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MONDO

Dobbiamo vivere in modo diverso

Per farla finita con la nostra dipendenza dai combustibili fossili abbiamo bisogno di un cambiamento tecnologico sostanziale. Questo, però, non potrà avvenire senza cambiare anche i nostri sistemi sociali ed economici

Le cattive notizie sul cambiamento climatico continuano ad arrivare: picchi di caldo record in Australia a gennaio e nel Regno Unito a febbraio; aumento incontrollato di incendi; sbalzi incredibili nelle temperature artiche. La notizia peggiore di tutte è che il gap tra quello che la comunità scientifica sostiene andrebbe fatto e quello che emerge dai dibattiti internazionali sul clima si allarga sempre di più.

Ai negoziati di dicembre a Katowice, in Polonia (sponsorizzati paradossalmente, tra gli altri, dal maggior produttore di carbone europeo), il risultato principale è stato un accordo, anche se all’acqua di rose, sulle proposte per il monitoraggio delle azioni dei vari governi. I delegati non hanno discusso, né tantomeno migliorato, gli obiettivi volontari per la riduzione delle emissioni concordati nel 2015 a Parigi, nonostante gli scienziati ritengano che il livello di queste ultime spingerà l’economia mondiale verso un potenziale e disastroso aumento delle temperature di tre gradi superiore ai livelli preindustriali. L’assise, su insistenza di Stati Uniti, Arabia Saudita e altri paesi produttori di petrolio, ha perfino rifiutato di ricevere l’ultima versione stemperata del dossier realizzato dal Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico.

Katowice rappresenta l’ultimo ciclo di quei colloqui cominciati a Rio de Janeiro nel 1992, nei quali si riconosceva come l’uso di combustibili fossili fosse il principale motore del riscaldamento globale e andasse ridotto. Da allora, è aumentato a livello globale di oltre il 60%. I governi con una mano firmavano accordi e con l’altra riversavano decine di miliardi di dollari all’anno di finanziamenti alla produzione e al consumo di combustibili fossili.

Il primo passo da compiere per affrontare il riscaldamento climatico sta nel rifiutare l’illusione che i governi stiano gestendo il problema. C’è bisogno dell’azione della società intera.

Dare vita a questa generalizzazione non è così semplice. Dovremmo protestare? Provare a fare pressioni sui governi affinché investano in progetti di energia rinnovabile? Portare avanti azioni dirette contro le nuove centrali energetiche? Concentrarci su politiche energetiche comunitarie? Fare ognuna di queste cose?

 

Come l’uso dei combustibili fossili ha raggiunto livelli insostenibili

Nel capire cosa fare rispetto al cambiamento climatico, la storia è uno strumento prezioso. La comprensione dei processi che hanno reso i combustibili fossili fondamentali per l’attività economica umana ci aiuterà a compiere la transizione da questi combustibili.

La concentrazione di forza fisica, motrice e calore che possono essere estratti dalla combustione del carbone è stata centrale per la rivoluzione industriale della fine del XVIII° secolo e di conseguenza per il consolidamento del capitalismo nel Nord del mondo. L’estrazione di energia dal carbone e la regolamentazione del lavoro hanno camminato mano nella mano. Le tecnologie impiegate nella cosiddetta seconda rivoluzione industriale della fine del XIX° secolo (turbine a vapore, reti elettriche e il motore a combustione interna) hanno moltiplicato esponenzialmente l’uso del carbone e generato una domanda di prodotti petroliferi.

Ci è voluto però un ulteriore cambiamento sostanziale, verso la metà del XX° secolo, per innalzare il pericolo del riscaldamento globale ai livelli attuali. L’aumento globale nell’uso dei combustibili fossili è aumentato durante il boom postbellico, calato leggermente dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, e da allora è schizzato vertiginosamente verso l’alto. Gli esperti di scienze della Terra che studiano l’impatto dell’attività economica sul mondo naturale (di cui il riscaldamento globale rappresenta un elemento chiave) definiscono il periodo che parte dalla metà del XX° secolo come “la grande accelerazione”.

Esattamente, chi o che cosa ha consumato tutti questi combustibili fossili? Principalmente, i combustibili sono utilizzati da e per i grandi sistemi tecnologici, come i sistema di trasporto su gomma, le reti elettriche, i processi di costruzione urbana e i sistemi industriali, agricoli e militari.

