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Enrico Sibilla, vizi e virtù di una distopica sinestesia

“Aurora Liminalis” è la seconda opera di uno scrittore che, già dal suo esordio del 2016, si è distinto per uno stile ricercato e “obliquo”, molto più vicino alla poesia che alla prosa, capace di illuminare di una luce sinistra la nostra quotidianità

Le frasi si dispongono sulla pagina come fossero fili di un ordito, ogni proposizione “cade a goccia” in maniera perentoria solo per rimanere aperta, sospesa e non conclusa. Scrittura inafferrabile ma con un che di granitico, volutamente indecifrabile e ambigua eppure quasi violenta in alcuni suoi squarci di “durezza”. Enrico Sibilla è un autore che certamente si discosta dalla “media” letteraria italiana: copywriter, paroliere per radio e televisione, ha pubblicato due romanzi per Il Saggiatore (Il libro dei bambini soli, 2016, e Aurora Liminalis, 2021) che sono magari passati un po’ sottotraccia nel dibattito critico ma che cionondimeno rappresentano episodi espressivi interessanti su cui interrogarsi.

Sebbene si rifaccia (almeno per quanto riguarda l’esordio) esplicitamente a Manganelli, il suo modo di “aggredire” la lingua, di creare – con una ricerca ossessiva e minuziosa del dettaglio terminologico-verbale – universi (anti-)narrativi asfittici e claustrofobici tramite l’accumulazione e la ripetizione fraseologica, rimanda forse alla “poetica del carotaggio” del primo Giorgio Vasta, o al ritmo sinuoso e compulsivo della prosa di Davide Orecchio.

Eppure, a differenza di questi ultimi, il senso della sua scrittura ha poco a che fare con il reale e la realtà (e la memoria storica, nel caso di Orecchio ma in qualche modo anche di Vasta) quanto più con una sensorialità astratta e onnicomprensiva, per quanto “sporcata” da venature di osservazione sociale e intarsi cronachistici.

Anzi, l’intento romanzesco di Sibilla sembra ambire a verità filosofiche universali o perlomeno a lambire la portata della loro ricaduta nel presente: sebbene tenuti “sottotraccia” dalla superfetazione sintattica, infatti, i temi di sfondo dei suoi romanzi sono quelli eterni della morte, dell’amore, del tradimento, della solitudine e dell’alienazione esistenziale (in particolar modo infantile). C’è un aggettivo che ricorre davvero spesso, sia in Il libro dei bambini soli che in Aurora Liminalis, quasi a tradire una volontà inconscia, ed è “verticale”: la volontà appunto, lo sforzo letterario, di connettere e riagganciare la trama consunta del quotidiano ai grandi processi non già della Storia ma del Cosmo, dell’avvicendarsi imperscrutabile di valori non solo umani ma anche (se non soprattutto) biologici, minerali, siderali.

Ogni avvenimento raccontato da Sibilla (e si tratta, almeno come punto di partenza, di avvenimenti invero molto prosaici) è pensato come avvenimento che non riguarda una singola persona, o un nucleo di persone e una città o una società, ma un’intera costellazione di relazioni anche inorganiche, che vanno dalla coscienza dei protagonisti agli ambienti urbani che attraversano, alle piante che compongo il paesaggio, al cielo e agli astri che osservano immutabili lo scorrere del tempo.

Ogni scavo interiore (che nella concezione di Sibilla, per nulla ironica e “leggera”, è automaticamente l’apertura di una voragine) corrisponde dunque a uno sbalzo in fuori e verso l’alto, a un’ascesa vertiginosa (e di una “laica spiritualità”) verso il divino.

È così per Il libro dei bambini soli, in cui viene investigata la presa di consapevolezza di cosa siano la solitudine e l’abbandono nell’età infantile in sei diverse “stanze” o ritratti (dai momenti più futili e apparentemente insignificanti, come lo scartamento di un regalo che ci si aspettava diverso, al decesso per asfissia in automobile perché dimenticati dai propri genitori), come per Aurora Liminalis, in cui si narra invece di un’improbabile e al limite del fantascientifico “risurrezione in punto di morte” del protagonista del libro, musicista e padre appena divorziato colpito da un cancro al midollo irreversibile.

