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Quando Enzo Melandri studiò l’inconscio

È stato recentemente ripubblicato dalla casa editrice Quodlibet “L’inconscio e la dialettica”, saggio del 1983 in cui il filosofo Enzo Melandri, sulla scia dello psicoanalista cileno Matte Blanco, si confrontò con la presunta dimensione auto-contraddittoria dell’inconscio freudiano e con i suoi rapporti con la logica e il pensiero razionale

La casa editrice Quodlibet prosegue nell’importante progetto di riedizione degli scritti di Enzo Melandri. Dopo Alcune note in margine all’Organon aristotelico, uscito l’anno scorso, è ora la volta di L’inconscio e la dialettica, un breve saggio del 1983 che trova nell’opera dello psicanalista Ignacio Matte Blanco lo spunto per riflettere sulla definizione freudiana di “inconscio”, e sulle sfide che tale definizione pone alla logica “classica”. Il volume contiene inoltre, in Appendice, il testo preparatorio di una conferenza tenuta da Melandri a Roma nel gennaio 1982, sempre in occasione della presentazione del volume dello psicanalista cileno L’inconscio come sistemi infiniti. Ma quale è esattamente il legame fra psicanalisi e dialettica?

Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro. L’intenzione di Melandri risulta meglio comprensibile se posta sullo sfondo della discussione che qualche anno prima aveva coinvolto alcuni importanti filosofi italiani, attorno al problema della dialettica hegeliana e marxiana. Fu Lucio Colletti nel 1975 ad aprire un nuovo (e si può dire conclusivo) capitolo di questo dibattito, vivo sin dai primi anni del dopoguerra, pubblicando in appendice alla sua celebre e controversa Intervista politico filosofica un saggio intitolato Marxismo e dialettica, in cui la dialettica di Hegel e Marx veniva duramente criticata. Il nucleo argomentativo dello scritto di Colletti affonda le proprie radici nella critica della dialettica hegeliana di autori come Trendelenburg e Nicolai Hartmann, e riecheggia i dubbi sulla dialettica marxiana del famoso scritto di Karl Popper Che cos’è la dialettica. Per Colletti (la citazione è tratta da un saggio di qualche anno successivo, Contraddizione dialettica e non-contraddizione):

Malgrado il marxismo affermi il contrario, non esistono «contraddizioni reali», fatti contraddittori tra loro, «contraddizioni» oggettive. La contraddizione è solo ed esclusivamente «logica», del pensiero. Parlare di una «realtà autocontraddittoria» è un non senso. E, così, parlare di «contraddizioni» nella società o anche nella natura. Ciò non significa, ovviamente, che nella realtà non si diano opposizioni, conflitti, lotte, scontri. Si danno e come! Ma, in questo caso, si tratta di ciò che Kant ha chiamato «opposizione reale» […] E l’«opposizione reale» non ha nulla che vedere con la «contraddizione».

Molte furono le reazioni alla presa di posizione di Colletti, e non è certo possibile darne conto in poche righe. Solo a titolo esemplificativo, si possono menzionare il lavoro di Enrico Berti La contraddizione in Aristotele, Kant, Hegel e Marx, che rispondeva a Colletti sul piano dell’esegesi storico-critica, propugnando una sostanziale consonanza fra logica aristotelica e dialettica hegeliana. Ludovico Geymonat e alcuni suoi allievi (Giorello, Mondadori) accostavano invece il problema dal punto di vista logico. Diego Marconi, su un fronte simile, raccoglieva una serie di scritti su La formalizzazione della dialettica in un testo pubblicato nel 1979.

Nei primi anni Ottanta il presidente dell’Istituto Gramsci di Ferrara, Giuliano Rubbi decideva perciò di organizzare una serie di conferenze che avevano come filo conduttore proprio il problema della dialettica, nel tentativo di dare ulteriore sviluppo alla discussione che si era scatenata attorno a questa tematica. Il ciclo di conferenze, per essere più precisi, era stato affidato alla direzione di Barnaba Maj, direttore della sezione filosofica dell’Istituto e collaboratore della cattedra di filosofia della Facoltà di Magistero a Bologna, allora presieduta da Enzo Melandri. Le conferenze vennero supportate dall’iniziativa editoriale della casa editrice Cappelli, che volle dedicare alla dialettica una collana, partendo proprio dai convegni ferraresi. Il primo intervento, che diede vita al libro Logica aristotelica e dialettica, fu proprio di Enrico Berti. Su posizioni sotto certi aspetti vicine a quelle di Colletti si collocava invece l’intervento di Melandri, che giungeva a conclusioni analoghe a partire da un percorso che tuttavia si era sviluppato in autonomia.