Come ho sostenuto nel mio libro Burning Up: A Global History of Fossil Fuel Consumption [In fiamme: Storia globale del consumo di combustibile fossile” – ndt], l’analisi di questi sistemi tecnologici (e del modo in cui sono integrati nei sistemi sociali ed economici) è la chiave per la comprensione dell’aumento inesorabile dell’uso dei combustibili fossili.

Prendiamo le automobili come esempio. Sicuramente, il cambiamento tecnologico ha contribuito a farle salire alla ribalta: il motore a combustione interna è stata un’innovazione fondamentale. Ma ci sono voluti dei cambiamenti sociali ed economici per trasformarle nel principale mezzo di trasporto urbano.

Negli Stati Uniti degli anni ’20, i produttori automobilistici furono  pionieri nelle linee di assemblaggio automatizzato e hanno trasformato la macchina da bene di lusso a prodotto per il consumo di massa. Si sono inventati l’obsolescenza programmata e altre tecniche di marketing e hanno utilizzato il potere politico per mettere all’angolo (e a volte sabotare) forme di trasporto alternative e concorrenti come i filobus e le ferrovie.

Nel boom del dopoguerra, l’uso della macchina negli Stati Uniti è lievitato fino a un livello che si mantiene alto ancora oggi, grazie a ingenti finanziamenti pubblici nella rete autostradale. I sobborghi nelle periferie aumentavano: i lavoratori si trasferivano in villette unifamiliari in numeri mai visti prima, con l’edilizia abitativa americana in crescita, passando dalle centinaia di migliaia di case l’anno negli anni ’30 a più di un milione durante e dopo la guerra. L’acquisizione della proprietà immobiliare attraverso ipoteche infinite era una parte dell’accordo: giardini sul retro e cortili sul davanti erano l’altra. Altri paesi sviluppati (ma non tutti) hanno seguito questo stesso schema di sviluppo urbano.

Arrivati agli anni ’80, anche alcune città al di fuori dei paesi ricchi cominciarono a essere intasate dalle autovetture. Negli Stati Uniti, l’industria del settore automobilistico ha messo in campo azioni di resistenza efficaci nei confronti degli sporadici tentativi da parte degli stati di regolare l’efficienza dei consumi. Sono arrivati i SUV, assetati di carburante: piuttosto che incoraggiare gli automobilisti a usare modelli più piccoli e leggeri, i produttori di automobili resero popolari dei veicoli familiari classificati come camion e che erano quindi autorizzati a percorrere meno chilometri con un litro. Nel 2000, la loro vendita negli USA ha raggiunto i 17 milioni di unità all’anno.

Quindi, chi lavora per creare città libere dalle emissioni di carbonio si trova a dover fronteggiare non soltanto un ingegnoso ritrovato tecnologico (il motore a combustione interna), ma anche le strutture economiche e sociali che hanno contribuito alla costruzione del sistema di trasporto urbano su gomma. Ovvero: poltrone mobili di metallo ad alto consumo di carburante.

I sistemi di trasporto su gomma sono strumenti altamente inefficienti dal punto di vista energetico per spostare persone da un punto ad un altro. Ad esempio Atlanta, negli Stati Uniti, città dalla grande estensione in cui l’urbanistica delle periferie e il trasporto su gomma la fanno da padroni, ha un quantitativo di emissioni di gas-serra pro capite 11 volte superiore a quello di Barcellona in Spagna, che dispone di un numero di abitanti e di un livello di reddito simili, ma ha un’estensione più ridotta, trasporti pubblici migliori e un centro storico relativamente libero da autovetture.

Allo stesso modo, l’alto consumo di carburante da parte dell’agricoltura industriale è un modo vergognosamente inefficiente dal punto di vista energetico per nutrire gli individui, così come molti degli ambienti artificiali nelle città rappresentano un pessimo modo di ospitare le persone. Altri settori dell’attività economica (come la produzione militare e l’industria pubblicitaria) sono distruttivi sotto vari aspetti, tra cui anche l’inefficienza energetica. Come nel caso del trasporto urbano, questi sistemi sono stati plasmati da rapporti di forza e di ricchezza e ne sono ancora soggetti.

