cult

CULT

Carcere, violenza e potere

Il libro di Luigi Romano, “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane”, sulle rivolte dell’aprile 2020 e più in generale sulla situazione penitenziaria in Italia. Se quegli eventi sono stati straordinari, è infatti l’ordinarietà del sistema carcerario italiano a permetterli.

A metà dicembre è iniziato il processo che dovrà stabilire le responsabilità a carico degli agenti della polizia penitenziaria e dei dirigenti che il 6 aprile 2020, in pieno periodo di confinamento di massa per la pandemia da Sars-CoV-2, sono stati coinvolti nelle violenze avvenute in una sezione del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il processo, molto complesso, proseguirà nei prossimi mesi e dovrà essere seguito con attenzione.
Tuttavia, a patto di lasciare da parte le responsabilità penali dei singoli, già ora è possibile tracciare un quadro di quello che è avvenuto, soffermandosi sul sistema al cui interno ha avuto origine un fatto simile, come dice Luigi Romano, avvocato e presidente di Antigone Campania, nelle prime pagine del suo breve libro La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane, pubblicato recentemente dalle edizioni MONiTOR. Romano propone di ripercorrere quanto avvenuto nella primavera del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Prima, però, partendo da un libro di Salvatore Verde, descrive il carcere come un luogo in cui la capacità repressiva dello Stato deve modificarsi di continuo per trovare sempre un nuovo equilibrio di fronte alla resistenza dei detenuti. Questo porta a cambiamenti all’interno del sistema di esecuzione penale, senza però garantire che il nuovo punto di convergenza venga raggiunto in modo rapido e senza scossoni. Durante i mesi di marzo e aprile del 2020 la situazione in diverse carceri italiane è stata ricomposta al prezzo di pesanti conseguenze, spingendo Romano ad affermare che in quelle circostanze il sistema italiano penale sarebbe imploso. 

Penitenziari e pandemia

Per capire meglio questa affermazione così netta seguiamo l’autore e ritorniamo quindi al marzo del 2020: primi giorni di confinamento con le scuole impegnate nell’inedita didattica a distanza, il timore dei controlli per chi doveva muoversi, l’autocertificazione da portare in tasca, la paura del contagio. Furono anche i giorni delle rivolte in diversi istituti penitenziari con scontri fra detenuti e agenti e la morte di tredici persone detenute fra i penitenziari di Modena, Terni e Bologna. Molte altre rimasero ferite, come accadde anche ad alcuni agenti. I detenuti si ribellavano all’interruzione dei colloqui in presenza con i familiari e dei servizi di assistenza e formazione in base al Dpcm dell’8 marzo 2020 e alla mancanza di misure di prevenzione del contagio. Se la paura di diffusione di una malattia ancora poco conosciuta in un luogo affollato come il carcere poteva essere un elemento non usuale, Romano fa notare come invece tutti gli elementi necessari per mettere in crisi il sistema fossero presenti da tempo (per esempio la scarsità del personale con funzioni educative, il massiccio ricorso ad alcuni farmaci per affrontare i frequenti stati di disagio psichico, l’ozio forzato per i detenuti e, appunto, il sovraffollamento. 
Leggere l’ultimo rapporto annuale dell’associazione Antigone permette di approfondire i singoli aspetti. I numeri del personale educativo (i cosiddetti funzionari giuridico-pedagogici) sono inferiori alla pianta organica prevista in tutti i provveditorati italiani. Ne deriva un carico di lavoro che, come nota Romano, rende il disbrigo di pratiche amministrative preponderante rispetto al lavoro educativo. Sono pochissimi i mediatori culturali assunti dal Ministero della giustizia, carenza coperta parzialmente dall’impiego di personale pagato con fondi di progetti mirati. Inoltre, le attività di volontariato sono ora molto più limitate rispetto al 2019.
Il problema del sovraffollamento è ormai strutturale: nel resoconto settimanale pubblicato dal Ministero della giustizia lo scorso 20 dicembre risultavano presenti nelle carceri italiane 53.843 persone detenute, a fronte di una disponibilità ufficiale di 50.551 posti letto (nel rapporto di Antigone però si fa notare che quelli realmente disponibili potrebbero essere un numero inferiore per la chiusura di alcuni reparti). Si rimane quindi in una condizione di generale sovraffollamento (più grave in alcuni penitenziari come quelli di Taranto, Brescia e Lodi), sebbene dall’inizio della pandemia ci sia stato un decremento non trascurabile nel numero delle persone detenute (erano 61.230 il 29 febbraio 2020). 
Inoltre, per la sua conformazione il carcere rimane un luogo molto adatto a incentivare la nascita di forme di disagio psichico. L’ordinamento italiano prevede nei penitenziari delle articolazioni per la salute mentale per trattare questi casi, ma nel rapporto si fa notare come queste strutture spesso finiscano per concentrarsi su strategie di contenzione più che su dei percorsi terapeutici, riproducendo alcune dinamiche tipiche di un manicomio.

