Chairman per l’area Nordest per StandWithUs, organizzazione politica internazionale che contrasta il movimento BDS – ndt] dava l’allarme perché il sionismo era stato “nuovamente” identificato con il razzismo negli Stati Uniti, definendo la Conferenza di Durban, tenutasi due decenni prima, come un «forum razzista» nel quale l’antisemitismo era stato ignorato. Come esempio, l’autore ha citato proprio i membri della Squad per aver utilizzando i termini apartheid e terrorismo nel descrivere la politica sionista di Israele. E ha concluso con: «Questa non è una critica legittima nei confronti di Israele. Questo è antisemitismo […] è odio verso gli ebrei che incita alla violenza ed equiparare il sionismo al razzismo è puro e semplice antisemitismo».

Israele non gioca la carta del razzismo solo per attaccare le critiche internazionali. La ricerca “La criminalizzazione e la razzializzazione della resistenza palestinese al colonialismo degli insediamenti” dimostra come, nel 2021, Israele considerava “atti razzisti e terroristici” le proteste e gli atti violenti dei giovani palestinesi in risposta alla demolizione delle case palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, all’invasione israeliana della moschea di Al-Aqsa e agli attentati contro Gaza. Gli autori spiegano come, attraverso questo meccanismo, «il sistema giuridico israeliano non solo ha criminalizzato i palestinesi per aver resistito al colonialismo degli insediamenti, ma ha anche lavorato per razzializzarli come selvaggi ribelli la cui violenza è priva di significato.

Israele ha utilizzato la criminalizzazione per cancellare il contesto politico di dominazione, oppressione ed espropriazione che aveva generato in prima battuta una resistenza diffusa». Una strategia che sta crollando.

Nel suo articolo scritto nel 2021, Ayyash sottolinea come «la maggior parte degli argomenti che pongono l’attenzione sul diritto internazionale e sul processo di pace si basano sul presunto presupposto che Israele sia interessato alla creazione di uno stato palestinese secondo i confini del 1967. Però le politiche israeliane hanno dimostrato chiaramente che questo non è il loro obiettivo o aspirazione». Elementi che spingono l’autore ad avvertire che il progetto sionista non potrà concludersi se non con l’annessione di tutta la Palestina.

Nelle ultime settimane, la retorica israeliana contro la creazione dello stato palestinese si è intensificata, con numerose dichiarazioni volte a combattere la soluzione dei due Stati. L’ultima di queste dichiarazioni è stata pronunciata, in risposta al sostegno degli Stati Uniti alla soluzione dei due Stati, dal Ministro israeliano del Patrimonio, Amichai Eliyahu, il quale ha affermato che la creazione di uno stato palestinese vicino a Israele «porterebbe a un olocausto». Il ministro di estrema destra, durante un’intervista rilasciata al “Times of Israel”, ha descritto un eventuale stato palestinese come un trionfo del terrorismo. Eliyahu è lo stesso ministro che lo scorso novembre aveva suggerito la possibilità dell’uso di bombe nucleari a Gaza.

«Gli ultimi governi israeliani hanno lasciato ai palestinesi solo tre opzioni: deportazione, sottomissione o morte. Ecco le opzioni: pulizia etnica, apartheid o genocidio. Ma il nostro popolo è qui per restare […] e non rinuncerà ai propri diritti», ha dichiarato al-Maliki lunedì scorso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. A quasi cinque mesi dall’inizio del massacro israeliano, con tutte le carte in tavola, non sembrano esserci mezze soluzioni possibili: la “vittoria” genocida del sionismo sui nativi della Palestina, oppure un orizzonte di decolonizzazione con una Palestina libera dal fiume al mare sembrano essere le uniche due possibili soluzioni a una ferita coloniale che non si rimargina mai.

Articolo pubblicato originariamente su El Salto Diario. Questo articolo è una versione aggiornata di quello apparso sulla rivista “El Salto” lo scorso gennaio. Traduzione in italiano di Michele Fazioli per Dinamopress