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Barbara Balzerani e il richiamo della foresta

Esce in questi giorni il nuovo libro di Barbara Balzerani, “L’ho sempre saputo”, edito da Derive Approdi, un racconto che si dipana tra politica e natura, alla ricerca delle origini della specie umana

Barbara Balzerani, chiamata per anni la “primula rossa” delle Brigate Rosse, la più longeva, arriva con questo lavoro alla sua sesta opera e per noi leggere le sue pagine è anche cercare un segno, un’emozione, che ci racconti qualcosa di quel viso dolce che faceva trasalire i salotti buoni della borghesia italiana e infiammare la rivoluzione degli anni Settanta. E mentre tutti i suoi compagni venivano arrestati, anno dopo anno, lei riusciva sempre a fuggire e contrattaccare mentre il mondo cambiava, e noi giovani ribelli che nascevamo negli anni Ottanta la conoscevamo dalle foto segnaletiche e pensavamo: “Non la prenderanno mai… chissà quali imprese riuscirà ancora a fare”… Invece un giorno la catturarono e furono più di vent’anni di galera per lei. Oggi, nel 2017, laureata in filosofia e poi in antropologia, ci porta in un viaggio, attraverso le tenebre del tempo ci accompagna alle origini della specie umana, alla ricerca degli istinti primordiali perduti, quando l’uomo viveva a contatto con la natura in modo armonioso e organizzava la vita in comunità, con il baratto e la solidarietà. “L’ho sempre saputo” ricorda Il richiamo della foresta nella sua idea di fondo, ma qui non c’è una terra libera dove fuggire dopo aver ritrovato i propri istinti, il lupo di Barbara è imprigionato nel mondo globalizzato e ulula contro il mitico “progresso”.

 

Il racconto si snoda attraverso pagine che sembrano prefigurare un romanzo, poi passano a momenti da testo universitario, si accendono di attacchi contro i responsabili del disastro, per tornare alla dimensione intima di una relazione. Ci troviamo in una cella, dietro sbarre di ferro, Barbara è lì. Come c’è finita? Il primo capitolo allude a battaglie degli anni Sessanta, giornate convulse, picchetti, manifestazioni contro gli Yankees, mani forti che indicano la strada, armi, una stagione di rivolta, non un motivo preciso, ma un sapere da che parte stare primordiale. L’autrice non è sola, insieme a lei c’è una donna, la chiama così, “La donna”, non sappiamo il nome ma conosciamo l’origine sociale: “La donna” appartiene a una terra antica, a un villaggio, una periferia, un mondo di sotto, di sfruttati e depredati, per vivere è diventa corriere internazionale di droga e l’hanno beccata. Oltre alle due protagoniste in cella c’è qualcun altro, una presenza. “La donna” rievoca la sua ultima gravidanza, racconta con una forza travolgente di quando aveva un cucciolo in pancia che nuotava nel liquido amniotico e per nove mesi, mentre il miracolo della vita si compieva e la specie umana si riproduceva, quel corpicino trasmetteva visioni, storie dall’Africa, dalle origini, che scuotono le fondamenta e mettono in discussione “tutto quello che pensavo di sapere”.

I neonati hanno una conoscenza iniziale, una memoria tramandata nel DNA, nei primi giorni di vita sanno camminare ma lo dimenticano subito, hanno l’istinto ad aggrapparsi come se cercassero un ramo, come se sentissero di cadere nel vuoto ricordando il tempo in cui dormivamo sugli alberi. Così, nello stretto della cella, nelle lunghe giornate trascorse insieme, la “donna” confida alla sua compagna le energie dimenticate che le ha trasmesso la pancia, i segnali, le voci che raccontavano di cosa c’era “prima”, quando l’uomo non era contaminato da se stesso. È una trance, un espediente narrativo per dirci in cento pagine che la rivoluzione industriale ha distrutto civiltà che erano sagge e quella saggezza annichilita e dimenticata era importante e senza di lei abbiamo prodotto errori fatali. L’idea occidentale per cui se non hai attraversato la modernità sei un primitivo, intendendo per primitivo un negativo, un arretrato, è stata una rovina. E Barbara si mette in gioco. La via della liberazione è complicata, ci dice, anche quando lei si è giocata tutto, la vita, la sua e quella degli altri, lo ha fatto nell’illusione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato la felicità e che il comunismo era l’ultimo stadio dello sviluppo. Ma forse quell’idea dell’ultimo stadio era impossibile perché “lo sviluppo” è stato una catastrofe, e bisogna tornare al primo stadio, all’inizio dimenticato, per ritrovare ossigeno e speranza rivoluzionaria.