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Il cupo caos degli anni Duemila. Su “Accelerazione” di Edmund Berger

In “Accelerazione. Correnti utopiche da Dada alla CCRU” (Nero-NOT) Edmund Berger traccia la genealogia definitiva delle controculture utopiche che hanno attraverso il ventesimo secolo: dall’Internazionale Situazionista al punk, dal Settantasette italiano agli Autonomen tedeschi, dall’attivismo hacker, al cyberfemminismo e alla cultura rave. Una carrellata di personaggi, eventi ed esperimenti accomunati dall’obiettivo di sostituire nuove mitologie alle narrazioni del potere

L’inizio del 2021 è stato estremamente scioccante, un trauma iniziato con l’invasione di Capitol Hill e continuato con le convulsioni del mercato finanziario sotto i colpi di un’intelligenza diffusa e perturbante che prende il nome di Reddit. Quest’anno, dopo le efferatezze virali del suo predecessore, sta già mostrando ciò che serpeggia sotto la crosta del mondo consensualmente condiviso. Abbiamo trovato su ogni schermo, con nostro sommo stupore, uno sciame di culture certamente radicali, ma non sempre facilmente catalogabili come “amiche”, “politiche” o del tutto.

Nel primo caso, uno sciamano, canale di forze tanto ridicole quanto efficaci, ha conquistato il trono di un impero al tramonto. Nel secondo, un gruppo enorme di utenti senza volto, mosso da una disciplina decentralizzata e militare e dalla volontà di lucrare sulla fine del mondo, ha scommesso su una catena di negozi di videogiochi, facendo schizzare alle stelle il suo valore finanziario e amplificando la volatilità dei mercati.

 

In entrambi i casi, qualcosa ha sporto la testa oltre la superficie della coscienza sociale e ha mostrato quanto sia inesistente e inefficace la marcia del progresso, rendendo fugacemente manifesto il regno delle ombre che si rifiutano di accettare l’unità e la sensatezza della Storia – la comunità di tutte quelle anime che si riuniscono in sette e cospirazioni e che sperano che sia loro il colpo di grazia al cosmo.

 

Forse il grado di sublimazione più alta, almeno per quanto riguarda Capitol Hill, e il punto in cui sono riuscito a scorgere una sorta di riflessione autocosciente su di sé e sulle azioni che si stanno intraprendendo è stato una canzone che poco ha avuto a che fare con i fatti accaduti. Questa canzone, The White House Tomorrow di Death in Rome, è una cover, distribuita un paio di mesi fa sul canale Youtube dell’artista, e registrata nuovamente per l’occasione con il musicista folk King Dude. I due fecero un piccolo scalpore durante le ore del tumulto giustapponendo le immagini dello sciamano e dei suoi compagni di colpo di stato. Dopo poche ore, in un tipico gesto di deflessione ironica delle accuse di supportare un movimento indubbiamente goffo ma chiaramente nazionalista, appiccicarono lo stesso brano ai video della Capitol Hill Autonomous Zone, una zona nei pressi di Capitol Hill temporaneamente occupata durante le proteste per la morte di George Floyd per mano della polizia americana lo scorso giugno, equiparando, con una vecchia e stanca equazione, due movimenti così radicalmente eterogenei.

 

 

Al di là di questo brusio da social network, ciò che mi preme sottolineare non sono tanto le avventure di questa iterazione della canzone, quanto la sua fonte e il significato che la sua radice primigenia assume in un momento storico come questo. La versione originale di questa canzone, infatti, fu inizialmente incisa da T.V. Smith, una di quelle icone punk neglette dalla storia ufficiale del movimento, saturo com’è dei santini macilenti dei vari Johnny Rotten, Joey Ramone e Joe Strummer. L’obiettivo polemico della canzone era molto diverso e decisamente più bizzarro. La canzone di T.V. Smith si intitolava Euro Disneyland Tomorrow ed era uno strano inno di vendetta contro l’invasione del suolo europeo per mano dei parchi gioco Disney. Era una ballata vagamente springsteeniana che metteva in scena una battaglia epica contro quell’America liofilizzata che era atterrata nel vecchio continente. La canzone, con il suo rifiuto assoluto di cooperare col mondo, si situava, com’è spesso accaduto a T.V. Smith, fra i peggiori sentimenti reazionari e la militanza rivoluzionaria più oltranzista. Il picco del suo lirismo, esempio fulgido dello stile fecondamente paranoico che diventerà predominante in tutti i movimenti controculturali dal punk in poi, viene toccato quando T. V. Smith recita il suo personale giuramento dei congiurati: «We have no money/We have no hope/We have seen all our dreams/go up in smoke/but we will leave/behind us sorrow/at the gates of Euro Disneyland tomorrow»

