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Casa, margine, resistenza: così bell hooks ci insegna a cambiare

Passati due anni dalla morte di una figura tanto rilevante per il pensiero femminista e non solo, ripercorrerne il pensiero per rileggere il presente e immaginare scenari futuri rivoluzionari

A due anni dalla scomparsa di bell hooks, rendersi conto che non è andata da nessuna parte. Leggendo e rileggendo i suoi scritti, continuare a sorprendersi di quanto le sue domande ci interroghino ancora, di quanto, nonostante il tempo trascorso, molte cose sembrino non essere cambiate dalla pubblicazione delle sue prime opere, a ridosso degli anni Ottanta.

Uno dei suoi lavori che al momento mi parlano di più è Homeplace (A site of Resistance), comparso un po’ più tardi, nel 1990 e tradotto in italiano alcuni anni dopo col titolo Casa: un sito di resistenza, contenuto nel corpus di saggi che hanno dato vita alla raccolta conosciuta in Italia come Elogio del margine. In queste poche pagine bell hooks parte da un ricordo d’infanzia molto vivido quando, piena di timore ed eccitazione, viaggiava con la famiglia per le strade dell’Alabama segregato verso la casa della nonna. Timore, perché la casa in questione si trovava in un quartiere abitato per lo più da bianchi poveri che assistevano al loro passaggio con l’odio negli occhi, ed eccitazione per il grande senso di sicurezza e appartenenza provato dall’autrice, ancora bambina, nel varcare il cancello del cortile di famiglia. Finalmente a casa. Finalmente il luogo in cui lasciarsi alle spalle la brutalità dell’apartheid razziale e misurarsi liberamente con la propria umanità, dove riscoprire le proprie radici e potersi costruire e ricostruire, al di là e al di sopra dell’abbrutimento destinato alla comunità nera da una realtà sociale oppressiva, violenta, sessista e razzista.

Descrivendo la dura vita delle donne nere dei ceti più poveri e marginalizzati nell’Alabama degli anni Cinquanta, per lo più impiegate tutto il giorno come domestiche o caregivers in famiglie bianche e borghesi che spesso le disprezzavano, per poi tornare a casa e occuparsi, sfinite, delle proprie famiglie, hooks ci fa una rivelazione:

«Anche se le donne nere non hanno articolato razionalmente in un discorso scritto i principi teorici della decolonizzazione, non per questo le loro azioni sono meno importanti. Intellettualmente e intuitivamente esse capivano qual era il significato del focolare domestico all’interno di una realtà sociale oppressiva e violenta, il senso del focolare domestico come luogo di resistenza e di lotta per la libertà […] nonostante le contraddizioni della povertà e del sessismo»

Un luogo in cui costruirsi e riscostruirsi. Un luogo in cui sottrarsi a una violenza innanzitutto fisica, ma anche epistemologica che, nel migliore dei casi, definiva le donne nere come esseri inferiori, alle quali non era riconosciuto alcun diritto né alcuna facoltà di autodeterminarsi o incidere nell’esistente, se non mettendosi al servizio dei bianchi, dei colonizzatori, come domestiche, come soggetti sessualizzati. Lavori considerati umilianti, lavori costantemente sviliti e dati per scontati.

E invece ecco la chiave di lettura rivoluzionaria che hooks ci prospetta: quel focolare domestico tanto faticosamente custodito, alimentato dalle nonne, non era il luogo al quale queste fossero assegnate per via di un presunto destino biologico. Il focolare domestico si colloca all’interno di un vero e proprio progetto politico, è luogo che preserva un’umanità e la capacità di poter pensare e agire le lotte per l’emancipazione. Chi ci dice che queste donne non lo sapessero, che non fosse loro precisa intenzione preservare questi luoghi come punti di partenza per cambiare l’esistente? Luoghi posti ai margini, dai quali avere una prospettiva diversa, in virtù della quale scardinare ciò che sembra dato e immutabile?

Fare queste considerazioni mi ha portato a riflettere sullo sguardo paternalista e condiscendente che molte persone hanno nei confronti delle donne razzializzate che abitano i quartieri multietnici delle città italiane. Prendiamo l’esempio delle donne velate. Su costoro è stato detto e si dice di tutto. Il fatto stesso di indossare il velo sembra quasi rappresentare una sorta di superpotere dagli effetti nefasti, che può attirare ogni genere di commenti e occhiatacce ove non delle lunghe invettive da parte di uomini, donne, sedicenti femminist3.

