cult

CULT

Appunti per un pessimismo incondizionato

In “Blackened. Frontiere del pessimismo nel XXI secolo”, Claudio Kulesko e Andrea Cassini mettono al centro del discorso l’arcipelago oscuro formato dalle isole dell’antinatalismo, del promortalismo e dall’ambientalismo, alla ricerca di un pessimismo incondizionato, finalmente scevro di sensi di colpa e sentimentalismi

«Se io fossi Dio, non avrei fatto il mondo così…Però se qualcuno mi domandasse “Allora come lo faresti?”, non mi verrebbe un’idea buona e nuova…»

Con queste desolanti parole, pronunciate da un giovane Elia Ballade, si apre la storia di Eden. It’s An Endless World, manga di Hiroki Endo conclusosi nel 2008. Nell’anno 2100, in un futuro dalle tinte cyberpunk e dilaniato da un’epidemia, la federazione Propater sta cercando di inglobare le varie nazioni mondiali, mentre vari paesi e cellule di resistenza si oppongono a essa in una continua carneficina mondiale. Le città sono ridotte in rovina, o formate perlopiù da slum completamente in mano alla malavita.

Quello di Eden è un arco narrativo corale che si estende per la durata di diversi anni, alternandosi tra le vicende di Elia Ballade, giovane erede di un cartello della droga peruviano, e le discutibili personalità che gli ruotano attorno, in un perpetuo susseguirsi di tragedie e di aspettative fallimentari: ogni minima speranza, o scintilla di ottimismo, viene puntualmente soppressa dal flusso narrativo, che porta gli umani e i cyborg che lo popolano a doversi confrontare con la sofferenza dettata da un universo impassibile alle loro volontà.

Un mondo posto al limite del suo stesso ciclo, dove qualsiasi realtà – economica, sociale, religiosa, ambientale – è diretta verso l’autodistruzione. Un mondo dove Dio è morto da tempo immemore, portando gli umani a cercare nuovi feticci salvifici. Si palesa così la speranza di una nuova esistenza al di fuori del tempo e dello spazio, rappresentata da un’entità semi-artificiale, il Colloide – evoluzione del virus che portò l’umanità sull’orlo dell’estinzione – il quale si propone come soluzione a tutte le sofferenze umane tramite l’assimilazione delle coscienze in un’unica immensa banca dati eterea.

La prospettiva di una non-esistenza, in cui il dolore viene azzerato al costo di un annientamento della persona stessa, è una tematica centrale in molte opere della cultura pop degli ultimi trent’anni.

Basti pensare ad anime quali Neon Genesis Evangelion o a videogames come Nier:Automata per capire come una certa visione pessimistica stia permeando la produzione di opere contemporanee, offrendo al tempo stesso una profonda riflessione sui tempi con cui ci confrontiamo.

Raccogliere queste suggestioni ed esaminarle attraverso uno sguardo lucido e attento alle diverse conseguenze che ne derivano è il grande merito dei saggi di Andrea Cassini e Claudio Kulesko che compongono Blackened. Frontiere del pessimismo nel XXI secolo, uscito recentemente per Aguaplano Libri. Nonostante la varietà degli esempi portati e delle tematiche attraversate, la struttura del libro si fonda sull’intersecarsi di tre grandi nuclei problematici. Che si tratti, infatti, di analizzare la funzione della morte nel black metal; le conseguenze pratiche che derivano dal considerare la natura un superorganismo con tendenze suicide – come teorizzato dal paleontologo Peter Ward nella sua ipotesi di Medea –; o l’atmosfera nichilistica che aleggia nel mondo di NieR: Automata, ciò che viene posto al centro del discorso è l’arcipelago oscuro formato dalle isole dell’antinatalismo, del promortalismo e dall’ambientalismo.

Le diverse configurazioni generate dall’intersecarsi di queste aree tematiche portano a questioni che riecheggiano all’interno dell’intero testo: fino a che punto è possibile spingere l’antinatalismo – ossia la prospettiva filosofica secondo la quale, considerando il forte squilibrio tra piaceri e dolori, sarebbe meglio non essere nati – senza sfociare nel promortalismo, ovvero l’idea che, se ci fosse la possibilità di estinguere, con una sola mossa, l’intera specie umana, questa scelta costituirebbe un dovere morale imprescindibile? In che termini l’idea di un collasso ambientale può sfociare in soluzioni promortaliste? E, a sua volta, in che modo proprio queste risposte estreme permettono di indagare il legame tra antinatalismo e antropocentrismo?