 

 

La potenza di un’affermazione del genere è duplice. Da un lato, incarna un senso sconvolgente di assoluta impotenza e deiezione. Si ritrova qui tutta la coscienza di essere perdenti e persi per sempre davanti a un mondo che cederà sempre il passo alle Euro Disneyland di questo mondo. Dall’altro, però, compare la visione abbacinante della forza devastante e devastatrice di queste micro-collettività di perdenti, una visione fedele alla dirompenza e all’irruenza incondizionata di tutti quei movimenti che hanno attraversato il mondo dal secolo scorso a oggi, compresi quelli che hanno squassato questo inizio del 2021. T. V. Smith, in altre parole, si fa portavoce di quella assoluta impotenza e di quella volontà di distruzione cieca che sembra possedere tutti coloro che si siano gettati fuori dal mainstream per abitare gli angoli neri della storia – i punk, i folli, gli scoppiati, gli sciamani, gli anonimi investitori di Reddit.

Chiaramente, chiusa nei due minuti scarsi di una ballata, questa intuizione resta fulminante e muta. Lungi dal costituire una teoria completa delle forme di vita che popolano i margini, si consuma in un solo, breve momento di lucidità.

Un contributo decisamente più strutturato, ma ingegnerizzato su un’intuizione incredibilmente simile è, invece, Accelerazione di Edmund Berger, recentemente pubblicato da Nero. Anche solo a livello puramente superficiale, la somiglianza fra il brano di T.V. Smith e l’opera di un autore come Berger non dovrebbe stupire. Berger, infatti, ha abitato volontariamente ogni forma di cultura liminale che era a sua disposizione, divenendo la voce più autorevole di molte sottoculture digitali che hanno infestato il web in questi anni.

I suoi blog, ultimi testimoni ancora viventi di una cultura digitale lontana dalla patina delle piattaforme di sorveglianza di massa che soggiogano e reprimono le potenzialità della rete, sono divenuti punti di ritrovo per sciami anonimi e scintillanti di utenti e la sua voce ha narrato per ore le complessità della geopolitica complottistica contemporanea. Per quanto non sia mai stato un nome citato nelle alte sfere della teoria, Berger è sicuramente un illustre abitante di una cultura decentralizzata, oscura e genuinamente punk – una cultura che preferisce l’oblio all’umiliante fama nata dal compromesso e dall’accettazione della legge del mondo emerso.

 

 

Non a caso, Accelerazione è, prima di tutto, una precisa ricostruzione delle radici di queste forme crittate del sapere umano, radici che spesso affondano in profondità trovando il loro primo sostentamento principalmente nella poetica maniacale del Dada e nel rifiuto totale da parte dei situazionisti. Questo libro è, innanzitutto, un diagramma preciso che porta il lettore ai piedi delle altezze vertiginose di quel patchwork di culture secessionistiche che è il ventunesimo secolo, passando attraverso le storie minori e minoritarie che hanno reso questa balcanizzazione culturale possibile. Partendo dalle voci che animavano Hugo Ball, Berger si propone di mostrarci i lineamenti essenziali delle controculture che hanno aperto un infinito numero di brecce nel costato della Storia, creando vie di fuga, controstorie e piccole oasi di riottosa libertà.

Il tratto di Accelerazione che, però, lo accomuna in maniera più decisiva alle parole di T.V. Smith è la sua struttura biforcuta, scissa fra un entusiasmo quasi infantile suscitato dalla potenza di queste linee divergenti, lanciate a briglia sciolta fuori e contro il mondo, e un doloroso senso di impotenza, informato da un acuto pessimismo nei confronti di queste stesse controculture, facilmente catturate da sentimenti reazionari che le rendono docili, improduttive o tremendamente pericolose. Piuttosto che appiattirsi su una narrazione meramente giornalistica o riportare con entusiasmo bovino le gesta dei vari protagonisti o, ancora, assumere una posa moralistica nei confronti dei fatti riportati riducendoli a una sorta di dialettica redentiva che spegne l’entusiasmo della rivolta nella sobria penitenza della restaurazione, Berger riporta l’alba e il tramonto di ogni singola micro-scissione trattandoli come momenti discreti e irriducibili, come due visioni del mondo perfettamente eterogenee che non possono essere mai unificate o pacificate.

