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«Estendere i margini del percepito», la musica a Short Theatre

La sedicesima edizione del festival capitolino ha animato vari spazi della città per ben dieci giorni con le sue proposte di danza, letteratura, teatro e musica. Proprio quest’ultima è apparsa quanto mai centrale nel programma, fungendo anche da collegamento con il territorio, ma non solo

L’estasi centrifuga di campionamenti e ritmi dell’olandese DJ Marcelle, la trap lasciva della francese Lala &ce e il pop mitteleuropeo ed elettronico del tedesco Felix Kubin erano stati gli highlights dell’offerta musicale della scorsa edizione di Short Theatre, dedicata ai concetti di decolonizzazione (dello sguardo e di noi stessi) e di eccentricità (di non avere, cioè, «l’esigenza di governare dal centro», come ci aveva detto l’allora direttrice artistica Francesca Corona).

Quest’anno, invece, la rassegna multimediale romana ha spostato l’obiettivo della propria indagine sull’ascolto, inteso come «spaziatura che consiste nel rinvio tra corpi umani e non umani».

Dato il tema, la musica assume inevitabilmente un’importanza anche maggiore rispetto agli anni passati. Ulteriore conferma arriva dalla storica collaborazione con il Fanfulla: l’enclave dei suoni più alternativi e autarchici situata a Pigneto è stata protagonista, infatti, di un’intera serata (quella del 9 settembre) a La Pelanda. Dalle nove di sera si sono alternati sul palco alcuni tra i progetti più stravaganti scoperti dal circolo Arci. Ma non solo: resident-dj del Fanfulla hanno accompagnato con le loro selezioni anche altri appuntamenti serali del festival.

Il progetto Playgirls from Caracas, nato a Lecce nel 2007, ha portato la propria «archeologia queer» di «brani prevalentemente al femminile» a supporto dell’esuberante performer Ivo Dimchev, mentre Lady Maru, con il suo viaggio tra gelida e spigolosa new-wave, funk proveniente da quasi tutte le latitudini e jazz elettrico (da Miles Davis fino ai contemporanei Badbadnotgood), ha chiuso il programma di venerdì 3 settembre.

Lafawndah (foto di Claudia Pajewski)

Nella stessa serata abbiamo assistito anche a uno dei concerti più intensi ed evocativi dell’edizione appena conclusa, la prima curata da Piersandra Di Matteo. Si tratta dell’esibizione della cantautrice di origine egiziana, iraniana e inglese Lafawndah: affiancata soltanto da un percussionista e con l’aiuto del fidato laptop, l’artista (autrice di due dischi e persino di una suggestiva collaborazione con Midori Takada, nome di culto per gli appassionati dell’ambient giapponese) ha offerto ai presenti un mix di atmosfera elettronica e materialità percussiva, con la sua voce a fare da trat d’union tra le due componenti.

Nell’ora scarsa del suo live-set, Lafawndah ha incrociato il trip-hop più tribale con l’eleganza del folk mediterraneo, ha incrinato la levigatezza di certa world-music con la frenesia tipica delle attuali derive hd e messo così in scena un possibile esito dell’incontro tra umano e tecnologico, dove è però ancora il primo a prevalere (come dimostra la cover solo voce di Teardrop dei Massive Attack).

La completa de-umanizzazione del suono, del suono black per la precisione, è stata invece oggetto della giornata del 7 settembre dedicata, in parte, a Più brillante del sole, il saggio di Kodwo Eshun pubblicato originariamente nel 1998 ed edito ora per la prima volta in Italia, grazie al lavoro dei tipi di Nero Editions. È stata l’occasione, questa, per attraversare letteratura, accademia e musica, esattamente come accade nello scritto dell’autore britannico e come, da sempre, piace a Short Theatre.

Andrea Benedetti in consolle

Nel pomeriggio dunque, Valerio Mattioli, curatore della collana Not della casa editrice romana, ha introdotto il libro, verissimo caposaldo di quel pensiero (ormai sdoganato anche a Hollywood) denominato afrofuturismo: nella sua presentazione, lo scrittore e giornalista ha letto alcuni brani dal testo, per introdurre gli e le astanti alla prosa fantasmagorica di Eshum, accompagnando la lettura con frammenti sonici degli artisti che il saggista racconta, dal Sun Ra alla techno detroitiana.

In seconda serata, invece, è stato il turno dello storico dj e divulgatore capitolino Andrea Benedetti di dare la sua interpretazione della visione di Eshun: il risultato è stato un dj-set entusiasmante e futurista, capace di snodarsi tra classici electro e tentazioni meno ortodosse (compresa qualche gustosa incursione negli eighties nostrani).

Capitolo a parte merita poi il concerto della cantante e chitarrista R.Y.F., presente al festival anche con una partecipazione allo spettacolo teatrale dei Motus Tutto brucia. Nello spazio adiacente all’ex palazzo della gioventù littoria, l’artista veneta ha presentato, per la prima volta, il nuovo album Everything Burns e suonato però anche alcuni brani dal precedente Shameful Tomboy: due lavori molto distanti, nonostante i pochi anni che li separano. Se il primo tingeva di elettronica il torbido folk southern-gothic, nel nuovo, ideato durante il lungo lockdown dello scorso anno, la componente tecnologica e digitale risulta predominante.

R.Y.F. (foto di Claudia Pajewski)

Tra le graffianti torch-songs del passato e le nuove suggestioni industrial (che sembrano attualizzare lo storico retrogusto cyber-punk del genere con le più recenti istanze transfemministe), il live ha rivelato appieno le varie sfaccettature del talento di R.Y.F.: dall’eccezionale espressività vocale alla capacità di esprimere tutto il disagio vissuto, in quanto persona queer, durante l’adolescenza nella bigotta provincia veneta.

Come anticipato nel manifesto della rassegna, anche la musica, come le altre arti presenti a Short Theatre, ha contribuito a definire il festival come quello «spazio dinamico aperto in cui rivendicare il diritto a parlare e a essere ascoltat*».

In copertina, un momento del live di R.Y.F. (foto di Claudia Pajewski).