Santa Maria Capua Vetere

Il 5 aprile 2020, pochi giorni prima del giorno di Pasqua, la scoperta del primo caso di infezione da Sars-CoV-2 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere spinse alcuni detenuti, che si sentivano in pericolo per la forzata convivenza ravvicinata e per la mancanza di dispositivi di protezione individuale, ad avanzare delle richieste all’amministrazione. Una sezione del reparto Nilo venne occupata e iniziò un confronto con gli agenti, un evento non straordinario secondo Romano, che però portò l’amministrazione penitenziaria campana a considerare il fatto l’avvisaglia di un pericolo molto serio e a organizzarsi per sventarlo. Ciò nonostante il confronto finì senza violenze, con una mediazione. Sembrava una buona soluzione, invece scontentò almeno una parte degli agenti come alcuni membri del Gruppo di supporto, un gruppo speciale inviato nei singoli carceri dal Provveditore regionale della Campania in caso di emergenze. Romano torna quindi alla questione dell’equilibrio carcerario e al suo continuo modificarsi, descrivendo bene quanto sia importante per chi dirige un carcere non perdere il consenso degli agenti senza però provocare la rabbia di chi è detenuto. Sembra che sia stato proprio questo il motivo per autorizzare una perquisizione nella sezione che aveva portato avanti la protesta. Era il 6 aprile e l’intervento degli agenti diventò un esercizio di violenza diffusa verso i detenuti. Numerose persone vennero ferite e una di loro, Lamine Hakimi, alcuni giorni dopo l’intervento degli agenti si sarebbe ucciso. Romano fa notare un’anomalia avvenuta nell’immediatezza dei fatti: il magistrato di sorveglianza riuscì, anche grazie alle segnalazioni dei parenti di chi si trovava in carcere, ad avere delle notizie su quello che era avvenuto, si insospettì e chiese di incontrare alcuni detenuti. Trovò reticenza e poca collaborazione da parte degli agenti, ma ottenne comunque informazioni sufficienti a mettere in discussione che l’intervento fosse stato necessario per impedire una rivolta, come invece i principali sindacati della polizia penitenziaria, seguiti dai partiti di destra, suggerivano. L’ispezione propiziò anche l’intervento della magistratura inquirente: iniziarono così le indagini alla base del processo che è ora alle prime battute. Per arrivare a una presa di posizione incisiva da parte del Governo però sarebbe stato necessario aspettare il giugno del 2021 quando, di fronte alla diffusione di alcune registrazioni che documentavano le violenze, la Ministra della giustizia Marta Cartabia avrebbe visitato il carcere campano insieme al Presidente del Consiglio Mario Draghi, definendo i fatti di Santa Maria Capua Vetere un tradimento della Costituzione e della funzione svolta dalla Polizia penitenziaria. Inoltre, la Ministra avrebbe sospeso il Provveditore regionale della Campania e alcuni agenti e funzionari in servizio nel carcere.  

«Le meccaniche di autoconservazione del sistema»

Partendo dal caso di Santa Maria Capua Vetere Romano fa lo sforzo di riportare il lettore ai motivi che hanno permesso l’esercizio della violenza e, in particolare, a soffermarsi su quelle che nel libro vengono chiamate «le meccaniche di autoconservazione del sistema», ossia la capacità, già menzionata, di trovare sempre un nuovo equilibrio di fronte a dei cambiamenti. L’intervento degli agenti nella forma assunta il 6 aprile 2020 è stato possibile, conclude Romano, all’interno di un sistema che tollera la violenza e, anzi, la vede come strumento ordinario di ridefinizione dei confini fra le parti presenti nel penitenziario, sottolineando la mancata denuncia o almeno la presa di posizione da parte del personale carcerario che non fa parte delle forze di polizia, come i medici o gli educatori. Forse proprio questa considerazione può essere un punto di partenza per approfondire la riflessione sul carcere come istituzione e sul suo ruolo nella società, cercando di ricostruire un quadro in cui inserire i singoli avvenimenti, partendo dalle forme assunte dal potere e dalla violenza e dalle loro relazioni in un contesto istituzionale, come suggerisce Dario Stefano Dell’Aquila nella nota che chiude il volume. Un quadro che dovrebbe tenere conto delle consuetudini, delle norme scritte e non scritte, delle costanti e delle usanze che regolano la vita e le relazioni fra le persone che, per diversi motivi, si trovano all’interno dei penitenziari.