Una splendida  ricerca del Climate Accountability Institute [Istituto per la Responsabilità Climatica – istituto di ricerca sui cambiamenti climatici di origine antropica – ndt] ha dimostrato come quasi i due terzi delle emissioni di anidride carbonica dal 1750 ad oggi possono essere ricondotte all’attività dei 90 principali produttori di combustibile fossile e di cemento, molti dei quali operano ancora a tutt’oggi. L’ultima lista aggiornata dell’Istituto include, nella top ten, Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia), NIOC-National Iraniano Oil Company (Iran), Exxon Mobil (USA), Pemex (Mexico), Shell (Olanda) e CNPC-China National Petroleum Corporation (Cina).

La lista delle società che controllano il consumo di combustibile fossile (produttori di energia elettrica, consorzi metallurgici e ingegneristici, produttori automobilistici, società di costruzione, giganti del settore petrolchimico e agricolo) è molto più lunga e complessa per via del livello di integrazione del consumo di combustibile fossile in tutte le tipologie dell’attività economica. I rapporti di forza, però, rimangono gli stessi.

 

 

 

Non si tratta soltanto del consumo individuale

In virtù del fatto che i combustibili fossili sono consumati da e per questi estesi sistemi tecnologici, sociali ed economici, gli appelli a ridurre il consumo individuale potranno avere soltanto un effetto limitato.

Prendiamo ad esempio gli automobilisti di Atlanta. Vivono in uno dei paesi più ricchi al mondo e guidano alcune tra le macchine più energeticamente inefficienti. Però sono intrappolati in un sistema di trasporto urbano che rende impossibile (soprattutto per chi ha dei figli) lo svolgimento di attività basilari se non si possiede un’auto, come portare i bambini a scuola o fare la spesa. Inoltre, i combustibili non sono consumati soltanto durante i loro spostamenti individuali ma anche nella produzione automobilistica, nella costruzione di strade e posteggi e così via.

Sicuramente, il vergognoso consumo di combustibili fossili e beni di consumo è sintomo di una società malata. Milioni di persone nella parte ricca del mondo lavorano per molte ore al giorno e spendono quanto guadagnano in beni materiali nella speranza che tali beni li possano rendere felici. Ma la profonda alienazione di cui il consumismo fa parte deve essere messa in discussione dalla lotta per il cambiamento sociale. Gli appelli morali non sono sufficienti.

Il destino delle recenti proposte da parte del governo francese di aumentare le tasse sulle emissioni rappresenta una sorta di lezione preventiva. I piani erano stati presentati come una misura di tutela ambientale. Eppure, nonostante gli opinionisti di destra affermassero il contrario, la gente li ha visti per quello che erano in realtà: l’ultima di una serie di misure di lungo corso volte ad imporre politiche di austerity neoliberista. Questo ha scatenato la protesta dei gilet gialli e la proposta è stata ritirata.

Nel Sud del mondo, concentrarci sul consumo individuale ha ancora meno senso. Gran parte del combustibile è utilizzato dall’industria, compresi i processi ad alta intensità energetica (come la produzione di acciaio e cemento) spostatasi qui dal Nord del mondo durante gli anni ’80 e ’90. È stato il boom industriale della Cina, incentrato sulla produzione di merci da esportare nel Nord del mondo, che verso la metà degli anni 2000 ha fatto sì che il paese superasse gli Stati Uniti come principale consumatore dei carburanti in commercio.

Una ricerca in India ha evidenziato il ruolo marginale del consumo individuale delle popolazioni più povere. Di tutto l’aumento delle emissioni di gas serra nei tre decenni tra il 1981 e il 2011, soltanto il 3-4% era dovuto all’elettrificazione del paese che ha portato per la prima volta 650 milioni di persone, in prevalenza nelle campagne, all’interno di una rete di fornitura di energia. Gran parte del resto delle emissioni proveniva dall’industria e dai nuclei urbani minori.

 

Cosa fare con l’elettricità

Le reti di fornitura elettrica sono al centro del sistema energetico dominato dai combustibili fossili. Negli anni ’50, la loro quota rispetto all’uso globale di combustibili fossili era di circa un decimo, adesso è di più di un terzo.

I sistemi basati sull’elettricità, come le automobili, hanno rappresentato la grande innovazione della fine del XIX° secolo. La prima fase di questo sviluppo, culminata nel boom del dopoguerra, dipendeva da grandi centrali energetiche, in genere alimentate a carbone.

