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Avengers Infinity Wars: tra hype e blockbuster

Avengers Infinity Wars fa il suo debutto nei cinema sbancando i botteghini e producendo incassi da record; un film complesso nella sua semplicità che porta il concetto di hype ad un altro livello. Vediamo perché

Il pop non è una cosa semplice, e Avengers Infinity War lo dimostra ancora una volta. L’ultima fatica della Marvel esce nei cinema, sbancando come previsto i botteghini di mezzo mondo: come la postmodernità ha ormai ampiamente dimostrato, pensare di potersi rapportare a questi prodotti dell’industria culturale con un approccio canonico, da critica cinematografica classica, è un buco nell’acqua che non lascia margini d’analisi utili a comprendere la reale portata dei fenomeni in questione. La storia oggetto del film non si discosta molto dai canoni del genere super eroistico, c’è un cattivo principale che vuole distruggere l’universo, un summit intergalattico di eroi radunati allo scopo di fermarlo. Il cattivo sembra vincere, sicuramente perderà ad un certo punto della storia, il come diventa irrilevante, basta che sia spettacolare. Una recensione nel senso classico del termine dovrebbe forse interrogarsi sui difetti della sceneggiatura, sulla bravura degli attori o magari sulla qualità del lavoro del comparto tecnico. Nel caso di Inifinity Wars queste analisi lasciano il tempo che trovano: un film costato (se si considera la seconda parte che ancora deve uscire) un miliardo di dollari, ha il budget sufficiente per permettersi potenzialmente di non sbagliare in nessuno di questi punti; forse l’arte cinematografica è un’altra cosa, ma in questo caso le cifre in campo sono in grado di convincere ogni scettico. Non è cosa di tutti i giorni vedere un blockbuster sotto steroidi mancare il bersaglio. Per tentare quantomeno di dare conto del fenomeno Avengers, e più in generale Marvel, la parola giusta è una sola: hype.

 Hypenon è una parola nuova; nuovo è viceversa il significato che ad essa è stato attribuito negli ultimi anni, principalmente all’interno di quel magma culturale emerso da internet. Hype in inglese vuol dire montatura, un qualcosa che suona più o meno come un mezzo inganno, non proprio una truffa ma potenzialmente tale. La sua trasformazione avviene nel giro di pochi anni, quelli del cosiddetto boom di internet: è una parola che facendosi strada tra i forum di appassionati, nerds, come vengono chiamati ora, compare sempre di più all’interno dei dibattiti pubblici arrivando a penetrare nel mondo della cultura mainstreamdel cinema e della letteratura fino ad acquisire praticamente un valore universale, ubiquo. Per hype si intende, per essere ancora più chiari, un qualcosa al di la da venire che si aspetta con enorme frenesia, spasmodica attesa, qualcosa che viene appunto accompagnato da enormi aspettative. Come già detto in precedenza, non è un meccanismo nuovo: l’esempio (contemporaneo) più datato e forse più famoso, sempre per rimanere in tema geek, è quello della Apple di Steve Jobs. Nel momento in cui Jobs concepisce il Mac non sta vendendo un prodotto ma sta vendendo hype, un’aspettativa enorme intorno ad un oggetto, creata da lui stesso.

Come si collega tutto questo alla saga degli Avengers? Avengers è un prodotto che si regge sull’hype.

