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Il calco di una militanza possibile. Sulla poesia di Michele Mari

Nel disimpegno politico di Mari, nel suo continuo e rigoroso giocare con le parole e le forme della letteratura, nel suo costante sottrarsi al mondo, si può quasi leggere una scelta radicale di militanza impolitica ed esistenziale

Virtuoso, anzi “virtuosista”, poeta dalla parola rarefatta e trasparente, maledetto suo malgrado. Michele Mari è figura che riesce a essere al centro del dibattito letterario contemporaneo e allo stesso tempo ad abitare i suoi estremi margini, a stare nell’invisibilità di un successo circoscritto e snobisticamente “esclusivo”. Il titolo del suo ultimo libro, Dalla cripta, riassume in qualche modo questa natura ancipite del discorso: che si vuole pronunciato appunto da un dostoevskijano sottosuolo, da un antro nascosto e reietto, eppure contemporaneamente raffinato, artificiosamente costruito. Un discorso, cioè, che procede da un gesto di assunzione di parola coraggioso ma che è contemporaneamente anche segno di distinzione, un’ostentazione di privilegio (e superiorità) intellettuale.

«Ho pensato i tuoi occhi
così tante volte
che alla fine il pensiero
mi è rimbalzato addosso
e non ho più avuto un gesto
che non fosse riflesso
dal tuo sguardo

Questo dirò a discolpa
quando dovrò spiegare
perché della mia vita
ho fatto cosa aliena
e complicata»

Lo affermava uno dei poemi più convincenti (e celebri) della precedente raccolta in versi, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, esercizio manierista in cui ogni tormento sentimentale è già occasione di scrittura, moto d’animo letterariamente inteso e letterariamente compreso. La vita dell’autore, che si vuole «aliena e complicata» per una delusione d’amore, è in realtà il contrappeso speculare del proprio stile, che è innanzitutto alieno a se stesso, ovvero irrimediabilmente mediato da altri stili, da un citazionismo per nulla mascherato, e complicato, vale a dire abbarbicato e acquattato attorno a uno strambo “attorcigliamento del senso”, che non comunica altra verità se non quella relativa al proprio statuto estetico. L’opera di Michele Mari è dunque – e per stessa ammissione di quest’ultimo – un “riflesso”, un “rimbalzo del pensiero”, che è sempre dislocato rispetto all’oggetto e all’evento da cui trae ispirazione e verso cui muove il discorso.

Un sondaggio interno alla comunità letteraria, condotto qualche tempo fa da Giacomo Raccis e da Paolo di Paolo, indicava lo scrittore milanese come il più citato nel momento in cui si doveva rispondere alla domanda: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Michele Mari è, quindi, abbastanza universalmente riconosciuto come un nome “duraturo”, destinato a influenzare il modo in cui il canone presente verrà tramandato nelle epoche a venire. Viceversa, altri evidenziano i limiti insiti nel suo modo di concepire la scrittura e l’ispirazione artistica, a partire proprio da una sorta di “culto dello stile” talmente onnicomprensivo da divenire quasi asfittico.

Così il critico, poeta e scrittore Matteo Marchesini in Casa di carte: «Il fatto che parecchi fan di Mari si ritengano dei buongustai supremi, e che ritengano il suo mantecato gaddian-manganelliano, certo abilissimo, il non plus ultra della raffinatezza, testimonia a sfavore della concezione oggi più diffusa di “stile”».

Concezione che – proviamo dunque a interpretare oltre le parole di Marchesini – possiede qualcosa di eccessivamente “modaiolo”, formalista. È il segno, cioè, di un’attenzione generalizzata non tanto allo stile e alle sue conseguenze in termini critici, quanto alle caratteristiche di riconoscibilità di uno stile rispetto all’altro. Ovvero, è il segno di una propensione a intendere la letteratura (e, verrebbe da dire, ogni fenomeno estetico) come un marcatore di status, un rito in fin dei conti tribalistico: il «non plus ultra della raffinatezza», per come viene definito sopra, è in realtà quanto di più “primitivo” si possa immaginare, poiché consiste in ultima analisi in una demarcazione del territorio, nel tracciare un perimetro socialmente escludente.

