cult

CULT

Alla ricerca del battito perduto

“Muro di casse” di Vanni Santoni è un viaggio nell’universo dei “free party” italiani ed europei. Un racconto senza remore, lucido, appassionato dell’affermazione e del declino dei rave parties per come li abbiamo conosciuti. Venerdì 3 luglio, alle 21.30 il libro verrà presentato al Forte Prenestino a Roma.

C’è stato un tempo in cui “il respiro del mostro” batteva il tempo dell’archeologia industriale, omaggio rovesciato, a suo modo epico e solenne, della produzione seriale e massificata dell’epoca fordista. C’è stato un tempo in cui i Kraftwerk morivano e rinascevano a Detroit, Roma la periferia di Londra, le metanfetamine la tavola da surf per guardare oltre il muro dell’ordine costituito. C’è stato un tempo in cui il tempo e lo spazio, riconquistati dai corpi, si misuravano con un ballo ossessivo, singolare e moltitudinario, esperienza sincretica sospesa tra la storia hippy degli anni Sessanta, il no future punk dei Settanta, la sovversione rizomatica e autonoma degli Ottanta e Novanta.

Quando il millennio annuncia la fine, la modernità salta in aria, quando la vita coincide con la produzione, quando le frontiere sfumano e i confini rinascono, quando il futuro non è più quello di una volta, quando tutte le note sono state suonate, quando i sacerdoti della rivoluzione si ritrovano a parlare da pulpiti immaginari, quando la Rete diventa un habitat naturale e non più un mezzo di comunicazione, quando le parole si perdono tra le fosse di Sebrenica: in quel punto esatto nasce una trama sonora che rimastica e sputa i riti ancestrali, i tamburi di guerra, le presse di Chicago e Rivalta, la riproducibilità tecnica di Benjamin, l’assalto al palco di Lama, i centri sociali occupati e autogestiti, il rimmel di Lou Reed e la disseminazione del potere di Hakem Bay, la rivolta queer, le nuove droghe sintetiche e le carovane degli zingari.

Il palcoscenico viene spazzato insieme ai personalismi e le pose d’autore, la musica diventa rito collettivo senza barriere, esperienza di tutti e per tutti. Il muro di casse un totem pagano, il dj un officiante anonimo, il ballo un’espressione comune ma non indistinta.

“Muro di casse” di Vanni Santoni (Laterza-Solaris, pp 133) è un viaggio precario ma potente, in prima persona, su questo crinale, nel ciclo alto dei “free party” italiani ed europei, nelle sue ricchezze culturali, estetiche e politiche, nelle sue contraddizioni, nei suoi baratri esistenziali e collettivi, nella sua fine(?) e nelle sue possibili trasformazioni. Nessuna autocelebrazione e nessuna (auto)censura, ma l’urgenza politica di afferrare il toro per le corna, per fare i conti con la potenza e la miseria di quella storia che ha segnato l’identità meticcia della generazione di fine millennio.

Per costruire il suo viaggio narrativo, sospeso tra romanzo e elementi storici reali (o verosimili), Santoni utilizza una triplice chiave biografica, che rispecchia un ventaglio ben rappresentativo dei modi di vivere le “feste”: occasionale, fidelizzato, politico. Uno strumento espressivo in grado di restituire tutta la forza, la passione, i sentimenti, l’intelligenza, gli errori e le ingenuità dei diversi protagonisti. Un viaggio che ridisegna la geografia e i territori, che mescola la provincia toscana all’hinterland milanese, le periferie francesi alle valli della Repubblica Ceca.

La scoperta dei suoni senza parole, l’emancipazione dalla dittatura della disco ma anche dalle liturgie militanti, la ricerca di un tempo fuori dal perimetro del lavoro, la reinvenzione collettiva delle mappe urbane senza alcuna illusione progressista. Le droghe come passepartout di relazioni desideranti, la provincia come estensione metropolitana, la follia materiale di una Taz nei Balcani insanguinati. Ma anche la microfisica quotidiana della sopravvivenza, il dettaglio dello stile estetico da combattimento. Tutto questo si respira nel libro di Santoni grazie a un punto di vista che non cede (quasi) mai alla retorica, che passa in rassegna, senza soluzione di continuità, capannoni abbandonati, cattedrali dismesse del consumo e valli sperdute, crew seminali e lampi notturni, divise di ordinanza e tute folgoranti, slanci generosi e opportunismi senza fondo, carovane verso l’est e riflussi stanziali, manifesti programmatici e policonsumo estremo come se non ci fosse un domani.

>Una cartografia mutante, apolide, senza stato, che balla sull’orlo del disastro flirtando con gli incubi peggiori e le passioni più radiose. Che tenta di rovesciare la falsa promessa della galera luccicante e infiocchetata del sabato sera, per liberarla e farla tracimare nella domenica e nei giorni senza calendario, verso un altro viaggio, un’altra città, un’altra vita.

Il racconto di Santoni affronta senza remore il deposito e il declino di questa storia, il cui picco viene individuato negli ultimi anni zero. Possiamo scorgere, all’ingrosso, quattro traiettorie: le politiche repressive nazionali ed europee che criminalizzano senza via d’uscita i free party; l’occupazione mafiosa dei circuiti di distribuzione e consumo delle sostanze (sempre più aggressivo e competitivo), di pari passo con lo smarrimento dello spirito solidale e cooperativo dell’evento; il riposizionamento “commerciale” e “istituzionale” di tante crew davanti alla sfida (vera, aperta e incompiuta) dell’autorganizzazione produttiva e dell’autoreddito; la cannibalizzazione e il recupero in chiave mercantile dell’immaginario, della produzione culturale e degli eventi legati ai free party.

Su questo piano ambivalente si afferma la scena dei mega festival, soprattutto psy-trance. Proprio come le forme di vita creative, mutualistiche e antagoniste della metropoli vengono attaccate dai processi della rendita immobiliare e finanziaria, così anche il terreno artistico viene saccheggiato dalla gentrificazione neoliberista, con la creazione di brand accattivanti che riproducono e valorizzano – sotto forma di simulacro, neutralizzando ogni forma dal conflitto – un modello di fruizione normato, ideologico, a pagamento. Con la pericolosa rilegittimazione del rapporto gerarchico tra artista e pubblico e l’esproprio della dimensione comune della produzione culturale nel “talento” proprietario e individuale. Insomma, lo stesso effetto irritante di una boutique di lusso bio e solidale nel cuore del Pigneto.

La scommessa (forse) è persa quando il desiderio si trasforma in consumo senza passare dal via, quando si abbandona l’ambizione di un discorso e di uno spazio pubblico, quando si crede alla fuga solitaria e agli esodi esistenziali, alle alternative in affitto, alla ricerca di un “fuori” impossibile nel bio-capitalismo di guerra; quando si rimuovono i nodi delle passioni di vita e di morte (come le droghe), retrocedendoli a questioni private e sublimandole in una sorta di Scientology al ritmo di bpm consolatori.

Senza parola, senza conflitto, senza territorio, senza corpo e senza liberazione, rischiamo di ritrovarci nei corridoi rassicuranti di una Ikea dell’elettronica.

Di tutto questo e di altro proveremo a discutere con l’autore e tanti ospiti venerdi 3 luglio, alle 21,30, al Forte Prenestino di Roma.