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Ammanettata alla barella

“Già fantasmi prima di morire” di Monica Scaglia (Sensibili alle foglie, 120 pp) sarà presentato oggi, giovedì 28 novembre, alla Casa internazionale delle donne. Il magistrato di sorveglianza ha vietato all’autrice di partecipare all’evento

Svegliarsi di notte e ritrovarsi con gli scarafaggi in bocca. Di tutti gli inferni possibili, questo è il peggiore: essere malati di tumore e detenuti. Anche da liberi, è noto quanto sia difficile curarsi in questo Paese. Diventa una solitaria battaglia per la sopravvivenza quando non si è considerati “persone”. E in carcere non si è più tali. È un abisso che nessuno vuole illuminare, una condizione in cui si trovano migliaia di prigionieri e prigioniere. Prova invece a disvelarlo, e ci riesce, Monica Scaglia nel libro Già fantasmi prima di morire, edito da Sensibili alle foglie con la prefazione di Sandra Berardi, l’introduzione di Domenico Bilotti e la postfazione di Francesca De Carolis. Ideatrice nel 2004 del volume S.O.S. fiabe (Editrice Elena Morea), Scaglia è attualmente in regime di detenzione domiciliare sanitaria.

La legge italiana prevede che un detenuto in condizioni di salute particolarmente gravi può ottenere gli arresti domiciliari o altre misure attenuanti la pena del carcere solo se gli resta da scontare una pena inferiore a quattro anni. I medici in servizio nelle carceri, però, si rifiutano di diagnosticare «condizioni di salute particolarmente gravi». È prassi consolidata. «Non si opporranno mai a una legge» – scrive Monica Scaglia – «piuttosto che andarvi contro si opta per una maggiore concentrazione su un’eventuale relazione di decesso. Le nostre morti sono insabbiate e a maggior ragione, più abbiamo gravi problemi di salute, più i nostri decessi sono facilmente giustificabili. La filosofia dominante dunque è mantenere buoni rapporti con i giudici e non metterli in difficoltà, costi quel che costi».

Monica possiede una scrittura prospettica. L’impiego di registri stilistici differenti, tra fiabesco, epistolare e poetico, crea una dimensione avvolgente che consente una lettura agevole, immedesimata eppur lucida, mai declinante sul patetico. Ne scaturisce una ruvida denuncia impregnata di amore verso la dignità, le relazioni umane, la fede in un Essere superiore che in qualche modo accompagni e condivida le sofferenze degli oppressi. Come in ogni condizione detentiva, la modificazione di coscienza che ne deriva partorisce poesie, fiabe, lettere e richieste di attenzione. Queste rimarranno senza risposta e si perderanno nell’indifferenza, quando non intercettate dalla censura carceraria.

«Qua in Italia se un uomo picchia una donna per strada, la gente si gira dall’altra parte, figuriamoci se interessa a qualcuno la vita dei detenuti malati. Nessuna via d’uscita, per l’Italia tutto deve rimanere così», denuncia l’autrice, annotando come la persona detenuta sia «spinta con forza a regredire, infantilizzarsi». Riecheggiano l’eterna domanda e l’inequivocabile risposta: «A cosa mi è servito il carcere? Ad aprirmi le porte al mondo criminale, mondo che prima non conoscevo, mondo che si estende non solo ai detenuti, ma a criminali ben più pericolosi, quelli legali».

Proprio questo suo rifiuto di subire, di lasciarsi andare, ha reso Monica scomoda, insopportabile per il dispositivo carcerario. Affiora spontaneo il sospetto che questo accanimento nei suoi confronti non sia ancora finito, alla luce del diniego opposto dal magistrato di sorveglianza alla sua richiesta di potersi recare presso la Casa Internazionale delle Donne, a Roma, in via della Lungara 19, dove giovedì 28 alle 18,30 sarà presentato il suo libro. Motivazione: «Non è compatibile con la natura contenitiva della misura». In effetti, a volte, la scrittura è incompatibile con la sottomissione.