Il nome di Mari è, sotto molti aspetti, perfettamente funzionale a un’operazione di questo tipo. E non tanto per l’elevata elaborazione della sua scrittura, quanto per la varietà di voci e registri che riesce a mettere in campo.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare di primo acchito, infatti, in Dalla cripta così come nel precedente Cento poesie d’amore a Ladyhawke non sono presenti elementi di scrittura ostici, spropositatamente ricercati. Certo, abbondano i classicismi (nella maggior parte dei casi svolti in senso mimetico e parodistico), non si dà mai una fuoriuscita dal rigore della composizione sia in senso sintattico che metrico, ma allo stesso tempo il procedere dei versi è quasi sempre piano, estremamente limpido nel suo significare e nella propria intenzionalità. «Ghiaccio chiede il direttore / ed il ghiaccio gli è portato / in bacile improvvisato: / che malgrazia, quale orrore! / Ecco dunque impacchettato / un glacial contenitore / che determini il rigore / del gassoso prelibato»: non privi di ironia, issati su di un equilibrio instabile ma ben riconoscibile nei suoi minimi dettagli, i componimenti si dischiudono spesso in modo spontaneo, quasi come fossero tanti piccoli ventagli.

Allo stesso tempo, accanto a tali poesie d’occasione più “minuta”, decisamente prosaica e quotidiana, convivono momenti di elaborazione maggiormente strutturata, quasi al limite dell’opera-mondo: è il caso di Versione del canto XXIV dell’Iliade di Omero di endecasillabi sciolti, riscrittura dall’epopea greca che chiude la raccolta, ma soprattutto di Atleide, narrazione iperbolica e classicheggiante del famoso derby calcistico Milan-Inter della stagione ‘84/’85 in cui il centravanti inglese Mark Hateley –da Mari paragonato appunto a un eroe omerico che affronta la “pugna” – decise la partita con un imperioso stacco di testa. Così il tono del lungo componimento (poco meno di 1150 versi): «[…] un murmure indistinto di fantasmi / e un pallido sembiante di palloni / cui mille larve in pena dean pedate: / e fremer lo facea cieco desio / d’unirsi a quelle forme, e di calciare […]». L’evento sportivo viene trasfigurato in un “furor di procella”, in uno scontro affatto epico che si gioca contemporaneamente dentro la psiche dei calciatori-personaggi e in quella degli spettatori che già nella propria quotidianità “si abbandonano” allo spettacolo calcistico come fosse un racconto mitico e mitologico.

È qui che in qualche modo la varietà (di registri, di tematiche, di approccio allo stile, etc..) diviene retorica suadente, proposta “ambiguamente” inclusiva: dall’“aroma petrarchesco” che contraddistingue i sonetti della prima sezione Rime amorose («Solo solingo va lo pescatore / inteso alla cattura di gran pesce […]»), alla sospensione plumbea e intimista che attraversa i componimenti del capitolo Altre rime («[…] frammenti di memoria, noi e voi, / precipiti nel nulla a capofitto / perché il passato è tutto, e siamo suoi»), all’irriverente virtuosismo e “genitalo-centrismo” della parte Esercitazioni comiche («Il salvaslip che serve a la tua sorca / se tuttodì secerne oscena bava / ch’in guisa d’una gromma afrobatava / s’incolla a la mutanda, o brutta porca? […]»), fino al gusto per il pastiche e il “citazionismo spinto” degli Scherzi («[…] passato di verdura / passione della storia / storione che ripassa / e Chick Corea che suona») o l’ironia meta-letteraria delle Rime d’occasione («[…] niente in prosa vale, né in poesia / senza il comporre tuo, tipografia»), Michele Mari mette a punto una sorta di “almanacco poetico”, una guida tutto sommato ragionata, benché eccentrica, al parlar per versi.