 

Il libro di Berger è, in altre parole, un concatenamento anti-dialettico di entusiasmi sporchi, di gioie disperate dedicate a tutti i tumulti consumati nei miasmi della controrivoluzione e della stagnazione, presi in quanto tali e senza che il loro fallimento o, peggio, la loro svolta reazionaria sminuisca o corrobori il loro portato liberatorio. Accelerazione è una lettera d’amore scritta fra le lacrime, dedicata ai bagliori e agli entusiasmi estinti dalla noia, dal tedio e dalla cattiva infinità di un mondo ristagnante.

 

Questa struttura bifida appare assolutamente cristallina se si prendono in considerazione l’inizio e la fine del libro, due parti che, a dire il vero, paiono scritte da due autori totalmente diversi. Nelle primissime pagine il libro ci presenta l’assalto di Michel Mourre, Serge Berna, Ghislain Desnoyers de Marbaix e Jean Rullier a Notre-Dame del 9 aprile 1950 – di nuovo, dissacrazione sciamanica – in cui Mourre recitò, davanti a un pubblico attonito, una messa nera in cui annunciava la morte di Dio e, con lui, del mondo consensualmente condiviso. Berger ci narra questo evento come una vera e propria genesi, un momento (anti-)storico decisivo in grado di causare un brulichio ingovernabile di micro-tribù, tutte pronte a profanare il mondo e dissacrare il creato.

Partendo da questo piccolo Big Bang, il libro è un interminabile formicolio di movimenti, nomi e storie che forano il velo della normalità per poi sparire in un gioioso esilio lontano dalla civiltà o finire strozzate in metamorfosi ingloriose. Inseguendo le traiettorie impazzite di questi movimenti, veniamo guidati attraverso un succedersi allucinato di stranezze, antagonismo totali e forze oscure, dall’Autonomia italiana fino all’accelerazionismo anfetaminico degli anni Novanta, sulle tracce di «un impulso lontano anni luce dal consueto immaginario rivoluzionario, […] qualcosa di molto più ampio, primitivo, distruttivo, eppure gioioso: la trasformazione totale delle condizioni di vita».

Seguendo, però, le varie diramazioni di questo effetto domino si giunge a una conclusione terrificante, a una suggestione tremenda. Arrivati alle scene finali del libro, infatti, Berger decide di trattare rapidamente il «cupo caos degli anni Duemila», sovvertendo l’euforia invasata dell’assalto a Notre-Dame e abbozzando una teoria sconvolgente:

 

oggi, in un mondo in cui i fumi e le fiamme delle teorie della cospirazione si fanno sentire più vivamente che mai, la gioiosa distruzione delle controculture è divenuta un’arma fra le tante da sfruttare nella guerra psichica di tutti contro tutti – uno fra i vari strumenti di tortura piscologica da utilizzare per avere il sopravvento sul proprio nemico. Il fallimento delle controculture, dunque, non è dovuto a una sorta di destino che limita le loro potenzialità.

 

Il loro tramonto è frutto di un progressivo assorbimento della loro potenza eversiva e delle loro destabilizzazioni ontologiche a favore del mondo contro il quale volevano rivolgersi. A chiudere il libro si erge «l’inquietante possibilità che le credenze apocalittiche, la resurrezione dell’esoterico e dell’occulto eccetera, possano essere attribuite a – o perlomeno siano state strumentalizzate da – una sorta di grande “operazione psicologica”» (p. 344).

Questa ipotesi, però, non va letta come una sorta di limite assoluto a ogni forma di sovversione a-venire. Al contrario, proprio questa conclusione così radicale e questa struttura biforcuta e anti-dialettica si dimostrano essere le più grandi testimonianze dell’amore che Berger prova per queste forme di demistificazione sotterranea. Anche davanti a questo possibile riassorbimento, infatti, la potenza delle controculture resta comunque la chiave per sovvertire la tristezza miserabile del presente. Se le controculture del passato sono state soggiogate e usate dalle macchinazioni che sorreggono il business-as-usual, il nostro compito, per Berger, non è quello di ritrarci in una forma di politica più contenuta, più morigerata, più rispettabile, ma di attivare nuove forme di distruzione e inventare nuovi modi per cospirare insieme, memori della forza, ora esangue, di chi ci ha preceduto. Davanti agli sciamani della reazione, ai nuovi punk paranoici delle teorie della cospirazione che siedono sulle ceneri del mondo di ieri, Berger ci incita a spingerci più in là, verso tumulti e forze che non siamo ancora stati in grado di immaginare.