Le centrali sono intrinsecamente inefficienti. Orientativamente, per ogni unità di energia prodotta sotto forma di elettricità, ne vengono perse due durante il processo produttivo, principalmente sotto forma di calore di scarto (il quale produce le nubi di vapore che vediamo salire dalle torri di raffreddamento delle centrali). L’efficienza termica media globale delle centrali elettriche (ovvero, la quantità di energia del carburante che viene trasformata in elettricità) è andata aumentando fin dagli inizi del XX° secolo, da circa il 25-30% all’attuale 34% per il carbone e 40% per il gas. Ma non aumenterà più di così a causa di limitazioni fisiche.

Negli anni ’70, quando la l’idea che i combustibili fossili non fossero né infiniti né convenienti prendeva forma nella mente delle elites politiche, gli ambientalisti puntarono alla dispersione energetica nei processi di conversione come la fonte primaria di un potenziale risparmio energetico. Amory Lovins [fisico e ambientalista americano, cofondatore del Rocky Mountain Institute operante nel campo della sostenibilità energetica – ndt], fautore dell’energia sostenibile, dichiarava al Congresso Americano che bruciare carbone per produrre energia elettrica per poi trasmetterla a resistenze elettriche presenti nelle case era come «tagliare del burro con una motosega».

Auspicava «percorsi energetici morbidi» che combinassero la cultura dell’efficienza energetica con una transizione verso le energie rinnovabili: case progettate e costruite in modo da avere il minimo fabbisogno termico; pannelli solari e turbine eoliche; attenzione ai flussi di energia all’interno dei sistemi.

Più di 40 anni fa, Lovins descriveva questi aspetti come le «strade non intraprese» da governi che difendevano gli interessi esistenti delle multinazionali invece di usare le tecnologie energetiche in maniera saggia. Nonostante nel frattempo si sia scoperto il riscaldamento globale, queste strade sono ancora spesso aggirate, così come lo sono i potenziali risparmi energetici delle tecnologie più recenti. Nello specifico, le reti di computer e internet.

Questi prodotti della “terza rivoluzione industriale” hanno reso possibile la sostituzione dei vecchi sistemi a combustibile fossile altamente centralizzati con reti integrate e decentralizzate che si basano su più produttori di energia. I miglioramenti nelle energie rinnovabili (pannelli solari, turbine eoliche, pompe di calore e così via) hanno dato il loro contributo.

Però nei tre decenni successivi alla scoperta degli effetti del riscaldamento globale, la tecnologia delle “reti intelligenti” è stata applicata raramente. Questo per un motivo: le reti di distribuzione sono gestite da società il cui modello aziendale prevede la vendita del maggior quantitativo di energia elettrica possibile. I sistemi di generazione distribuita (nei quali la rete raccoglie elettricità da diverse fonti rinnovabili e la suddivide in maniera efficiente) li spaventano. I progetti comunitari di decentramento elettrico sono costretti a competere ad armi impari contro le multinazionali esistenti.

In un breve saggio dell’anno scorso realizzato da ingegneri ricercatori dell’Imperial College di Londra, si sosteneva che, per far uscire i sistemi elettrici e di riscaldamento del Regno Unito dalla dipendenza da combustibili fossili, era richiesto un “approccio sistemico integrato” coordinato da “un soggetto unico”. Questo implica (ma i ricercatori non lo dicono chiaramente) che gli enti pubblici debbano coordinare tale transizione. Quale altro “soggetto unico” sarebbe in grado? Questa azione strategica è stata fortemente osteggiata dalle “sei grandi” compagnie energetiche del Regno Unito e dai loro amici nel governo Conservatore. Questo è un ottimo esempio di come il potere delle multinazionali e il dogma della “concorrenza” siano un ostacolo per le tecnologie di cui abbiamo bisogno per contrastare il riscaldamento globale.

 

Foto di Gaia Di Gioacchino

 

E adesso?

Non esistono soluzioni semplici alle crisi storiche causate da tre decenni di inazione governativa nei negoziati internazionali sul clima. Suggerisco tre passi da compiere.

Il primo passo è rifiutare la retorica prodotta da queste negoziazioni, secondo la quale i governi hanno la situazione sotto controllo. No, non ce l’hanno.

I processi di negoziazione hanno prodotto e riprodotto la propria retorica, tagliati fuori dal mondo reale nel quale 16 dei 17 anni più caldi mai registrati si sono verificati negli ultimi 20 anni (e nel quale gli studenti, dall’Australia alla Norvegia al Belgio, sono in sciopero proprio su questo argomento). Dobbiamo accogliere con piacere, secondo me, il fatto che gli studenti non stiano soltanto facendo pressione sui governi affinché dichiarino una “emergenza climatica” (che mi sembra il minimo che si possa chiedere) ma stiano anche cercando il modo di prendere in mano la questione chiedendo l’inserimento dell’insegnamento delle scienze climatiche.