Così facendo, si scava – chissà se con eccessiva maestria – un posto privilegiato in quella che sembra essere la linea di divisione fra “cultura alta” e “cultura bassa”, fra una supposta immediatezza di fruizione e una ricercata e forbita elaborazione formale.

In altre parole, è come se l’autore di Di bestia in bestia e di Rosso Floyd riuscisse a creare un proprio io letterario già immerso non solo in una propria e specifica poetica, in un proprio e specifico mondo finzionale, ma anche in una fittizia società letteraria che – a grandi linee – rispecchia quella reale. Si tratta di una sorta di “estetismo al quadrato”, per cui non è il Michele Mari “autore” a ricercare un posizionamento dentro le tendenze e gli stili contemporanei, ma è la sua “voce poetica” a esprimersi in maniera già strutturalmente intrisa di una tale necessità. Il che, tra le altre cose, porta dritti al conflitto che attraversa quasi tutti i suoi libri andandone a costituire il nucleo espressivo forse più fecondo e interessante: la lancinante discrepanza fra emozione e discorso, fra il supposto carattere autobiografico delle vicende narrate e i registri con cui queste ultime vengono descritte e messe dentro una confezione stilistica talmente immaginifica ed esagerata, da risultare irrimediabilmente astratta e distante.

Lo teorizza, in qualche modo, Michele Mari stesso: «Il tema del romanzo – dice a proposito dell’esordio Di bestia in bestia – più ancora del dualismo fra sublimazione e ferinità, era la contraddizione per cui a sua volta la cultura può essere simultaneamente vissuta come luce (o salvezza) e come impedimento alla vita; come orgoglio, e come lutto. Dovevo dunque scriverlo in modo alto e sublime, ma con tali eccessi da rivelare la componente nevrotico-feticistica di quello stesso stile». Nella postfazione all’opera, che di fatto ha come centro tematico l’aspetto bestiale e più ferinamente incontrollabile dell’appetito sessuale, l’autore la definisce il «libro di una vita», una storia a cui tornare continuamente e con ossessione.

Ma gli si può veramente credere? In che modo si può rapportare la trasfigurazione totale che subiscono le vicende del romanzo, ambientate in una cornice fantastica e arcana che viene peraltro raccontata attraverso un artefatto linguaggio da “trattatistica secentesca”, a un elemento personale, a un principio d’ispirazione di natura biografica?

È lo stesso per tanti altri episodi della carriera dello scrittore milanese: il resoconto cronachistico del proprio servizio militare ne La filologia dell’anfibio, reso in una prosa filosofeggiante e al limite della rifinitura parossistica dei dettagli, il sentimento d’affetto materno da cui prende le mosse il più recente Leggenda privata, sublimato in contorsioni sintattiche e lessicali dal sapore barocco… La realtà è che, nel policromatico e bulimico microcosmo di Mari, non c’è soluzione di continuità alcuna fra esperienza e resoconto, fra trauma esistenziale e presa di parola. Tutto è vissuto per essere raccontato, o meglio è come se i racconti – nelle loro innumerevoli e contorte diramazioni – precedessero inevitabilmente gli eventi (sebbene anche solo in via potenziale). È l’aspetto, se vogliamo, maggiormente fatalista e pessimista della sua scrittura: non è vero, “a rigor di logica”, che ogni avvenimento può essere immaginato ancora prima che accada? O in maniera più cogente: questa continua e onnicomprensiva previsione di eventi possibili non rappresenta allo stesso tempo anche il loro inesorabile de-potenziamento e disinnesco?

