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Il confine come forma simbolica

Con il nuovo spettacolo “Birdie”, il collettivo catalano degli Agrupación Señor Serrano riflette sulle migrazioni e sul loro regime visivo con una delle proposte teatrali più radicali attualmente in circolazione

Il vedere viene prima delle parole
(John Berger, Questione di sguardi)

 

La barriera come “forma simbolica”. Guardando all’oggi non è più la “prospettiva” (parola latina, come ricorda Panofsky nell’incipit del saggio del 1927 [La prospettiva come forma simbolica], che significa vedere attraverso) la costruzione per mezzo della quale rappresentiamo lo spazio. Riprendendo delle suggestioni di Paul Virilio nelle  sue riflessioni sui mutamenti paradigmatici dell’estetica visuale (L’arte dell’accecamento), possiamo dire cha da anni viviamo in un regime di «teleobiettività», condizione di chi non può che guardare «oltre l’orizzonte delle apparenze obiettive». In un paesaggio stravolto dalla diffusione e dallo sviluppo illimitato delle tecnologie audiovisive, legate in particolare a un’idea di videosorveglianza (che ha assorbito il reale con gli occhi della simultaneità e ubiquità multimediatica rendendolo ininterrottamente ipervisibile), il filosofo crede che abbiamo smarrito, senza rendercene conto, la lateralità e la profondità della visione. Per questo motivo «l’arte di vedere» è divenuta «l’arte dell’accecamento». È attorno a questi concetti che si sviluppa Birdie, progetto del collettivo catalano degli Agrupación Señor Serrano, recentemente proposto a Milano al Teatro dell’Arte, attraverso il quale riflettere sulle migrazioni, sebbene in tutto lo spettacolo non si vedano migranti o rifugiati. In principio c’è una foto di José Palazón scattata a Melilla, enclave spagnola situata sulla costa orientale del Marocco. È uno scatto che testimonia il processo di progressiva militarizzazione del confine tra l’avamposto europeo in terra marocchina e il resto dell’Africa.

Fino pochi anni fa le monarchie e le dittature nordafricane assicuravano un controllo dei flussi migratori, una sorta di invisibile muro poliziesco che scoraggiava l’esodo. Poi la situazione ha cominciato a degenerare e il confine è stato marcato più nettamente con reti d’acciaio. Nel 2005 c’è stato il primo assalto. Centinaia di migranti hanno tentato di scalare la palizzata. Esito: 14 morti e moltissimi rispediti nel deserto. E la barriera è stata rinforzata: palizzate triple, alte sei metri stavolta. E poi sensori, torrette di guardia, telecamere, intensificati i pattugliamenti. «“La valla” (“la palizzata” in spagnolo) – ha scritto Ruben Andersson – come memento, simile a una grande ferita incisa sulle colline». Blindata e isolata Melilla è il manifesto vivente della psicologia dell’assedio. All’interno, le poche migliaia di abitanti continuano a fingere di vivere come se nulla fosse. Il 22 ottobre del 2014 José Palazón scatta la foto che ritrae settanta migranti nel tentativo di superare la barriera. Arrampicati sulla cima della rete, per più di 12 ore , come degli uccelli sospesi su un filo. A pochi passi dalla loro disperazione, gli abitanti della città hanno continuato a giocare sui campi da golf. «Mi è sembrato un buon momento per fare una foto che fosse simbolica» ha spiegato Palazón. «Riflette perfettamente la situazione: le differenze che esistono qui e tutto ciò che di brutto avviene di là».

Di questa foto lo spettacolo ne ripropone la genesi. Tutto comincia come un racconto in soggettiva: a parlare è Palazón; lui non è presente sul palco, e ciò che vediamo è quello che lui vede. A questo punto bisogna aprire una parentesi e provare a spiegare l’ipotesi di teatro portata avanti dagli Agrupación Señor Serrano. Come loro stessi hanno dichiarato in un’intervista comparsa su Exibart.com : «noi non recitiamo, non interpretiamo, facciamo delle cose e le cose che facciamo le facciamo veramente. È nel momento in cui sono catturate dal video e manipolate che acquistano senso e diventano qualcosa di altro, ma il punto di partenza è sempre lo stesso, non c’è interpretazione». Quella che può sembrare una contraddizione è in realtà l’elemento fondante di una proposta teatrale che pensa allo spazio spettacolare come a un ambiente narrativo in cui confluiscono dati provenienti da diverse fonti, un organismo fatto di molteplici elementi eterogenei (riprese live, miniature, video, registrazioni audio e naturalmente manovratori) tra loro messi in relazione attraverso un’operazione di montaggio realizzata in tempo reale. «Noi siamo qui che creiamo qualcosa e siamo consapevoli che il pubblico è lì, quindi ha molto senso il mostrare non solo ciò che facciamo ma in che modo lo facciamo, svelando, contemporaneamente, che questo atto è comune e che acquista senso quando “il come” viene svelato. Diciamo che “il come” è anche “il cosa”».

Gli Agrupación Señor Serrano, dunque, concepiscono lo spazio scenico come un dispositivo plurimo e volutamente distanziante (a riguardo di Birdie non a caso hanno detto: «affrontiamo l’argomento facendo un passo indietro per avere una certa distanza, per non lasciarci trasportare dalle emozioni che quel tema ci provoca, provandolo a capire nella sua complessità»), che procede per metafore, simbolismi, in una vertigine di tempi divergenti, convergenti e paralleli; un tessuto di combinazioni entro il quale è possibile sperimentare nuove connessioni sempre negate dall’approccio cronachistico con cui si è soliti leggere l’attualità.

Michelangelo Antonioni diceva a riguardo della riflessione sulla visione sviluppata in Blow-up: «Io non so com’è la realtà. La realtà ci sfugge, mente continuamente. Quando crediamo di averla raggiunta, la situazione è già un’altra. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché “immagino” quello che c’è al di là». Ecco, gli Agrupación Señor Serrano propongono, con il loro teatro, un tentativo di visione che va oltre gli effetti di superficie.