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CULT

Florian Schneider, the Man Machine

All’età di 73 anni, è scomparso Florian Schneider, cofondatore dei Kraftwerk. La sua parabola artistica ha lasciato un segno indelebile nel gruppo di musica elettronica tedesco che ha influenzato come nessun altro la storia della musica pop

In ogni band c’è un leader, quello più carismatico, magari anche dispotico o semplicemente più estroverso rispetto ad altri. I Kraftwerk nascono come duo, Ralph Hutter e Florian Schneider, a cui si aggiunsero in seguito Karl Bartos e Wolfgang Flur, ed è indubbio che il leader fosse Ralph Hutter, il visionario e decisionista, creatore di melodie immortali. Poi c’era il suo perfetto contraltare, il taciturno Florian Schneider, un enigma umano in bilico fra follia creativa e asocialità. Entrambi figli di famiglie molto agiate, i due hanno il privilegio di muoversi liberi in un mondo cristallizzato dal tempo come la Düsseldorf del dopo guerra, lontana dal centro dell’interesse mondiale, ma anche ferita a morte dalla follia nazista. Florian, figlio di un architetto, fugge da un agevole futuro pieno di progetti abitudinari, per dedicarsi all’arte, cercando di trovare proprio in quella depressione post-bellica, il guizzo liberatorio per la sua indole creativa. Si innamora del Dadaismo e del Futurismo e di artisti come Lang, Eisenstein, Ozu, Beuys, ma anche dei Beach Boys e di James Brown e cerca di mettere tutto assieme con l’aiuto di Ralf che è, di fatto, l’altro lato della stessa medaglia borghese, ma fieramente anti-totalitaria e cosmopolita.

Assieme a Ralf forma gli Organisation nel 1968 inserendosi nel circuito intellettuale della città e realizzando un album, Tone float, in cui i due piegano i loro studi musicali accademici al fascino del feedback e del rumore. La svolta avviene nel 1970 con l’incontro dei due con Conny Plank e relativo cambio di nome in Kraftwerk. Plank, da abile e visionario produttore, li indirizza verso l’utilizzo sempre maggiore di strumentazione elettronica per la quale si rende necessario, dal 1974 e dopo tre album con la Philips Kraftwerk 1, Kraftwerk 2 e Ralf & Florian, l’inserimento nel gruppo di due musicisti nuovi, i già citati Karl Bartos e Wolfgang Flur, presi per gestire la parte ritmica che, nonostante sia generata elettronicamente, per il gruppo, deve restare suonata e riproducibile live.

 

La svolta della loro carriera, e la nascita del suono Kraftwerk che ha cambiato intere generazioni, avviene con Autobahn del 1974 la cui title track, con la sua visione futurista rassicurante, entra inaspettatamente in classifica, cullando le masse con il suo flanger avvolgente e il flauto traverso filtrato di Florian.

 

 

Il resto del disco non è così rassicurante. Incerto fra lirismo quasi folk e dissonanze noise, ci ricorda che in fondo quel fragore di società che si formano con fatica dopo l’apocalisse, non è così lineare come l’autostrada della copertina dell’album. In realtà il clash fra capitalismo e ruralità è strano, magari forzato. Un processo complesso, imperfetto, sempre in bilico fra prevaricazione e progresso in cui la componente umana spesso diventa mero strumento di sfruttamento o, altresì, di lotta. Forse non siamo pronti per questo processo. Forse non lo saremo mai. O forse lo saremo solo se sapremo usare il progresso come chiave di volta del cambiamento.

E questa è la successiva svolta del gruppo che nel 1975, ma stavolta con la Emi, affronta senza paura la grandezza del progresso e le sue possibili implicazioni anti-umane.

 

Radio-Activity è il primo vero concept album dei Kraftwerk, elemento che diventerà poi centrale in tutte le uscite successive.

 

E, per me, anche il primo vero album politico del gruppo con messaggi chiari come la fascinazione per le onde radio, per l’informazione come flusso e la ferma condanna dello sfruttamento della tecnologia. Paura del futuro e slancio verso il futuro allo stesso tempo; coscienti che la tecnologia è lo specchio del nostro lato non umano di cui abbiamo bisogno per affermare con forza la nostra umanità. L’album è una sorta di disvelamento delle bugie dell’anti-scienza: non esiste scienza buona e scienza cattiva, esiste solo l’essere umano e il suo libero arbitrio nell’usarla.