Sibilla interroga cioè la sorte che spetta nelle nostre società a quei tanti “destini comuni” sotterrati sotto l’anonimia delle statistiche: il decesso per malattia, la povertà non estrema, il precariato lavorativo, una sorta di autismo latente (ancorché “indotto”) di tante ragazze e tanti ragazzi… E lo fa con due espedienti formali principali: un flusso di coscienza oggettivo e onnisciente, che dunque oscilla in maniera molto libera fra la prima e la terza persona singolari (talvolta anche la seconda persona singolare) e una marcata tensione verso la figura retorica della sinestesia.

Il primo riesce a porre il lettore in una condizione di “distante partecipazione” alle vicende, in cui appunto non si dà alcuna immedesimazione con i personaggi ma neanche “osservazione dall’alto”: piuttosto, una sorta di strana e a tratti faticosa (nel senso quasi morale del termine) compassione senza catarsi alle evoluzioni esistenziali che, se da una parte ci fa sentire di una maniera spropositatamente vivida la vita interiore delle persone descritte nel testo, dall’altra ci spinge a considerare la loro parabola come qualcosa di “altro”, di “non-nostro”; il secondo è un elemento davvero fondante del discorso, una cifra stilistica che l’autore pare disseminare all’interno dei suoi libri come “marchio” del proprio messaggio: più che di sinestesia, infatti, si dovrebbe parlare di “rimozione della visione” o della vista (addirittura dell’immagine) come di una caratteristica connaturata al linguaggio.

Persone, situazioni, ambienti e oggetti sono presentati e raccontati cioè soprattutto attraverso il filtro del tatto, dell’udito o dell’olfatto: ogni cosa viene trasfigurata e disciolta in campi sensoriali che non sono quelli più comuni ma che, anzi, contribuiscono a gettare una pesante ombra di straniamento su quanto è narrato.

Così, per esempio, ne Il libro dei bambini soli una figura di nonna anziana viene abbozzata iperbolicamente quasi solo attraverso i rumori che produce: «Immensa, alta forse un migliaio di metri, la nonna invece fa un solo rumore: di masticazione imprecisa, di caramelle, bonbon, liquirizie. Non parla: risucchia, sgranocchia, trangugia. L’aria che ha intorno vibra e si sposta a correnti, rimbomba coma una valle». E ancora, qualche capitolo più avanti, e ora riferendosi a un poppante, e arzigogolando la descrizione tra un senso e l’altro: «Non c’è un suono più vivo di quel masticare, né un calore più bianco di quello dei sensi che sente premersi al torso. Al bimbo scalpita il cuore eppure il suono si smorza in quel petto che largo l’avvolge».

Similmente, Aurora Liminalis (il cui titolo deriva tra l’altro da un brano del compositore e musicista sperimentale William Basinski) mette al centro della narrazione la dimensione sonora, sia sul piano della forma che del contenuto: il protagonista Principe è un musicista sull’orlo del fallimento il cui destino (si scopre piano piano col procedere delle vicende) è legato alla sua capacità di articolare diplofonie col canto. E, d’altronde, il libro tutto sembra essere costruito come una sorta di diplofonia espansa: ancora prima che un significato narrativo preciso, le frasi intarsiate da Sibilla tendono a esprimere una determinata “qualità musicale” e le proposizioni vengono poi ripetute con minime variazioni, quasi fossero appunto armonici messi spontaneamente in vibrazione dalla matrice sonora originaria e così trasposti in forma verbale. Per fare un esempio:

«Nel verticale della notte Enrico nel mio letto è un figlio, mio figlio, che chiama un adulto, piagnucola disordinando il sonno di entrambi, anche il mio già continuamente spezzato dai turni di guardia.