Queste donne vivono nei nostri quartieri, molto spesso nei nostri palazzi, con loro condividiamo spazi, scherziamo con i loro figli (eh, ma le bambine, chi penserà alle bambine?), ma in fondo ci fanno una pena infinita perché, poverine, sono costrette, sottomesse, incapaci di scegliere se indossare un indumento o meno. C

on queste donne, però, non scambiamo mai nemmeno una parola perché, è ovvio e scontato, non abbiamo proprio nulla in comune. Tutto sommato, cosa dobbiamo dirci? E anche se sono giovani donne nate e cresciute in Italia, cosa è andato storto, nel momento in cui scelgono di portare il velo?

La verità è che non sappiamo nulla. La verità è che di noi si può dire: ecco, questo è lo sguardo del colonizzatore. Uno sguardo che non va al di là, che non cerca nuove prospettive, che si volta indietro quando bell hooks ci parla per dire: ecco, questo è il margine, questa la casa di una persona razzializzata, marginalizzata, alla quale tu hai assegnato un ruolo ben preciso ma della quale non sai. Questo è un luogo di resistenza in cui si costruisce il futuro nonostante e a prescindere dalla tua ignoranza, dalla tua violenza. Sì, dalla tua violenza.

Spiace constatare che alcune persone che si definiscono femministe condividano tale paternalismo. Il che mi porta a un’altra riflessione ispirata al pensiero di hooks che, in Il femminismo è per tutti, riprende più volte il concetto di Lifestyle Feminism (il “femminismo” come stile di vita) per indicare il fenomeno per cui esisterebbero tante declinazioni del femminismo quante sono le donne. In realtà, ci dice hooks, questo ragionamento è pieno di insidie. Il femminismo, innanzitutto, non è appannaggio delle sole donne, ma di tutt3 coloro che vogliano smantellare il sessismo. Per ciò stesso, il femminsimo di hooks è radicale, oppure non è.

Non è femminismo se è volto a riprodurre un sistema di sfruttamento nell’ambito del quale un maggior numero di donne godano degli stessi benefici degli uomini a scapito di soggettività marginalizzate o marginalizzabili. Non è femminismo quello di una ministra delle pari opportunità che non sfrutta la sua posizione per fare chiarezza sul diritto all’aborto o impedisce alle coppie omogenitoriali di essere ciò che di fatto sono: genitor3. Non è femminista una Presidente del consiglio che promuove politiche sessiste, repressive, securitarie, oppressive. In una parola: patriarcali.

Lo stesso femminismo liberal, che sembra voler consentire alle donne di fare esattamente ciò che gli uomini fanno in casa, nei posti di lavoro, riproducendo logiche di sopraffazione e stantie, non mette nulla in discussione. Non è volto a una trasformazione radicale della realtà. Ma la definizione di femminismo che hooks ci dà non è nulla di inaccessibile o particolarmente ostico. Benché priva di intenti volti ad appiattire un fenomeno complesso e dalle molteplici declinazioni possibili, hooks ci fornisce una concettualizzazione ombrello, focalizzando l’attenzione sugli intenti, proprio per poterne accogliere versioni multiformi.

«Il femminismo è la lotta per porre fine all’oppressione sessista», scrive nel 1984 in Feminist Theory: From Margin to Center. «Perciò, è necessariamente una lotta per sradicare l’ideologia basata sul dominio che permea la cultura occidentale a più livelli, nonché l’impegno verso una riorganizzazione della società che anteponga la crescita personale all’imperialismo, all’espansione economica, ai desideri materiali». Che le donne chiedano dunque di accedere alle stesse carriere degli uomini nei posti di lavoro non sarebbe un male di per sé, ma tutto dipende da come il potere acquisito in tal modo viene utilizzato per immaginare un futuro diverso, un futuro non dominato da logiche patriarcali e machiste basate sullo svilimento e sullo sfruttamento di alcune soggettività a scapito del benessere altrui.

Femminismo, ci dice bell hooks, è ripensare tutto, è ribaltare il tavolo. Non sorprende che il femminismo moderato, riformista, trovi spesso risonanza anche nei media più conservatori, precisa in Il femminismo è per tutti. Questo è in effetti un femminismo rassicurante, che non si pone come obbiettivo una vera trasformazione della realtà. E oggi, mi chiedo, come possa io stessa sfruttare questa eredità, queste sue parole che rappresentano tuttora luoghi di resistenza e terreno di coltura di nuove pratiche di libertà ed emancipazione per una reale trasformazione dell’esistente. Sento di avere una responsabilità nei confronti degli interrogativi che bell hooks ha efficacemente anticipato, penso che in tant3 condividiamo questa responsabilità. E che in tant3, se vorremo, potremo trasformarla in qualcosa di potente e rivoluzionario.

Immagine di copertina da Flickr