 

 

Per molti un album di passaggio, in realtà Radio-Activity, la cui title track diventerà negli anni un inno contro il nucleare, è il primo che inizia a ragionare seriamente sul rapporto fra tecnologia, umanità e ambiente in una ricerca incessante e progressiva di perfezione pop (su tutte Airwaves e Antenna). È inoltre il primo album in cui Florian abbandona tutto il suo armamentario acustico per abbracciare in maniera completa l’elettronica e in cui può dare libero sfogo alle sue sperimentazioni sonore componendo praticamente l’album con Hutter ed il fido Emil Schult, poeta e musicista, per anni il quinto Kraftwerk e con l’apporto degli ormai rodati Bartos e Flur. È sicuramente l’album di massima espressione compositiva per Florian.

Dopo due anni, nel 1977, in piena era punk, i Kraftwerk tirano fuori il loro terzo album nella nuova formazione.  Si chiama Trans Europa Express e stavolta il tema è l’Europa, la velocità degli spostamenti, ma anche lo spaesamento temporale. Un certo nostalgismo diffuso genera canzoni pop spettrali proto-new wave scritte tutte da Hutter con Schneider ai testi solo sulla decadente The hall of mirrors e l’inno positivista Europe Endless.

 

Dice Florian in merito «Essendo la prima generazione del dopoguerra, siamo cresciuti in un mondo cosmopolita. Viviamo vicino ai confini con Belgio, Francia, Olanda e Svizzera. Abbiamo imparato diverse lingue europee, quindi ci sentiamo abbastanza familiari in questi paesi. La Germania è circondata da così tanti paesi diversi che hanno influenzato il paese. Quindi, è naturale sentirsi paneuropeo. Pensiamo che i confini dell’Europa debbano essere aboliti ora e pensiamo che il sentimento cosmopolita sia più importante della Pan-Europa».

 

 

Il gruppo è ormai un cult assoluto e artisti come David Bowie e Iggy Pop li adorano, ma la vera svolta pop avviene nel 1978 con The Man Machine che sfonda in tutte le classifiche grazie al singolo The Robots e all’immaginario appunto robotico dei vari componenti che ormai sono delle raffigurazioni pop disturbanti, come quei giocattoli che ti mettono un po’ paura, ma ti attraggono. Florian torna alla scrittura dopo la parentesi hutteriana di Trans Europa Express e compone con Hutter e Bartos la title track, Metropolis e Neonlight, confermando il suo carattere nostalgico e introverso. “The Man Machine” con i suoi Kraftwerk doppiati da robot in scena fu la prima vera invasione futurista nella musica popolare. Capaci di suonare nei teatri quanto a Domenica In, il gruppo di Dússeldorf divenne una specie di glitch in quel momento storico così complicato e confuso come la fine degli anni settanta, con Florian che spiccava sul palco col suo sguardo lunare da Pierrot androide.

Per avere un nuovo album, Computerworld, ci vollero tre anni, pieni di serate in giro per il mondo con un Florian sempre più spaesato, saturo forse di una socialità che non sapeva gestire e, molto più probabilmente, della tipica mancanza di regole dei tour. L’album però è un capolavoro di pop elettronico in cui i quattro, ormai padroni di beat e melodie, creano tutti pezzi iconici. Karl Bartos è ormai parte della composizione assieme al capo Hutter e a Florian, che dà il suo fondamentale contributo in quasi tutto l’album. Il tema stavolta è quello dei computer e viene tramutato in musica con un funk binario che ha influenzato praticamente tutti i generi musicali venuti dopo: electro, house e techno. Come mi disse Karl Bartos in un’intervista per “Superfly” «Il mio background è nella musica pop, ma anche la musica afro-americana. Adoro Chuck Berry, la Motown, James Brown. Con i Kraftwerk abbiamo mescolato tutte queste influenze con suoni sintetici e un approccio armonico europeo. Per cui abbiamo unito il concetto classico di armonia con un ritmo e un beat tipicamente nero con in più un tocco pop che richiama Andy Warhol ed i Beatles. La techno ha spesso preso dal nostro esempio solo quegli elementi che noi chiamavamo electro-cocktails. La nostra idea era di suonare canzoni pop con un DNA elettronico per cui la struttura di una tipica song pop più degli elementi elettronici, appunto electro-cocktails».