Un grande ingranaggio, che ruotando permette il perfetto funzionamento di un meccanismo costato 300milioni di dollari sono di cachet, in grado di guadagnarne almeno il quadruplo nella prima settimana ai botteghini. Questo è il miglior modo di pensare ad un film come Avengers Infinity Wars. Immaginarlo come semplice film è fuorviante, non ne restituisce le enormi complessità. Le storie proposte dalla Marvel nell’arco dell’ultimo decennio sono state in grado di solleticare la fantasia di milioni di persone in tutto il mondo, riuscendo nel compito non così scontato di ricreare un epica vera e propria ad uso e consumo delle masse (come ogni epica che si rispetti). Di più, la Marvel è riuscita a riportare in augetutto un filone rimasto morto e sepolto per più di 30 anni, quello dei super eroi: dopo il boom degli anni ’50 infatti, il fenomeno supereroistico aveva cominciato a perdere colpi già dagli anni ’70, per andare definitivamente a morire negli anni a cavallo fra gli ’80 e i ’90. Nuove forme meno rigide avevano preso il posto dei supereroi, sostituendosi al rassicurante e in un certo senso normalizzante Spiderman di quartiere. Nonostante questa morte in vita, la Marvel è riuscita attraverso i suoi film nel difficilissimo compito, aiutata in questo dalla contemporanea esplosione del fenomeno retromaniae la dello sfruttamento a fini commerciali del fenomeno legato al fandome, a riportare il modello Iron Man a nuova vita. Un lavoro lungo e faticoso non esente da grossi flop, basti pensare al primo Hulk, o in genere alla tiepida accoglienza riservata ai primi film. Tutto questo lavoro costato miliardi di dollari, che ha impiegato migliaia di persone nei più diversi campi, ha portato oggi al prodotto commerciale perfetto di cui parliamo. L’hype può essere di due tipi: volontario e involontario. Il primo si tenta di ricrearlo a tavolino seguendo gli schemi del marketing e l’economia neurocomportamentale; il secondo è quello spontaneo, che si genera da sé all’interno dei fenomeni di massa. Il secondo, nemmeno a dirlo, è quello che paga di più. La Marvel con l’uscita di Avengers Infinity Wars tira la rete a bordo: raccoglie i frutti di almeno 10 anni di lavoro sull’immaginario collettivo. L’ultimo Avengers, in sé per sé, non è altro che un mediocre film sui supereroi, dove succede quello che più o meno ti aspetti durante tutto il film, salvo esserci nel finale il colpo a sorpresa, che nel 98% dei casi coincide sempre con la morte di qualche personaggio importante ai fini della storia. Dove manca qualcosa ci pensano le tonnellate di CGI a riempire i tempi morti; i personaggi non hanno nulla da dire, appaiono semplicemente sullo schermo, per fare la loro comparsata e non è necessario infatti che dicano nulla, il meccanismo dell’hype suona come un’orchestrata e fa provare un brivido di piacere già solo per il fatto di vedere due personaggi appartenenti in teoria a due piani narrativi distinti, incontrarsi, quasi per caso, sullo schermo. Quill e Tony Stark. Non a caso il motore vero e proprio di Avengers Infinity Wars, quello che ha portato le persone a parlarne con entusiasmo, ad attenderlo con ansia già anni prima della sua uscita nelle sale, è il crossover fra le due punte di diamante di casa Marvel: i Guardiani della Galassia, e appunto, gli Avengers. L’evoluzione di questi due franchise simboleggia a pieno la perfetta espressione delle dinamiche tipiche dell’hype utilizzato ai fini dello sfruttamento economico: dietro queste due epopee cinematografiche si nascondono miliardi di investimenti ed enormi quantità di studi di settore, il tutto orchestrato da rampanti consigli d’amministrazione, quotati sulle più importanti borse mondiali. Dall’altro lato questi universi narrativi portano con sé anche un altro tipo di investimento, quello emotivo, empatico ed emozionale, in grado di dar forma e corpo ad un complesso immaginario. Quello che in sostanza la Marvel ha fatto in questi anni è favorire l’ambiente di coltura di questo strano virus che è l’hype, aiutandolo a diffondersi in tutti modi possibili, per poi raccoglierne tranquillamente i frutti alla fine del ciclo.  Non è importante in questo senso che Infinity Wars somigli più ad un grosso episodio pilota di una serie tv che ad un film stand-alone, come non è importante la scarsa incisività dei personaggi; l’hype originato dal crossover può ben reggere su di sé tutti questi nodi irrisolti.

