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ITALIA

«Col parto passa tutto». Il problema invisibile dell’endometriosi

La malattia dell’endometriosi può causare danni gravi e irreversibili, ma viene spesso sottovalutata perché manca attenzione e ascolto verso le pazienti anche a causa dei tanti tabù ancora legati alle mestruazioni

Lo diceva già nel 1926 Virginia Woolf, nel suo saggio Sulla malattia, che se l’amore può essere narrato attraverso le parole dei grandi poeti, per raccontare invece la propria sofferenza a un medico spesso non esiste linguaggio. Lo racconta oggi Alessia Astolfi, uscita da poco dal lavoro. Alessia ha ventotto anni, è nata in provincia di Moncalieri e ha l’endometriosi. Le è stata diagnosticata la malattia molto presto, a soli diciassette anni: «Avevo l’endometriosi al primo stadio, quindi lieve, adesso sono al quarto stadio, grave. Ho scoperto di avere questa patologia rimbalzando tra uno studio e l’altro di ginecologia, perché non è facile ottenere una diagnosi».

 

Si tratta di una malattia invisibile, quanto meno difficile da individuare, perché i sintomi possono essere confusi con mestruazioni molto dolorose.

 

L’endometrio è un tessuto che riveste le pareti interne dell’utero; nell’endometriosi tuttavia questo fuoriesce, attaccando gli organi circostanti. Solitamente aggredisce le ovaie, ma se non ci si accorge della patologia in tempo, può compromettere perfino l’intestino e, nel 30-40% dei casi, può causare infertilità. Secondo un documento dell’Onu reperibile sul sito del Senato della Repubblica, in Italia le donne con diagnosi conclamata sono almeno 3 milioni, 14 milioni in Europa, 5,5 milioni nel Nord America e 150 milioni nel mondo.

L’endometriosi è una patologia dolorosa e debilitante. I sintomi possono iniziare fin dall’adolescenza, ma alle giovani donne viene spesso detto che hanno semplicemente “mestruazioni dolorose”, come racconta Alessia.

 

«Possono essere necessari anni per ottenere una diagnosi. Troppo spesso il dolore viene sottovalutato, liquidato con superficialità come manifestazione di stress e ansia o perfino di isteria.

 

Alcuni medici prescrivono addirittura psicofarmaci. Ritrovarsi ripetutamente ignorate ha come conseguenza la scarsa fiducia in noi stesse». In molto casi, precisa Alessia «la paura di essere giudicate e considerate capricciose e deboli porta molte di noi a sottostimare il dolore, rendendo quindi ancora più difficile la diagnosi della malattia». Se non si vede, non c’è.

Alessia ha subito sette interventi negli ultimi nove anni. È stomizzata a vita: porta sempre attaccato al corpo un sacchetto renale, perché l’endometriosi le ha causato danni irreversibili. «Non è stata solo la patologia, ma anche molti medici incompetenti» racconta. «A diciassette anni mi hanno riempita di psicofarmaci, pensavano che io fossi pazza; tra l’altro chi me li ha prescritti era una ginecologa affetta dalla stessa patologia, una donna. Mi aspettavo un po’ di comprensione». Alessia spiega che spesso i medici «non sanno minimamente di cosa parli quando nomini la malattia».

 

L’endometriosi è inserita nell’elenco delle patologie croniche e invalidanti, ma soltanto quando la malattia è a uno stadio avanzato, al III o IV grado.

 

Solo allora le pazienti vengono esentate dal pagamento delle visite specialistiche di controllo. «Un piccolo passo» dichiara Alessia, «l’esenzione comprende una visita ginecologica con ecografia transvaginale ogni sei mesi. Il clisma opaco “semplice”, ma a noi serve il doppio contrasto, quindi è un po’ una fregatura. Non è compresa la risonanza magnetica che sarebbe il caso di far comprendere. È il nostro esame d’elezione!».

Benny Farre ha quarantadue anni e vive a Comazzo, anche lei è affetta da endometriosi. Ha scoperto la patologia dopo la gravidanza e racconta di un trattamento molto superficiale da parte del personale sanitario: «Mi dicevano che col parto sarebbe cambiato tutto. Bisogna sfatare questo mito che la gravidanza curi l’endometriosi. Dopo il cesareo sono peggiorata tre volte tanto.

 

È tutta la vita che vivo il ciclo come l’inferno. Ero affetta da questa patologia da più di vent’anni, e non lo sapevo. Perché nessuno me l’ha mai diagnosticata.