Il successo è enorme e i Kraftwerk girano il mondo diventando alfieri di un futuro che sembra finalmente presente. Un momento di sana positività futurista che fotografa un momento storico in cui veramente sembrava che la tecnologia fosse lo stargate per un domani migliore. Florian però si stanca presto di questi ritmi senza fine, arrivando addirittura a estraniarsi dal gruppo. Mangia separatamente e una volta addirittura non si presenta sul palco prima di un concerto mettendo in crisi tutti. Lo trovano fra la gente nelle ultime file perché aveva deciso di vedere lo show per una volta da semplice spettatore. Alla fine lo convincono ad andare sul palco, ma lo strappo è ormai acclarato. Inizia un periodo di disintossicazione dai ritmi da rockstar e sia lui che Ralf entrano nel loop sportivo del ciclismo, perfetto mix di salutismo e metodo per i due geni razionali di Düsseldorf che sfocerà nel singolo omaggio Tour de France, sempre a firma Hutter (testi), Schneider e Bartos (musica). Ma è anche il periodo in cui il gruppo si sfalda lentamente. Flur e Bartos dopo aver goduto della giusta pausa post tour, si stancano delle lunghe attese del duo originario che sembra aver perso quella curiosità degli anni precedenti.

 

 

La completa riorganizzazione del mitico Klang Klang Studio, segretissimo quartier generale creativo del gruppo, è solo il pretesto per allungare i tempi e assecondare le manie di controllo di Hutter. Nonostante tutto, dopo cinque anni da Computerworld, esce, nel 1986, Electric Café che mette tutti d’accordo e setta nuovi standard nel mondo della musica popolare.

 

In piena era sampling con l’hip hop ormai assurto a genere popolare, i Kraftwerk rimettono al centro il suono elettronico delle macchine, mescolando analogico, digitale e sampling in un unicum senza tempo.

 

Il tema stavolta è il suono stesso, quel Techno Pop che loro hanno disegnato in una decade intensissima e determinante per la musica moderna. La firma dei pezzi è sempre del trio Hutter, Schneider e Bartos. Tutto il mondo è ormai elettronico: la comunicazione (tema poi ripreso mirabilmente da Bartos nei suoi lavori da solista), le relazioni (cos’è Sex object se non una preveggenza di Tinder? E cos’è Electric Café se non il futuro dei social?) e appunto, il suono. Non c’era mai stato un singolo suonato in radio come “Boing Boom Tschak” e forse non ci sarà mai più perché non ci saranno più un gruppo come i Kraftwerk.

Nonostante il grande successo dell’album, infatti Bartos e Flur lasciano il gruppo. Hutter prende in mano il progetto e si dedica a delle rivisitazioni dei pezzi sul successivo The mix uscito nel 1991 dopo altri cinque anni di silenzio. L’album doppio, pur spaccando i fan, diventerà il punto di partenza per il ritorno del gruppo dal vivo con il nostro Florian sempre più enigmatico e altri due nuovi membri a sostituire i mitici Karl e Wolfgang. Ogni data è iconica e lo show funziona alla grande, grazie anche a delle proiezioni di altissimo livello e a una rivisitazione dei pezzi storici che prende il meglio da passato e presente (sulle tutine, magari sorvoliamo…).

Nonostante il suo sembrare defilato, Florian Schneider è molto attivo e scrive con Ralf Hutter ed il nuovo entrato Fritz Hilpert la musica per l’Expo del 2000 in Germania (sul singolo c’è anche una gloriosa e significativa collaborazione con il collettivo techno di Detroit, Underground Resistance, e dal vivo il pezzo verrà modificato in Planet Vision). Inoltre realizza gran parte dei pezzi dell’ultimo album finora realizzato del gruppo ovvero Tour de France Soundtracks del 2003 che, apparentemente porta finalmente a conclusione l’album mai finito nel 1983, ma che in realtà è più un lavoro su commissione legato alla collaborazione del gruppo con il Tour de France e la televisione francese che lo manda in onda. Sono entrambi lavori di livello medio che non aggiungono molto alla loro storia e soprattutto non incidono più sul reale. Non c’è anticipazione di ciò che avverrà come in passato. La visione se n’è parzialmente andata ed è anche normale. Tutto passa. Resta la voglia di fare live e rappresentare in giro per il mondo una sorta di simulacro di futuro che pare non arrivare mai. Un bellissimo spettacolo/rito della nostalgia dei tempi che non furono che abbaglia, intristisce e rincuora.

Alla fine anche Florian si stanca di girare e nel 2008 lascia il gruppo in via definitiva. Eccetto un curioso singolo per sostenere la lotta contro la plastica nel mare, uscito nel 2015, di lui non si sa più nulla eccetto qualche intervista sporadica e stralunata. Come un Forrest Gump borghese e naïf, si ritira nel suo mondo per uscirne in punti di piedi ieri, probabilmente con l’animo sereno di chi sa di aver fatto molto di più per il pianeta che qualche progetto nello studio di architetto del padre. Ciao Florian e grazie per tutto e nonostante tutto.