Quindi il cerchio si chiude in questo modo: le persone si sentono coinvolte e fanno quello che si fa quando ci si sente coinvolti, si cerca di coinvolgere altre persone. Le sale cinematografiche registrano il tutto esaurito settimane prima dell’inizio delle programmazioni, le anteprime vengono annullate per paura di leak azzerando le possibilità che qualcosa vada storto; contemporaneamente la voce continua a girare, a spargersi, e non aver visto il film ti pone automaticamente fuori da un certo ambiente (sempre più ampio) di riferimento. Di cosa vuoi parlare se non hai visto il film più atteso degli ultimi trent’anni? Il film candidato ad entrare nel Guinness dei primati come il più costoso della storia? In questa strana forma di domino (e di dominio), le tessere vengono posizionate lasciando che l’eccitazione nell’aria faccia il resto. Alla fine del gioco c’è la forza che fa cadere il primo tassello, il miliardo di dollari d’investimento iniziale, che trascina tutti gli altri con sé nella sua caduta. Per questo motivo Avengers Infinity Wars è candidato ad essere il primo meta-film: un film all’interno del quale la forma divora letteralmente il contenuto, aprendo ad un nuovo modo di concepire il cinema, quanto meno quello d’intrattenimento. A poco valgono le stroncature eminenti dei giornali, Avengers continua a piacere, e soprattuto a fatturare riuscendo ad ammortare l’investimento iniziale in tempi a dir poco record. Il successo di una produzione del genere è trasversale, attraversa tutti gli strati della società senza alcuna difficoltà, incurante delle analisi dei cineasti. Avengers Infinity Wars è così metache può permettersi, caso storico per una saga cinematografica così lunga e dettagliata, di presupporre e richiedere esplicitamente agli spettatori una conoscenza, un background che comprenda almeno una decina di film precedenti. Il meccanismo è così oliato che non nasconde ma anzi evidenzia il fatto che per capire a pieno gli eventi narrati in Avengers Infinity Wars è necessario conoscere bene un’enormità di filoni narrativi diversi, che nell’ultimo capitolo si sovrappongono, senza darne minimamente conto allo spettatore occasionale. Quando l’hype è così forte da sorreggere interamente un film, facendolo diventare un meta-film, come nel caso in questione, ci si può permette di portare nelle sale un film da un miliardo che non è fruibile senza un lavoro da casa da parte dello spettatore. Quando l’hype è così forte ci si può permette un film che per essere tale ne presuppone altri dieci.

Alla luce di questa tendenza sarebbe facile bollare questo film come pura operazione di marketing holliwoodiano, unicamente come puro blockbuster senz’anima. Ma la storia, tanto per cambiare, è un pò più complicata. Avengers, nonostante quanto evidenziato, resta un film in grado di muovere e coinvolgere milioni di persone in tutto il mondo, di far provare emozioni, cosa che in ogni caso non può essere liquidata con facili etichette. Piuttosto potrebbe essere utile tentare di capire  su quale parte del nostro immaginario fa leva tutto questo grande circo itinerante: perché un blockbuster sotto steroidi riesce dove altri non riescono? O meglio ancora, perché riesce a creare forme di coinvolgimento e commozione, nel senso di com-muovere, muovere insieme verso, che ormai risultano difficili anche per ideologie e forme politiche ben più importanti, sedimentate e strutturate? Perché una produzione Marvel stimola le menti dei più giovani più di una militanza politica? Questo è un tema tutto da scoprire, a patto di rifiutare facili semplificazioni, a patto di essere disposti a immergere le mani nel letame. Il pop non è un qualcosa che possa essere analizzato in laboratorio, da fuori, in ambiente sterile, è un qualcosa dentro il quale bisogna immergersi fino al collo, per provare a trarne fuori il significato.

Come dice Agamben a proposito della forma romanzo «esattamente come nei misteri, noi vediamo nei romanzi una vita individuale legarsi a un elemento divino o comunque sovraumano, in modo che le vicende, gli episodi e le ambagi di un’esistenza umana acquistano un significato che li supera e li costituisce in mistero».  Una aspetto fondamentale di questa nuova epica che viene da Hollywood, della quale Marvel è alfiere, è la capacità di raccontare una storia semplice ma che sa coinvolgere: in un’epoca che ha voluto fare a meno della narrazione mitica, di Dei ed Eroi, essi sembrano duri a morire, sembrano rifiutare la loro sorte e tornare sempre più spesso, in modi sempre più inaspettati e a volte anche pericolosi, a reclamare il nostro immaginario. Il fuoco del racconto, ciò che tiene insieme le grandi narrazioni, evidentemente brucia ancora in posti che non avremmo ritenuto possibili. Prendere atto di questo permette di domandarsi nel modo giusto, per provare a capire ancora una volta quale sia la storia da raccontare e in che modo vada raccontata, per evitare che a farlo siano unicamente i Cda delle multinazionali e gli attori di Hollywood.