C’è, insomma, un elemento oscuro e conflittuale nello stile di Michele Mari, che ha a che fare con lo statuto che egli assegna allo “strumento” dell’immaginazione e della fantasia: non già mezzi con cui espandere la propria visione, quintessenza dell’inventiva poetica e letteraria, bensì – al contrario e paradossalmente – qualcosa di limitante e opaco, il marchio di una impotenza simbolica esperita ancor prima di essere vissuta. Se, per come ce lo tramanda la tradizione “romantica”, la finzione è lo spazio in cui esercitare una sovranità autoriale, in cui l’ego dell’autore può esprimersi cioè in maniera apparentemente libera e sconfinata, per quanto riguarda lo scrittore milanese tali valori sembrano invece essere ribaltati: il virtuosismo linguistico e dei registri, la capacità di immaginare – date le coordinate di partenza – tutte le situazioni possibili, diventano dunque un terreno asfittico e claustrofobico più che una prova di forza, la risultante di una “sconfitta” più che un continuo sperimentare le proprie capacità e le proprie aspirazioni.

Capiamo bene, allora, come non sia certo stata la delusione per l’amore mancato con Ladyhawke a fare della vita dell’io letterario di Michele Mari cosa aliena e complicata, ma è la concezione della vita come qualcosa di alieno e complicato – già insita nella costituzione stessa di un io letterario secondo Mari – a rendere l’amore per Ladyhawke una delusione.

È in questo, sottile, ribaltamentoche quasi tutta la produzione letteraria dell’autore milanese, e in particolare la produzione poetica, assumono il sapore di un “riflesso” o di un “rimbalzo”, come dicevamo in apertura. Ed è però in questo sottile ribaltamento che, anche, la componente potenzialmente più subdola e ipocrita di raccolte come Cento poesie d’amore a Ladyhawke o il più recente Dalla cripta, vale a dire il loro essere per alcuni versi organiche a una certa concezione “modaiola” dello stile, finisce poi per rivelarsi il loro nocciolo maggiormente significativo e profondo, giacché è solo attraverso una ricercata e calcolata “suasione” che Mari può condurre il suo lettore nell’antro più recondito e oscuro della propria poetica.

Il fatto che il virtuosismo letterario escluda (strutturalmente) il trauma, che si produca un linguaggio che non “scarica a terra” e che non crei dunque frizione alcuna con la realtà, è esso stesso il trauma della scrittura di Cento poesie d’amore a Ladyhawke e Dalla cripta. Più precisamente: è la loro componente, per l’appunto, «nevrotica» e ambigua, in cui la parola – che a tutta prima sembrava essere così trasparente e cristallina – esprime il proprio punto cieco, la propria “infedeltà” al significante. «C’è una curva oltre la quale una parola è la parola data oppure si fa cannibale», recita un bel verso del poeta (ed ex-inviato Rai) Ennio Cavalli nella recente raccolta Qualcuna (La vita felice, 2016): ecco, forse la poetica di Michele Mari consiste proprio nell’attorcigliarsi sui due versanti di questa curva, alla ricerca di un linguaggio che da una parte è sincero e univoco, ma dall’altra prefigura la propria caduta, la propria auto-dissoluzione.

Eppure anche qui, in questo “non darsi” e “non concedersi” mai veramente, nell’evitare di inserire la benché minima parte di sé nello scrivere, si annida forse un’ultima torsione, la più viva e – in un certo senso – politica. Il totale disimpegno di Mari, il continuo risolversi della sua scrittura entro le coordinate del divertissement e del formalismo letterario, sono anche e infine – data la rigorosità con cui vengono portate avanti e condotte al loro limite più estremo – il “calco” di una militanza possibile. Una militanza tutta esistenziale, impolitica per quanto concerne i suoi principi d’ispirazione, ma che, nel suo costante sottrarsi al mondo, testimonia di una scelta radicale e assoluta. La scrittura come destino, il pensiero come unico luogo in cui è lecito l’accadere di una biografia, il linguaggio in quanto orizzonte che comprende ogni significativa espressione di emozione, e di realtà: essere stato, aver parlato.

In copertina, particolare da The Room In Which Shakespeare Was Born (H. Wallis, 1853)