I movimenti sociali, le organizzazioni dei lavoratori e le comunità preoccupate dal cambiamento climatico potrebbero adottare tutte degli approcci simili: non solo circa le richieste ai governi, ma anche per l’acquisizione delle conoscenze necessarie per guidare l’azione collettiva per contro nostro; non soltanto per sollecitare dei “New Deal ecologici”, ma per bloccare i progetti intensivi basati sui carburanti fossili e sviluppare delle tecnologie post-energia fossile proprie. Esiste già una ricca storia di entrambe le tipologie di azione (dalle proteste contro il fracking o l’oleodotto Dakota Access, ai progetti energetici comunitari e alle iniziative sui luoghi di lavoro per una “transizione equa”) su cui lavorare

Un secondo passo, è quello di rigettare tecnicismi pretestuosi che offuscano la realtà: per poterci allontanare dai combustibili fossili abbiamo bisogno di un cambiamento sociale ed economico; dobbiamo vivere in maniera diversa.

L’attenzione contingente sui veicoli elettrici e senza conducente ne sono un esempio lampante. La tecnologia delle vetture elettriche probabilmente non ridurrà molto le emissioni di carbonio e potrebbe addirittura non ridurle affatto, a meno che l’elettricità non venga prodotta interamente dalle rinnovabili. Nonostante paesi come la Germania e la Spagna abbiano fatto importanti passi avanti per aumentare la proporzione di energia elettrica generata dalle rinnovabili a un quinto o un quarto del totale, la parte davvero difficile (creare sistemi a maggioranza o totalmente basati sulle rinnovabili) deve ancora arrivare.

Una possibilità più convincente è quella di rendere le città dei luoghi in cui le persone possano vivere con sistemi di trasporto migliori, più sani e non dipendenti dagli autoveicoli. Tecnologie come tram, passerelle e infrastrutture ciclo-compatibili possono essere di aiuto. Invece, la principale funzione sociale delle macchine elettriche è di mantenere i profitti dei produttori di autovetture. Perché aiutarli?

Cambiamenti del genere nel trasporto urbano (superando un sistema tecnologico con un altro) implicano la rottura della resistenza dei centri di potere e di ricchezza (produttori di combustibili fossili e autovetture, costruttori stradali e via dicendo) che ne traggono vantaggio.

Lo stesso vale per altri sistemi tecnologici. Ricostituire la relazione tra la città e la campagna, liberare le infrastrutture costruite nei centri urbani dal modello energivoro corrente (che determinerebbe la fine della costruzione di edilizia abitativa assetata di energia e di calore) significa rompere la resistenza dei promotori immobiliari, delle imprese edili e dei loro amici a tutti i livelli di governo. Avanzare verso reti elettriche decentralizzate e pienamente integrate significa scardinare la resistenza delle società elettriche odierne.

Variazioni di questo tipo, che combinano cambiamenti tecnologici, sociali ed economici, rappresentano il terzo passo verso il cambiamento.

Tali variazioni, a loro volta, puntano verso trasformazioni più profonde dei sistemi sociali ed economici alla base dei sistemi tecnologici. Possiamo immaginarci forme di organizzazione sociale che sostituiscano il controllo statale e aziendale sull’economia, che facciano progredire il controllo sociale e collettivo e nelle quali, fondamentalmente, il lavoro dipendente (asse portante del capitalismo basato sul profitto) venga sostituito da tipologie di attività umana più significative.

Una trasformazione sociale del genere (in rottura con un sistema economico basato sul profitto e, parallelamente, con le politiche basate sulla falsa premessa che la “crescita economica” corrisponde al benessere dell’essere umano) fornirebbe la base più solida possibile per il tipo di cambiamento nei sistemi tecnologici necessario per completare la transizione dai combustibili fossili.

Il fatto che i movimenti sociali e dei lavoratori invochino tali cambiamenti da almeno due secoli ma non li abbiano ancora raggiunti ci suggerisce che non esistono modi facili per riuscirci. Non offro formule banali di successo, ma è fondamentale comprendere che il cambiamento tecnologico è interdipendente dai cambiamenti sociali ed economici e che dobbiamo resistere alla tentazione di considerarli separatamente.

 

 

Articolo apparso sul sito Roar

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress