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Houellebecq contro Houellebecq. Su Annientare

Come è stato detto da più parti, l’ultimo romanzo dello scrittore francese è un romanzo pacificato, in qualche modo sentimentale e “buonista”. Ma, forse, questo accade perché perché la nostra modernità sta in fondo diventando più nichilista e reazionaria dello stesso Houellebecq

Non tutti i paradossi hanno il clamore dell’iperbole. Ci sono contraddizioni che si innervano in maniera sottile dentro un testo, seguendone le involontarie diramazioni di senso, oppure – in modo ancor più silenzioso e inerte – lungo il corso di un’intera carriera letteraria, e assumono l’aspetto di mine inesplose. Sono delle mere ipotesi di scoppio, dei “buchi neri” dell’ermeneutica ma solo in stato potenziale. Verrebbe da partire da questa suggestione nel leggere Annientare (La nave di Teseo, 2022), ultimo romanzo di Michel Houellebecq. Un romanzo, per certi versi (e come hanno detto in tanti) deludente: chi vi andava cercando i tratti tipici e il “gusto del nichilismo estremo” che caratterizzavano le precedenti opere dell’autore francese si è ritrovato di fronte a una narrazione indebolita, soffusa, puramente “piana” e osservazionale. Il cinismo dello sguardo, che dava spesso adito a commenti sprezzanti e talvolta irriverenti sui costumi e sui fenomeni sociali (nonché sulla psicologia di certi personaggi), lascia ora spazio a un’adesione di fondo, certo non accorata ma implicitamente partecipe.

L’arditezza di alcune analisi politiche (che andavano a colpire “obiettivi eccellenti”, dalla liberazione sessuale del ‘68 ne Le particelle elementari alla religione islamica in Sottomissione) si stempera in un tratteggio del contesto del tutto funzionale alla trama e per nulla incisivo dal punto di vista valoriale. Il sesso, che fino a questo momento aveva avuto cittadinanza nella prosa di Houellebecq soprattutto in quanto ingombrante e ossessivo anelito, come nevrosi il più delle volte descritta con filtro pornografico, si mescola finalmente al sentimento e, anzi, sembra quasi procedere da quest’ultimo più che vivere della sua forza propria e distruttiva com’era stato da altre parti.

Eppure, va subito fatta una precisazione e sgombrato il campo da un equivoco. Houellebecq non è forse mai stato un autore “estremo”, o quantomeno eccessivo, nel senso di un autore dalle tinte programmaticamente forti, esagerato nella vividezza delle immagini o nelle depravazioni che di volta in volta ha messo in prosa.

A questa fama contribuiscono probabilmente la sua statura pubblica (e la coincidenza dell’uscita nelle librerie di Sottomissione con il giorno della strage di Charlie Hebdo con la conseguente “scena” dello scrittore scortato dalla polizia fuori da Parigi per timore di ritorsioni contro la sua persona da parte dei fondamentalisti), più che lo stile dei suoi romanzi. Certamente si tratta di una figura che potremmo definire “controversa”, per via del portato “reazionario” che potrebbero avere i suoi libri a una lettura di superficie, per delle prese di posizioni su temi “delicati” della contemporaneità piuttosto nette e talvolta spiazzanti, per un atteggiamento che – semplificando a un grado che non fa onore a un’interpretazione attenta delle opere – è quello sostanzialmente di un “antimoderno”, di un intellettuale che rifiuta (per qualche velleità di superomismo o nostalgia del passato) le “virtù del progresso”.

Eppure, se c’è qualcosa che sembra non interessare l’Houellebecq scrittore sono proprio le sensazioni estreme, assolute e laceranti. Al contrario, la sua lente di ingrandimento si è quasi sempre posta su una mediocrità variegatamente intesa, su delle passioni (tristi finché si vuole, ma perlopiù non tragiche) che occupano delle zone medie in un ideale quadrante psicologico. Non ci sono eroi nei suoi romanzi. Non ci sono, in fondo, neanche reietti, paria, ma individui (smaccatamente “occidentali”, per certi versi visceralmente “alto-borghesi”) il cui meccanismo vitale si è inceppato di una maniera irreparabile, ma in sostanza non atroce. In questo senso, Annientare non si discosta di molto dalle opere precedenti dello scrittore francese: vi si narra la parabola esistenziale di Paul Raison, consigliere del ministro dell’economia Bruno Juge (in odor di presidenza, siamo nel futuro parecchio prossimo del 2027), nel suo complicato rapporto con la moglie Prudence (da cui è separato di fatto da diversi anni ma con la quale si concretizzerà un profondo riavvicinamento) e negli altrettanto complicati intrecci di vicende familiari (l’infarto e il successivo stato vegetativo del padre, ex-membro dei servizi segreti, un fratello che sceglierà la via del suicidio, una sorella convintamente cattolica e, in superficie per questo motivo, abbastanza distante da lui) sullo sfondo di un contesto politico caratterizzato da una campagna elettorale sfinente e altamente spettacolare nonché di un misterioso susseguirsi di attentati informatici a livello globale.

Il respiro, come è stato giustamente notato, è quello dell’affresco sociale ottocentesco di ascendenza balzachiana. Lo stile è scarno, oltremodo rifinito nella sua semplicità, ma comunque tutto teso ad assecondare lo sviluppo della trama piuttosto che scavi o inabissamenti nell’inconscio.

Lo stesso giudizio dell’autore sulle vicende narrate, sebbene non esplicitato, è di fatto accomodante e – anche nell’evocazione di elementi dell’attualità politica che potrebbero creare una qualche frizione polemica (identitarismo religioso, il “solito” Islam, l’eutanasia, ecc.) – non spinge quasi mai sull’acceleratore.

Lo “scarto” rispetto alle opere precedenti sta innanzitutto nel tono di fondo, che è (per la prima volta nella carriera di Houellebecq?) di segno positivo. Houellebecq cioè – per usare un gioco di parole sfruttato da più parti – “annienta se stesso” e scrive sostanzialmente un romanzo “buonista”, in cui si mette in scena un realtà individuale e di coppia finalmente pacificata, in cui anche una forma di felicità definitiva e appianante pare trovar spazio nelle pieghe della psicologia dei personaggi e nel loro vissuto. Il perturbante, che altrove assumeva di volta in volta le fattezze del desiderio sessuale, della depressione, del settarismo mistico-politico, del terrorismo, dell’estinzione della razza umana e che finiva quasi sempre per “averla vinta” e occupare tutto l’orizzonte di senso del romanzo, sembra essere in Annientare meno forte della volontà dei protagonisti, della loro tensione a risolversi come persone o comunità. Un messaggio di speranza? Non proprio, o forse addirittura l’esatto opposto.

Perché, va rilevato, Paul ha in comune con l’umanità che affolla l’universo di Houellebecq molto più di quanto potrebbe apparire a prima vista. Proprio come la voce narrante di Estensione del dominio della lotta, i due fratellastri Bruno e Michel de Le particelle elementari, il professore di letteratura di Sottomissione o il comico-superstar Daniel e i suoi replicanti in La possibilità di un’isola (tutte maschere tra l’altro specificamente maschili, dacché a interessare lo scrittore francese è la percezione di impotenza individuale che pare accompagnarsi all’esaurimento di autorità di ordini socio-simbolici di stampo patriarcale), anche il protagonista di Annientare è un “uomo senza qualità”, o meglio una persona il cui istinto vitale è menomato e indebolito, disinnescato da una sostanziale sfiducia in ogni possibilità di miglioramento o piacere condivisi.

Non si tratta di angoscia o prostrazione, ma di un più tenue disinteresse verso il proprio destino che permea però ogni angolo dell’esistenza.

È lo stesso Houellebecq a mostrarlo, nelle pagine finali del romanzo che sono quelle più luminose e positive in cui il protagonista, vivendo la fase terminale di un cancro alla mascella, riscopre anche la felicità del suo rapporto coniugale e un inaspettato appagamento dei sensi: costretto dalla malattia a fare l’amore solo appoggiato di lato, capisce che è tale posizione ad averlo sempre soddisfatto al massimo grado e che, in fondo, la sua intera biografia è stato similmente un vivere “appoggiato di lato”, in condizione semi-passiva e proprio per questo oltremodo rassicurante. Così, in una condizione psico-esistenziale di semi-passività Paul e Prudence vanno incontro alla morte, accettando il loro destino con una sconfinata serenità che è, però, al contempo un pungolo di inquietudine per chi legge («Non eravamo fatti troppo per la vita», si dicono i due).

Perché, date le dovute differenze, questa è in fondo la condizione che accomuna praticamente tutti i personaggi dei romanzi di Houellebecq: il desiderio di stare e permanere in “mezzo al guado”, una schopenuariana nolontà, il fatto che la propria morte – per loro – non rappresenta più uno scandalo ma un fenomeno con cui intrattenere un rapporto in tutto e per tutto razionale e calcolante (da cui la fama dello scrittore francese come di un autore che indaghi, fra le altre cose, la “perdita del senso del sacro” nelle nostre società). Non c’è, appunto, alcuna pulsione suicida o bisogno di annientamento.

C’è, in maniera tutto sommato forse più realistica se pensiamo ai tempi attuali, l’idea che si possa intrattenere con “la fine di tutto” (col supremo scolorar del sembiante) un rapporto non conflittuale, accomodante (che, talvolta, assume i tratti fantascientifici della clonazione e di una replicazione perfettibile della razza umana). Questa è – senza bisogno di scomodare come lo stesso Houellebecq fa, ma sostanzialmente in senso metaforico, l’Islam – la vera sottomissione, l’idea cioè che la direzione e la compiutezza di una vita (e, traslando, di un’intera comunità) possano essere misurabili in termini puramente utilitaristici, in quantità di serotonina sufficiente per il maggior numero e per la maggior quantità di tempo. E che – stavolta senza bisogno di scomodare le pratiche Bdsm e dintorni – a un tale sottomettersi si accompagni anche un considerevole grado di piacere.

In un certo senso – e lo si dice nella consapevolezza di utilizzare una formula oltremodo abusata, anzi la si vuole utilizzare proprio per questo motivo – Houellebecq, nella quasi totalità dei suoi romanzi così come in Annientare, prova a descrivere un mondo in cui non solo è più facile (e più piacevole) immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo (leggi: la fine dei rapporti di dominio materiale e simbolico che il capitalismo crea), ma in cui soprattutto immaginare la fine del capitalismo, o dei “normali” rapporti di produzione, non è più neanche lontanamente desiderabile.

Il suo cinismo, il suo presunto nichilismo – se letti dentro una chiave, certo un po’ forzatamente, politica – sono in realtà un monito, per nulla anti-moderno o “anti-progressista”: provano a esplorare, visceralmente, cosa significa perdere ogni spinta verso la rivolta e il cambiamento. Tra l’altro, un elemento della sua scrittura che è stato poco considerato, e che rimane sempre a un alto livello di ambiguità ma cionondimeno sempre presente tanto da poterlo forse trattare come un sintomo, è proprio quello delle mobilitazioni “di piazza”: dal ‘68 evocato in Le particelle elementari alle proteste degli allevatori francesi di Serotonina, dalle manifestazioni violente di Sottomissione ai riferimenti sfuggevoli agli Indignados spagnoli di Piattaforma, fino agli aleatori attacchi terroristici di Annientare, l’“impegno movimentista”, per quanto appunto di diversi segni e tipologie, è qualcosa che non sembra in alcun modo inficiare le vicende né attrarre i protagonisti eppure appare costantemente sullo sfondo, come fosse un “disturbo di segnale” (fatto salvo, forse, per i cosiddetti “gruppi identitari” che rappresentano una sorta di ossessione nella poetica dello scrittore francese e che assumono spesso un ruolo significativo).