La dialettica occupava del resto un capitolo, l’ultimo, di La linea e il circolo, l’importante saggio di Melandri del 1968 dedicato al tema dell’analogia; e già allora Melandri la definiva come forma di sapere “negativo” e critico, complementare al sapere “positivo” della scienza. La funzione della dialettica era per Melandri quella di evitare la chiusura dell’“orizzonte teoretico” nella gabbia di false opposizioni. Sarebbe però un errore considerarla come una sorta di “logica della contraddizione” e prenderla in suppositione materiali, investendola di significato ontologico.

In L’inconscio e la dialettica queste considerazioni vengono riprese e sviluppate, nel contesto di una riflessione epistemologica sulla psicoanalisi che si concentra su due nodi problematici. Il primo riguarda l’affermazione freudiana della natura contraddittoria dell’inconscio, affermazione che solleva la conseguente questione dell’esistenza o meno di “oggetti auto-contraddittori”. Successivamente Melandri si interroga sull’applicabilità della matematica all’indagine psicologica (problema che sconfina come vedremo nel senso generale di cosa significhi “applicare” la matematica al reale). Il legame fra i due problemi è offerto dal programma teorico di Matte Blanco, per cui la tesi dell’illogicità dell’inconscio andrebbe supportata ricorrendo alla teoria degli insiemi di Cantor.

La prima questione viene affrontata a partire dalla definizione proposta da Freud nel Compendio del 1938, secondo cui “le regole decisive della logica non hanno alcun valore nell’inconscio, che è il regno della non-logica”. In Freud, prosegue Melandri, l’intrinseca contraddittorietà dell’inconscio appare come “una tesi stabilita una volta per tutte, a prova di qualsiasi reinterpretazione”. Melandri cerca quindi di dimostrare come il concetto di illogicità venga equivocato da Freud, confondendo la mancanza di “logica” con la mancanza di “razionalità. La presunta “illogicità” dell’inconscio deriva in realtà dalla presenza in esso di forze contrastanti, e non di una vera e propria contraddizione:

pare evidente come [Freud] abbia in mente una sorta di parallelogramma delle forze con annesso procedimento di composizione e scomposizione delle forze, anch’esse uniformemente intese come pulsionali, quando egli parla di contrasti e/o di contraddizioni in campo energetico. Ma in tal caso parlare di contraddizione in senso ontologico, da parte di Freud, sarebbe un discorso decisamente esposto al pericolo di equivocazioni e fallacie argomentative di non poco peso. Giacché un antagonismo di forze contrapposte, sia pur forte quanto si vuole, non è di per sé minimamente contraddittorio. D’altra parte, se si assume la contraddizione in senso debole o aggettivale, e la si riduce a una forma estrema di contrasto, dire che l’inconscio è illogico equivale a dire in maniera abbastanza anodina che esso è sede di conflitti intensi.

La vita psichica non si organizza in modo armonico, secondo un principio di coerenza e di razionalità. Ma l’“irrazionalità non è di per sé illogica, nel senso che non include una contraddizione interna”. La demarcazione fra illogicità e irrazionalità porta dunque a riformulare l’affermazione di Freud, risolvendo la “contraddizione” nella “contrarietà” di forze opposte e dissolvendo la concezione dell’inconscio come “oggetto intrinsecamente contraddittorio sul piano ontologico”.

Data questa premessa, difficile salvare il tentativo di Matte Blanco di preservare l’ipotesi freudiana, un tentativo condotto a partire dalla convinzione che

una certa applicazione della matematica moderna, di derivazione cantoriana, possa aggirare le obiezioni troppo conservatrici della logica aristotelica e a condurre una formulazione matematicamente ineccepibile di un sistema inconscio inteso senza equivocazioni come intrinsecamente contraddittorio.

Melandri non si addentra nei dettagli della teorizzazione di Matte Blanco, ma risale per così dire a monte del problema, chiedendosi se, a prescindere dalla complessa elaborazione cantoriana, la matematica possa costituire una sintassi adeguata per la peculiare oggettività di cui si occupa l’indagine psicologica. Melandri distingue a questo proposito due modalità applicative del formalismo matematico alla realtà, ben sintetizzate dal titolo dell’Appendice, di derivazione kantiana: della matematica si dà applicazione determinante o analogico-riflettente. L’uso determinante risulta praticabile quando la matematica, una volta interpretata in un certo campo del reale (la fisica, la chimica, ecc.), mantenga inalterate le proprie capacità di calcolo; l’applicazione riflettente invece quando della matematica si faccia un uso raffigurativo, quando essa cioè “vale solo come algoritmo speculativo che serve ad illustrare un concetto: è il caso del ‘meno per meno fa più’, inteso come sostegno alla dialettica della doppia negazione”. Lo stesso concetto è ribadito attraverso l’analoga distinzione fra formulazione e formalizzazione:

La legge di Boyle-Mariotte stabilisce una correlazione tra la pressione e il volume di un gas a temperatura costante […] Questa è una formalizzazione: perché, dato un qualsiasi valore di una delle due variabili, io sono in grado di calcolare quello corrispondente dell’altra. Ma se io mi limito a voler suggerire l’idea che un gas sia qualcosa di comprimibile ed elastico, e per esprimere questo mi avvalgo di un’analogia di proporzionalità inversa non meglio precisata quantitativamente, quel che dico non è che una formulazione intuitiva ma abbastanza esterna del concetto di stato gassoso.

Melandri, ripercorrendo la storia dei tentativi di matematizzazione della psicologia, mostra come persino i tentativi più rigorosi di applicazione della matematica ad essa non giungano mai ad una reale formalizzazione, ma si limitino ad un uso puramente analogico-riflettente del concetto matematico (uso che, in verità, può avere una non trascurabile funzione euristica – per quanto non in grado di fornire alla psicologia una solida struttura formale).

Da questa constatazione non deve essere tratta però la più facile e conservatrice delle conclusioni: ovvero che solo le discipline matematizzabili abbiano dignità di scienza, e che la psicoanalisi debba ignorare i propri problemi fondazionali, riservandosi il modesto ruolo di prassi terapeutica senza ambizioni teoretiche. E ciò per almeno due ragioni. La prima è che, per quanto l’uso “determinante” della matematica possa produrre un calcolo capace di determinare in modo esatto variabili sconosciute, ciò non implica che, secondo la celebre metafora galileiana, la realtà sia scritta in linguaggio matematico:

la matematica come tale non si applica nemmeno alle scienze esatte se non estrinsecamente […] la matematica non è il linguaggio nemmeno della fisica matematica, a meno di non ricorrere a un’interpretazione da ultimo fondata sull’analogia

Anche le scienze “dure” si fondano, per dirla con il vecchio linguaggio kantiano, su un’operazione di mediazione analogica del dato empirico con le strutture formali dell’intelletto.

La seconda ragione per prendere sul serio i problemi che sorgono in sede metapsicologica, risiede nella specifica tipologia conoscitiva in cui si colloca la psicoanalisi: che non si presenta agli occhi di Melandri come una disciplina di carattere “ermeneutico”, come una “scienza dello spirito”. La psicoanalisi piuttosto rientra nel campo delle scienze “sintomatologiche”. Sotto questo aspetto, sono estremamente interessanti alcuni spunti di riflessione presenti in due paragrafi centrali del saggio, in cui Melandri fa emergere un’antinomia insita nella concezione freudiana del materiale onirico. Quando invita a interpretare il sogno come un sistema di “simboli”, Freud sembra suggerire che il sogno sia un quasi-linguaggio: se non un linguaggio vero e proprio, dunque, almeno una “scrittura”, una modalità di espressione fatta non di parole ma di “immagini”, una ideografia. Ma altrove, confrontandosi con l’asperità dell’interpretazione del modo di significare “arcaico” del sogno, Freud sembra giungere progressivamente alla concezione opposta: che “il sogno non vuol dir nulla a nessuno”, non ha intenzione comunicativa, e pertanto qualsiasi sua riduzione a linguaggio non è altro che la risultanza di una proiezione estrinseca. Attribuire valenza simbolica o quasi-linguistica al sogno finisce per essere un esercizio di ventriloquio. Melandri spiega perciò che in psicoanalisi, se si porta alle sue estreme conseguenze il ragionamento freudiano, “non esiste un ‘linguaggio dei sogni’; ce ne sarà, al massimo, una sintomatologia”. Ne deriva una conseguenza importante: che “il sogno dunque non è linguaggio, se non nel senso tutt’affatto metaforico con cui per es. si dice che attraverso l’analisi spettorscopica della luce proveniente da una lontana stella noi siamo in grado di leggere il messaggio che essa ci invia”. Se questo è vero, ne deriva una conclusione che per certi versi può apparire inquietante, e cioè che il lavoro di interpretazione prodotto della psicanalisi, il suo viaggio nella profondità dell’inconscio, è la scoperta della sua natura di oggetto inerte e non simbolico. L’inconscio è forse una sorta di “corpo nero”, di fronte al quale Melandri solleva un interrogativo, lasciato in sospeso: “Forse […], allora, è la stessa struttura dell’inconscio a produrre, quasi perpetuum mobile, i conflitti che travagliano la vita psichica”.