Per dirla con gli stessi autori, «se siamo rassegnati all’idea che la civiltà umana si estinguerà da sola per il collasso climatico in pochi decenni, il pessimista puro non dovrebbe forse accogliere quest’ultimo scenario senza patemi? […] Nelle pieghe dell’intersecazione tra antinatalismo e ambientalismo sembra di cogliere un antropocentrismo ostinato e capriccioso […]».

Matthew Mcconaughey in True Detective

Come si può notare, lo sviluppo di uno dei tre poli, e delle relative domande, conduce con un’insistenza solo parzialmente velata in direzione degli altri due, generando una simbolica circolarità nel pensiero. Se, ad esempio, viene preso come punto di partenza per le analisi l’agentività umana e, con essa, la questione ambientale, è possibile imbattersi nella questione dell’antinatalismo. Quest’ultimo, a sua volta, può trovare come suo eventuale ripiegamento il quesito promortalista.

Allo stesso modo, se al centro della questione viene posto il promortalismo, esso non può non riflettere sui dei presupposti antinatalisti che configurano un’idea della natura nella quale la questione ambientalista può svolgere un ruolo chiave. Va da sé che qualora, diversamente, si prendesse come punto cardine dell’interrogazione l’antinatalismo si sarebbe ricondotti in direzione del medesimo percorso.

Questa circolarità speculativa si mostra ancor più interessante una volta notato che, nel testo, essa non è limitata ai soli contenuti delle tematiche affrontate, ma si espande in direzione della forma stessa attraverso cui queste ultime sono poste. I diversi personaggi concettuali presentati da Kulesko e Cassini non funzionano, infatti, come semplici pretesti per poter affrontare gli argomenti discussi, ma si mostrano essi stessi come delle incarnazioni del medesimo movimento del pensiero che, a partire da uno dei tre poli menzionati, ripete ostinatamente lo stesso tragitto.

Il nichilismo disincantato di Rust Cohle, iconico protagonista della prima stagione di True Detective, o l’atteggiamento cinico caratteristico di BoJack Horseman, si rivelano paradossalmente molto più affini di quanto a prima vista potrebbe sembrare, dal momento in cui li riconosciamo come tentativi di infrangere il loop speculativo dai quali scaturiscono.

Al di là dunque dei mondi in cui sono situati, della differenza di attitudini e di scelte compiute, e del diverso accento posto sull’antinatalismo, sulla questione ambientale e sul promortalismo, i diversi personaggi e argomenti che animano le pagine di Blackened si pongono come gli apparenti movimenti della stessa fenomenologia claustrofobica. Ed è proprio il ripetuto tentativo di fuggire dalla forza centripeta esercitata da tali pensieri a funzionare, a tutti gli effetti, come uno specchio: «Se ci sentiamo vicini a Bojack, sebbene il suo esempio sia dei più indesiderabili, forse è perché ne condividiamo la tensione esistenziale: da una parte il richiamo di nuovi feticci, in un mondo che ha smarrito i suoi dèi, dall’altra il sospiro con cui si accetta l’assurdo».

Non solo, dunque, ogni personaggio porta con sé una diversa sfumatura di tale circolarità, ma pensati collettivamente essi si presentano come i differenti atti della stessa pièce teatrale. Con l’avvertenza, tuttavia, che la sensazione di ripetere costantemente e involontariamente lo stesso pattern non si consuma sotto forma di tragedia, dove si può almeno avere la soddisfazione di sentirsi le vittime di un destino più grande della propria volontà, ma si manifesta come sensazione di incompletezza e insopportabile miseria.

Ciò che questa prospettiva porta con sé è un problema filosofico ben più ampio che è possibile scorgere in ogni capitolo del libro. Ci riferiamo alla paradossalità di tenere assieme un movimento dinamico, un divenire – costituito dall’impressione che vi sia un avanzamento nelle prospettive affrontate, la possibilità di una realizzazione e di una chiusura risolutoria – e, allo stesso tempo, l’idea di un ristagno, di una stasi temporale.