Enrico invoca una funzione familiare: mamma o papà, madre o padre.

Io sono il padre, il padre sono io, anche nel sacco a pelo per terra, soprattutto nel sacco a pelo per terra.

Per questo gli tocco piano la testa, invisibile al buio della porzione alta di questa orribile stanza».

Si è giustamente parlato di “prosa poetica” in merito all’opera di Sibilla e, in effetti, i suoi libri hanno spesso un andamento che richiama più la scrittura in versi che l’intreccio romanzesco. La questione è quanto un tale procedere – volutamente artefatto e “zoppicante” nel ritmo, impreziosito da una ricchezza terminologica che molto spesso pesca nei linguaggi settoriali (non solo musicali, ma anche medico-scientifici) – “regga il peso” della narrazione. In altre parole, in che direzione lo stile di Sibilla conduce le storie e le trame di Il libro dei bambini soli e Aurora Liminalis, che pure esistono e anzi possiedono un certo grado di drammaticità nella loro autonomia?

La dislocazione sintattico-sensoriale ha il pregio di dare voce e corpo a istanti e condizioni che altrimenti rimarrebbero muti, invisibili: appunto, la solitudine infantile appena percepita, stati di emotività che non arrivano a essere sensazioni o sentimenti più articolati, attimi di dolore e incoscienza talmente confusi da non sfociare in ricordi… (con vette di lirismo quasi ermetico di eco raboniana: «Brucia sul volto l’incomprensibile schiaffo, e cancella tutto il planare fresco leggero sulle correnti gioiose della vacanza, bellissima anche se non era mai stata un premio, l’estate, ma un inconsapevole brevissimo esilio»).

A questo si aggiunge una sorta di dislocazione anche d’ambiente: se l’ordine della prosa e della trama situa le vicende in un luogo e in un contesto storico tutto sommato riconoscibili (nel presente o in un futuro a noi molto prossimo e in Italia, con la storia di Aurora Liminalis che ha il proprio epicentro a Milano), l’atemporalità insista nella tensione poetica sfuma costantemente i contorni spazio-temporali gettandovi una luce sinistra e vagamente distopica… (con fulminei ritratti paesaggistici, al limite della critica sociale: la «Milano perpetuamente orizzontale» dell’infanzia di Principe negli anni ’70 oppure le Marche di passaggio nella fine del libro in cui il protagonista respira «quest’aria che ha il profumo non del mare ma di una roggia che mastica il ferro e l’acciaio degli stabilimenti»).

Eppure, nel momento in cui gli intrecci narrativi reclamano il proprio scioglimento, una tale insistita trasfigurazione sembra entrare in una sorta di vicolo cieco.

Se l’esplosione sensoriale e l’incrinatura poetica della sintassi hanno buon gioco nello stravolgere sentimenti minimi e “stanze di vita quotidiana” – in una parola, certamente problematica ma calzante, di stravolgere quella normalità degli uomini e delle donne comuni che la forma-romanzo non ha mai cessato di indagare – facendoceli intravvedere sotto una nuova e inaudita prospettiva, ecco che di fronte a eventi “alti” e già imponderabili di per sé (il mistero della morte e della violenza, del Male, ecc.) questa “prepotenza linguistica” propria della scrittura di Sibilla non può che “esasperarsi verso l’alto”, e fuggire dunque verso i territori più astratti della fantascienza, del misticismo, di un’allusività lirica che perde il suo contatto con il reale.

Viene dunque da chiedersi a che pro aver evocato, con sprazzi di sorprendente efficacia, un mondo di malata distopia nelle pieghe di ogni evento, di ogni singolare solitudine, quando poi nel momento in cui malattia e distopia entrano veramente in scena questi eventi rimangono finalmente “muti”, e il linguaggio dei sensi – che fino ad allora ci aveva proiettato in un imprevedibile caleidoscopio di altrettante sensazioni – deve cedere il passo all’immaginazione più pura, a visioni che la scrittura non riesce più, se non a tratti, a sostenere…

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