Il problema – dal punto di vista della qualità letteraria – è quanto tutti questi punti eterogenei riescono o meno a comunicare e risonare fra loro. E, da questa prospettiva, va notato che Annientare rappresenta una sorta di passo indietro rispetto alla prosa di Houellebecq: pare non esserci più quella peculiare “capacità agglutinante” della sua scrittura, invero molto significativa negli episodi più riusciti come Le particelle elementari, per cui le più disparate allusioni di senso (dalla politica al sesso, dallo sfruttamento alla religione, dalla storia alla società) riuscivano infine a precipitare dentro un’unica cornice interpretativa, senza che questo venisse prodotto da un particolare sforzo esterno (vuoi la voce di un narratore onnisciente oppure snodi eccessivamente artefatti della trama, come comunque accade per esempio in La possibilità di un’isola o Piattaforma). In Annientare, invece, le ripetute evocazioni non riescono a provocare fantasmi. Ogni elemento, cioè, rimane come chiuso nel proprio ambito di appartenenza, e perciò relegato a ornamento di contesto, senza concorrere di fatto alla costruzione del destino dei protagonisti. Eppure, non è proprio questa una naturale conseguenza del fatto che la coscienza dei personaggi acquisisce un maggior peso e una maggiore autodeterminazione? Se il soggetto, pur nella sua indolenza di fondo, diventa autonomo rispetto alla società e agli eventi – come sembra accadere a Paul e Prudence – ecco che le dinamiche più “esogene” e collettive perdono pregnanza, e si riduce lo spazio per una critica massimalista e corrosiva al mondo (quale era quella a cui ci aveva abituato Houellebecq fin qui, col suo peculiare stile di narrativa “a tesi”).

Ma qui sta, infine, il potenziale paradosso: se uno degli scrittori più provocatori dei nostri tempi, se il “lercio misantropo” che si è guadagnato fama di “reazionario” e “antimoderno” decide di scrivere un romanzo buonista, è forse perché la nostra modernità sta in fondo diventando più nichilista e reazionaria di lui. O almeno che lui la sente tale, e ci tiene a comunicarcelo.

Perché il punto è che i protagonisti di Annientare, lungo lo scorrere del libro, non raggiungono una loro serenità e compiutezza (e finanche un certo grado di “estasi”) né ribellandosi né “sottomettendosi” (atto che, indirettamente, costituisce comunque una forma di protesta nei confronti di un ordine politico-simbolico-sociale che si percepisce come “ingiusto” o contrario ai propri principi), bensì integrandosi dentro le coordinate di gestione dell’esistenza di un mondo che rimane a ogni modo cinico e “soffusamente distopico” come quelli descritti da altre parti da Houellebecq. La loro felicità insomma, per quanto sincera e intensa come ci viene presentata, è il segno di una resa disarmante al presente. Tutto il contrario dei personaggi dei precedenti romanzi che, pur nella loro abiezione, testimoniavano di una nitida inadeguatezza rispetto allo stato di cose (benché eticamente ambigua).

Il supposto carattere positivo di Annientare, la luce che rischiara vibrante le ultime pagine e retrospettivamente la vicenda tutta, rivela allora il suo lato oscuro e negativo: è la luce, sinistra, che deriva dalla “soddisfazione di ritorno” di chi ha scelto di accettare la realtà così come è, di chi ha fatto – in buona sostanza – della condiscendenza con ciò che lo circonda un principio di (non-)vita. Un’ultima illusione di tenerezza, prima di essere inghiottito nel nulla.

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