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Contro una coreografia del privilegio

We The People è il titolo della quarta e ultima edizione di Atlas of Transitions Biennale. Un Festival che in questi anni è stato in grado, grazie alla curatela di Piersandra Di Matteo, di aprire uno spazio di riflessione importante su temi come migrazioni, diritto alla città, i confini che abitiamo, diseguaglianze sociali, intrecciandoli su più livelli con le arti performative

Se questa è la trama, l’ordito che questo festival ha saputo tessere è fatto di una solida rete di relazioni con il territorio e la città di Bologna, sede di Atlas (ERT – Emilia Romagna Teatro è l’istituzione che lo realizza), attraverso progetti partecipativi, come, ad esempio, Punteggiatura di Muna Mussie, la School of Integration di Tania Bruguera, o ancora il lavoro coreografico 100 Pas Presque di Taoufiq Izzediou; ma anche attraverso un solido dialogo con le realtà associative della città e, ancora, con una programmazione che ha saputo dare spazio ad artiste poco conosciute in Italia. Un lavoro teorico che ha messo al centro annodamenti concettuali come migrazione e partecipazione urbana nel loro rapporto con l’arte, esplorandoli attraverso le pratiche, affrontandone anche le zone più problematiche.

Questa ultima edizione, che si è dovuta adattare alle condizioni della pandemia in corso, ha abitato lo spazio di varie piattaforme digitali mettendo l’accento sull’ascolto. «Lo spettatore – afferma Piersandra Di Matteo – è qui soprattutto qualcuno che si dispone ad ascoltare, che presta attenzione alle voci ignorate o messe a tacere. Nella materialità dell’ascolto ci si incontra come corpi, corpi che si uniscono, un assemblaggio che è ora e qui, e già sulla strada per qualcos’altro, verso un altro ascolto. Attraverso performance, proiezioni filmiche, incursioni radiofoniche internazionali, workshop per adolescenti, We The People vuole essere un invito a contrastare la subalternità razziale, di genere, sociale, economica, per affermare l’urgenza di una politica dell’ascolto basata sul diritto di tutti a essere ascoltati».

 

Questo è il contesto in cui lunedì 7 dicembre è stato presentato Necropolis, la versione adattata allo schermo, della performance dell’artista Arkadi Zaides. Evento conclusivo del Festival, realizzato in collaborazione con Mediterranea Saving Humans.

 

Una ricerca che Zaides, coreografo e artista visivo di origine bielorussa attualmente residente in Francia, porta avanti da circa tre anni con il suo team, per tentare di dare un nome alle vittime delle migrazioni che avvengono nel Mediterraneo.

 

Arkadi Zaides. Foto di: Joeri Thiry

 

«Abbiamo iniziato il lavoro su questo progetto – mi racconta Arkadi Zaides – quando abbiamo scoperto la lista di United, un network di organizzazioni che dal 1993 ha iniziato a raccogliere dati su persone che perdono la vita nel loro viaggio verso l’Europa. Nel 2013 questa lista contava 3000 morti, l’ultimo aggiornamento della ne conta 40.000 e sappiamo che si tratta di un numero parziale, ci sono casi non riportati». Partire dai dati, interfacciandosi con varie discipline per un’investigazione forense realizzata a partire da giornali, fonti orali, database ufficiali, archivi urbani, autorità cimiteriali e ospedali utilizzati come fonte per ricostruire la storia dei defunti, molti dei quali senza nome. Un progetto artistico che, per mezzo di una rigorosa pratica di ricerca, ha come obiettivo, anche, quello, di implementare la lista elaborata da United. «Fino a ora abbiamo condotto l’indagine in Belgio, Francia, Italia, Spagna, Svezia, Svizzera – racconta Zaides. «In ogni luogo è diverso: in alcuni paesi si tratta solo di pochi casi, in altri, come in Italia, ce ne sono moltissimi. In ogni paese viene condotta una ricerca specifica sul territorio e ogni nuovo ritrovamento permette di implementare il nostro database».

 

All’inizio della performance c’è un appello diretto allo spettatore: «Cari signori, stiamo tracciando la mappa della Città dei morti», leggiamo. La didascalia che segue, spiega attraverso delle istruzioni come prendere parte alla ricerca.

 

Se, da una parte Necropolis, vuole dar voce (e corpo) a chi è stato invisibilizzato, dall’altra mette al centro lo spettatore (e il suo corpo). Nella performance vediamo l’alternarsi di una mappa satellitare e degli zoom che conducono nei luoghi dove si trovano le tombe. I luoghi di sepoltura sono raggiunti attraverso cammini filmati in soggettiva. Siamo noi che guardiamo, che compiamo questo viaggio nella necropoli, noi che dobbiamo assumerci la responsabilità di queste storie, non c’è più tempo.