 

Mi si proponeva la pillola come soluzione a tutti i mali». La pillola infatti viene prescritta per risolvere «almeno i sintomi» spiega il dottor Massimo Bardi, responsabile del Centro endometriosi e referente del team multidisciplinare per la diagnosi e cura dell’Endometriosi del Policlinico San Pietro di Bergamo: «È quello che si dice criterio ex juvantibus. La pillola è la terapia di prima linea per l’endometriosi. Toglie i dolori e spesso blocca anche il progredire della malattia. Ma un bravo ginecologo non dovrebbe limitarsi a questo, dovrebbe ascoltare queste ragazze e i loro dolori. I sintomi possono essere normali, ma potrebbero anche essere un segnale di endometriosi».

 

 

Cure vere e proprie non esistono. Le uniche terapie sono palliative, eliminano i sintomi, possono frenare e in qualche caso ridurre il processo infiammatorio e quindi il dolore. Per il dottor Bardi, il problema più serio è la facilità con cui quel dolore viene confuso con quello del ciclo mestruale.

 

Il problema starebbe alla radice: c’è scarsa informazione e poco ascolto della donna, anche da parte delle donne stesse.

 

«Quando la ragazza comincia a mestruare e ha dolori, a chi si rivolge? Alla mamma, alla sorella, alla zia, le quali in molti casi dicono “non ti preoccupare, è normale avere dolore, vedrai che quando farai un figlio passerà tutto”» afferma il dottor Bardi. Il dolore però non passa e la malattia progredisce.

Come il dottor Bardi, anche il dottor Alberto Tregnaghi dell’Unità di radiologia dell’ospedale della Navicella di Chioggia conosce molto bene la malattia. Per individuare l’endometriosi utilizza da qualche anno un innovativo metodo diagnostico. Sperimentata dal giapponese Takeuchi, la tecnica prevede l’uso della risonanza magnetica con mezzo di contrasto, che permetterebbe una migliore visibilità e quindi una più accurata analisi della struttura pelvica.
Oltre agli strumenti diagnostici, serve anche un sostegno psicologico. Ne è convinta Serena de Bigontina, psicologa, sessuologa clinica ed esperta in endometriosi che spiega che «un sostegno psicologico è fondamentale. Molto spesso le donne si trovano a essere messe sotto accusa e a non sentirsi ascoltate e comprese.

 

Il vissuto emotivo e somatico viene messo in discussione dalla società, che, anche a causa di retaggi culturali, le colpevolizza per non riuscire a sopportare il dolore e il periodo mestruale».

 

Per questo motivo c’è chi perde anche il lavoro. Come Vania Mento. Vive a Vercelli, ha i capelli rosa e un’inarrestabile energia. Ha scoperto di essere affetta da endometriosi nel 2012, il giorno del suo compleanno: «Ricordo che, quando il ginecologo pronunciò il termine “endometriosi”, tra me e me pensai che una parola dal suono così gentile non potesse rappresentare una malattia tanto terribile». In visita all’ospedale di Peschiera del Garda, Vania scopre di avere l’endometriosi al quarto stadio, diffusa ovunque: intestino, utero, ovaie, legamenti, nervi sacrali, vescica.

 

 

Per quattro mesi è costretta a convivere con un macchinario provvisorio attaccato esternamente al corpo. Poi le è stato impiantato nella schiena il neuromodulatore definitivo, un generatore di impulsi, sistemato in una tasca sottocutanea che permette l’espletamento delle funzioni fisiologiche. Le è stata riconosciuta un’invalidità dell’80% e lo stato di handicap. Vania Mento racconta di aver perso il lavoro perché secondo i colleghi e il capo «prendeva la malattia troppo sul serio» e aggiunge: «hanno sempre creduto che esagerassi, che fingessi.

 

Quando ho chiesto il part-time sono iniziate le cattiverie, i dispetti e infine il licenziamento. L’endometriosi ti lascia senza fiato, sola, incompresa. Perché non si vede».

 

Al fianco delle donne affette da questa patologia sono nate alcune associazioni di sostegno. Annalisa Frassineti è la presidentessa dell’Associazione Progetto Endometriosi (Ape) ed è affetta da endometriosi. La malattia l’ha resa sterile, ma lei ha saputo trasformare la propria rabbia in cura. Cura per se stessa, per il suo corpo segnato, per i corpi di altre ragazze. L’ Ape è stata fondata nel marzo 2005, per fare informazione tramite manifestazioni pubbliche e convegni per medici di base, medici dei consultori e specialisti del settore. Forma anche nuovi specializzati in endometriosi. Vi è un portale rivolto alle più giovani, Apine, in cui trovare informazioni precise e rassicurazioni delle “sorelle maggiori”. «L’associazione pensa alle donne di domani, creando consapevolezza nelle donne di oggi, attraverso la relazione interpersonale, l’ascolto, l’accoglienza e la correttezza dei dati caratteristici della patologia» racconta fiera Annalisa. «In questa Associazione mi sento accolta e amata. Non è solo una casa, quanto un abbraccio. Fondamentale per chi ancora non viene capito e viene preso per isterico».

Tutte le foto di Georgie Wileman (copyright riservato)