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Amalia Signorelli. Il ricordo di un’antropologa impegnata

Due studenti e una professoressa speciale, che lascia un vuoto grande.

«Quando le persone che abbiamo amato e che erano parte viva e vitale del nostro mondo ci sono rapite dalla morte o si allontanano per un evento di separazione che equivale praticamente alla morte, par che non solo dileguino insieme al loro mondo, ma anche con il nostro, ed immane è talora la fatica di superare la crisi del cordoglio, e di ricostruire lentamente un nuovo mondo senza di loro. Finisce un’epoca di libertà e ne comincia una di servitù»

Ernesto De Martino – La fine del mondo

Impossibile non partire dalle parole del suo maestro per descrivere il vuoto che lascia ai suoi allievi e studenti. Chi decide di scrivere queste parole ha avuto l’onore e la fortuna di averla seguita e frequentata negli ultimi quindici anni. Onore e fortuna, ma anche coraggio e determinazione di studenti intimoriti dal suo “temperamento certamente poco disponibile alle negoziazioni”, come lei stessa ha definito in una lettera indirizzata ai componenti del Consiglio della Facoltà di Sociologia e a tutti gli studenti, docenti e personale non docente della Facoltà di Sociologia dell’Università “Federico II” di Napoli, il 13 settembre 2008.

In quella lettera la professoressa Signorelli (nonostante ci avesse più volte chiesto di considerarci amici dopo un rapporto decennale, non siamo mai riusciti a non considerarla la “nostra” professoressa, un punto di riferimento costante, non solo per l’antropologia) spiegò le motivazioni per cui ha rifiutato l’invito a tenere la lectio magistralis per il suo pensionamento. Una cerimonia di congedo in cui si sarebbe sentita estranea, perché estranea le appariva quell’università e il sistema universitario italiano di quest’epoca da un punto di vista scientifico e didattico, a lei che tanto amava l’università.

A Napoli, come in tutto il Paese, il fermento politico, variamente collocato nell’etichetta dell’Onda, sembrava richiamare al presente una mobilitazione e una coscienza politica nel mondo studentesco e la facoltà di sociologia aveva una grossa rappresentanza di sostenitori dei modelli aziendalistici dell’università a cui il movimento si opponeva. Amalia Signorelli decise di sferrare il suo attacco proprio su quel nervo scoperto: dichiarò la sua contrarietà alla riforma, perché profondamente sbagliata o, con una lezione di weberismo applicato, considerata giusta rispetto ad obiettivi che lei riteneva sbagliati.

L’università plasmata sul modello dell’azienda che deve stare sul mercato e dipendente dalle tasse degli studenti e sui finanziamenti privati, avrebbe significato, per le scienze sociali, un «appiattirsi su due ambiti dominanti di ricerca e di formazione: la produzione di ingegneri sociali ovvero degli addetti alla gestione del cosiddetto disagio sociale, con messa a punto di competenze per il riconoscimento dei sintomi (diagnosi) e per la riduzione del danno (terapia), e con una sempre minor attenzione per l’analisi delle cause sociali del disagio stesso; l’altra possibilità è, in collaborazione con le scienze della comunicazione, la produzione di produttori di consenso, che acquisiscono competenze sulle tecniche di produzione del consenso stesso, con scarsa o nessuna problematizzazione dei fini per cui il consenso è richiesto, delle materie su cui è richiesto, da chi è richiesto e chi si deve ottenere che lo dia . Nulla di male, queste sono da tempo le attività di vari professionisti, giornalisti e assistenti sociali: ma chi sarà più in grado di fare l’analisi critica dei sistemi sociali e culturali?».

Insomma, un’università che obbedisce a criteri di mercato, che realizza il progetto neo-libersita di svuotamento dal di dentro della dialettica democratica, con l’eliminazione del dissenso soprattutto attraverso la neutralizzazione dei luoghi dove la critica nasce. Era questa Amalia Signorelli, una delle maestre dell’antropologia italiana che ha sempre mostrato attenzione all’attualità, alla dimensione politica sia nei suoi campi di ricerca sia negli spazi della produzione e della diffusione di un sapere che non ha mai voluto considerare neutrale. Decisa in pubblico, rabbiosa nelle discussioni, severa con gli studenti. Piena di certezze alimentate da dubbi e riflessioni.

Il nostro ricordo è personale, di ragazzi stupiti che questo “mostro sacro” dell’antropologia fosse così interessata a passare il tempo condividendo opinioni ed esperienze con “indigeni” di strada come noi, a cui lei si interessava con una passione mai esotizzante.

La sua lezione ci serve oggi per costruire un orizzonte di deflusso ed elaborazione della crisi del cordoglio, lasciando le sue carni alla terra e mantenendo vivo dentro di noi quello spirito critico che lei alimentò, rafforzò e legittimò.

«Può finire il mondo? […] Certo, il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo. L’uomo non può recitare che questa parte, combattendo di volta in volta, fin quando può, la sua battaglia contro le diverse tentazioni di un finire che non ricomincia più e di un cominciare che non includa la libera assunzione del finire. Il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta».

Ci mancheranno i suoi consigli, le nostre cene, i bicchieri di vino.

A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità.

Buon viaggio professoressa!