Quando gli sottopongo una domanda sulla ricerca condotta, Zaides racconta: «La sfida è stata quella di tradurre questa lista in un evento performativo, di rendere tangibile il database. A partire dalla lista tentiamo di localizzare le tombe dei migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa o che trovano la morte in diversi contesti urbani. C’è il desiderio di essere prossimi a questa moltitudine, arrivare il più vicino possibile ai loro corpi, quindi alle loro tombe, spesso senza nome. In seguito è arrivata l’idea della mappa, tutta l’Europa è presente nella lista. Si tratta di costruire l’architettura di una realtà parallela. Un territorio di morte parallelo a quello dei vivi».

 

Arkadi Zaides. Localizzazione della tomba di Blessing Matthew Obie

 

Partire dai database e dagli archivi è una pratica consolidata nel lavoro del coreografo e artista visivo, pensiamo ad esempio alle sue performance precedenti – Archive e Talos – può allora essere la performance una modalità di costruzione di memoria collettiva e, nel caso specifico di Necropolis, un luogo dove dar voce a corpi che non ne hanno?

«La coreografia, per me, è un filtro specifico attraverso cui leggere la realtà. È una questione lontana dal palcoscenico, ha a che vedere con i movimenti che osservo quando sono nella sfera sociale e dunque con le pratiche da poter mettere in campo per riflettere.

I morti migranti senza nome sono una comunità che è stata tacitata. Per l’Europa, quello che sta accadendo è la più grande catastrofe dopo la Seconda Guerra Mondiale. È una catastrofe che non viene affrontata, con la pandemia la situazione è peggiorata, ci troviamo a dover processare un altro tipo di morte e altri tipi di dati. Attraverso il dispositivo performativo costruisco una proposta diversa per portare questa collettività all’interno del dibattito pubblico».

 

Il corpo è assente in questo lavoro, l’unica immagine che abbiamo è quella della decomposizione sul finire della performance di un corpo volutamente posticcio.

 

«È complesso da dire – risponde Zaides sollecitato su questo punto – ma ci rapportiamo all’assenza del corpo e alla sua decadenza. L’evento in sé e la pratica che abbiamo sviluppato li percepisco, però, come completamente incarnati. Ciò che tiene la ricerca viva è questo continuo confronto con l’assenza del corpo e lo sviluppo di possibili pratiche per relazionarsi a questa assenza».
In questi ultimi anni, molti sono stati gli spettacoli dedicati al tema della migrazione, il rischio è quello di cadere in una facile retorica, di alimentare l’immagine del “migrante inventato” invece di considerare le persone nella loro individualità di soggetti desideranti.

 

Arkadi Zaides NECROPOLIS photo Institut des Croisements

 

In Necropolis non c’è nessun tipo di romanticizzazione o feticismo del corpo. La domanda che pongo ad Arkadi Zaides è se le metodologie che ha usato lo hanno aiutato a mantenere una narrazione al contempo affettiva e lucida. «Quando si entra in relazione con un dispositivo che feticizza il corpo, bisogna trovare altre strategie nel dispositivo stesso per rispettare quel corpo. C’è qualcosa di simbolico in questo gesto, perché è certo che non riporta in vita le persone. Credo che questi morti debbano insegnarci qualcosa su di noi e sul nostro posizionamento. Per me era impossibile mettere il corpo di 40.000 persone su un palco, l’unico corpo che è presente nel lavoro è un corpo in decomposizione, il corpo fantasmatico e infestato di questa collettività».

 

Come sottolinea Sandro Mezzadra, in un incontro tenutosi dopo la performance, quella che si evince dal lavoro è una “società di morti viventi”. Zaides, infatti, sottolinea che i morti siamo proprio noi, che accogliamo solo i corpi morti.

 

La necropoli costruita da Zaides non ha confini ed è in continua espansione: la ripresa in soggettiva delle tombe punta, in realtà, la camera verso di noi, il pubblico, «perché mentre continuiamo a muoverci per Necropolis non dimentichiamo che tutto ciò che vediamo in questo paesaggio di morte è fatto di noi stessi». I cancelli di Necropolis portano i nomi di Leviatano, Behemoth e Ziz: solo morendo tra i denti del Leviatano si potrà accedere al suo stomaco, «e alla fine saremo tutti sepolti anonimamente e non resterà nessuno a ballare» – così recita la frase finale della performance.

 

 

Immagine di copertina: Concertata: intervento di arte pubblica curato da #CHEAP con le fotografie di Michele Lapini Atlas of Transitions Biennale • We The People