Fotogramma da Bojack Horseman

Ecco che proprio questa singolarità temporale fornisce un punto di vista privilegiato per poter osservare le modalità con cui viene impiegato il termine pessimismo in Blackened: «Si tratterebbe, di fatto, dell’unica dottrina che possa dirsi eterna, poiché fa dell’eternità non il suo traguardo (come la religione), ma il suo fulcro. In questa paradossale dottrina, il divenire entra in un rapporto di stridente ambivalenza con se stesso: da una parte esso è dinamismo infuocato, dall’altra ha tutte le caratteristiche della staticità, apparendo come immortale e immutabile». Si chiarisce così perché, in nuce, nei diversi autori pessimisti sembrano ripetersi costantemente gli stessi iter di pensiero, nonostante l’eterogeneità delle argomentazioni e dei contesti.

Come scrive Luciano Parinetto in Alchimia a Utopia, affrontando la medesima problematica temporale all’interno del sapere alchemico, «l’istante eterno, per chi è nel tempo (locale orizzontale), è un po’ come l’eterno ritorno dell’inconscio junghiano, il quale, per affiorare alla coscienza, deve presentarsi come archetipo, che, se affonda nel remoto arcaico, può tuttavia proiettarsi anche come futuro: è, cioè, concepibile solo se si articola secondo le modalità del tempo orizzontale, quale è esperito dalla coscienza (come chi, inserito in un enorme cerchio, concepisce il breve tratto di linea curva per lui visibile come linea retta)».

In questa stridente congiunzione temporale si annida la sensazione di soffocamento che ha portato a tacciare il pessimismo di manchevolezza, considerandolo alla stregua di un deficit del pensiero, un insieme di conclusioni senza via di scampo da dover arginare quanto più possibile.

In questo senso, il termine “dottrina” stride con l’immagine di pessimismo che risulta dalla lettura di Blackened. Qui, infatti, il pessimismo più che coincidere con un insieme di assiomi, si presenta come un vettore dotato di una forza e di una vitalità propria, una massa nera in grado di inglobare con i suoi movimenti pratiche e aree di sapere fra loro molto diverse. Rispettandone l’autonomia, gli autori non sono interessati a circoscriverlo all’interno di territori concettuali ben delimitati. Al contrario, Kulesko e Cassini seguono con lo sguardo e descrivono le differenti reazioni, e il relativo processo di corrosione, che scaturiscono dal passaggio di questo ingombrante ammasso di pensieri con gli argomenti con cui esso entra in contatto.

Non si tratta, in altre parole, di realizzare un confine, una sorta di teca artificiale atta ad isolare e tenere il pessimismo a debita distanza dall’osservatore, quanto piuttosto di creare un’insenatura al suo interno, correndo tuttavia il rischio di farsi inglobare. Mentre camminiamo sul filo del rasoio, guidati da «una serie di tracce che conducono a un vuoto, a un’oscurità essenziale”, niente ci garantisce che il prossimo passo non ci porterà a “varcare la soglia, annegare in una pozza di catrame», per riprendere quanto scrive Kulesko in Il volo del fantasma, recentemente pubblicato da edizioni volatili.

Ricostruzione museale di un’aquila di Haast al Museum of New Zealand Te Papa Tongarewa

L’equilibrio precario che ne risulta non va tuttavia confuso con un atteggiamento passivo. Se è vero, difatti, che l’intento di Blackened non è quello di distillare concettualmente il pessimismo, non si tratta neppure di proporne una prospettiva inerte, assoggettata. 

Non molto tempo fa qualcuno aveva parlato di estinzionismo attivo, un posizionamento nei confronti della catastrofe nel quale il declino e la rovina divengono nuclei di pura virtualità inumana sovversiva, dove «ciò che veramente importa, ciò che unisce e qualifica la distruzione […] è ciò che l’insurrezione fa, non chi o cosa è. Se l’identità dei nuovi barbari resta misteriosa, il loro operato è cristallino». Similmente in Blackened il pessimismo si mostra nella sua voracità senza limiti, nella sua forza di insinuarsi in nuovi argomenti, all’interno di immaginari e campi di sapere che si ritenevano sicuri, rilevando in controluce l’esistenza di un pessimismo incondizionato, un pessimismo finalmente scevro di sensi di colpa e sentimentalismi:

«Spesso mi coglie la tentazione di forgiarmi un’altra genealogia, di cambiare antenati, di scegliermi fra coloro che, ai loro tempi, hanno saputo spargere il lutto fra le nazioni […]. Sì, nelle mie crisi di fatuità propendo a credermi l’epigono di un’orda illustre per le sue depredazioni, un turanico d’animo, l’erede legittimo delle steppe, l’ultimo mongolo…».

In copertina, fotogramma da Neon Genesis Evangelion