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A lezione da Valerio

È il 21 marzo del 2004. Roma, stadio Olimpico. La partita che tutta la città aspetta. Il derby, Roma-Lazio. Un incontro che vale la stagione.

Fuori dallo stadio, come da rito, si accendono pesanti scontri con le forze dell’ordine. Chi c’era racconta di camionette impazzite, cariche indiscriminate e pestaggi violentissimi. I giornali e le veline delle questure parlano di un “patto tra le due tifoserie per colpire polizia e carabinieri”. Poi, in mezzo ai fumogeni e ai cassonetti incendiati, un voce inizia a strisciare, incontrollata, dall’antistadio agli spalti. “La polizia ha ucciso un bambino”. È falsa ma del tutto verosimile. Così verosimile da provocare la richiesta della sospensione della partita. I tifosi dell’Olimpico riescono a imporre questa decisione alle società, al circo televisivo, al questore: niente da fare, vox populi vox dei, non si gioca.

Valerio Marchi, era un sociologo di strada e uno storico delle sottoculture. Aveva ricostruito il filo rosso del conflitto giovanile, rimesso in ordine i tasselli della rabbia metropolitana, scritto la storia del “nazi-rock”, come caso emblematico del rapporto parassitario e ambiguo che la destra radicale intrattiene con la cultura di massa e popolare. Con la sua penna aveva indagato a fondo la galassia neonazista, senza cedere a stereotipi e ideologie spicce. Senza semplicismi e senza perdere la testa di fronte ad emergenze e allarmi. Era stato lui a spiegarci che l’operazione dei partitini dell’estrema destra nelle curve degli stadi non era riuscita. “Si usano simboli e codici di destra, ma nella stragrande maggioranza dei casi nessun ultrà ha mai accettato di diventare militante di questa o quell’organizzazione, come speravano i capetti che avevano provato a infiltrarsi”, diceva

Per questa sua capacità di andare al cuore delle questioni, quel 21 marzo del 2004, Valerio sapeva che le leggende metropolitane e i “rumors” non si diffondono casualmente. Chiunque segua i fatti sociali senza dogmi metodologici o paraocchi ideologici dovrebbe fregarsi le mani ogni volta che una leggenda gli si presenta. Perché ogni “voce” è un prezioso indizio per decodificare la realtà che ci circonda, per tirare un filo dalle miriadi di narrazioni dell’infosfera. Le leggende metropolitane sono un antidoto alle paure che emergono in tempi di incertezza sociale, svolgono la funzione di risposte “rituali” a particolari situazioni di ansietà.

Quel giorno, il giorno del bambino morto, Valerio drizza le antenne. E, a partire dalla leggenda che si sparge in un attimo ricostruisce il rapporto tra ultras e forze dell’ordine in Italia. ” I tifosi producono una cultura incomprensibile per l’autorità costituita e per il suo braccio armato. Il tifoso è per definizione imprevedibile, eversivo, selvaggio”, diceva sempre Valerio al militante di sinistra che lo andava a trovare e cercava aiuto per capire quanto accadeva dentro gli stadi. “Nelle proprie caratteristiche principali, la cultura ultrà si manifesta come un movimento di resistenza contro due processi sociali: quello del progressivo controllo politico dei comportamenti e quello di mercificazione del football, inteso non come puro gioco ma come luogo sociale in cui si concentrano interessi e conflitti di natura sia economica che culturale – scriveva Valerio – In questo contesto, risulta evidente come l’interazione tra l’agire sociale e l’agire “di curva” finisca per rappresentare un rapporto di scambio politico bidirezionale, basti pensare alla contaminazione tra i linguaggi delle curve e quelli, ad esempio, dei cortei”.

Ma il tifoso è anche il “folk devil” da additare nei titoli dei telegiornali. Il mostro da mettere alla gogna. Il ribelle senza causa da far passare per i “tornelli”. Empiricamente, sosteneva Valerio, a furia di botte prese e date, sulla scia di consuetudini e tattiche, è nata una dialettica, pure se conflittuale, sul filo del rasoio e sempre sull’orlo dello scontro, tra forze dell’ordine e militanti dei movimenti radicali metropolitani. Una sorta di riconoscimento, in senso letterale.

Non è stato così per gli ultras, che non sono necessariamente “antagonisti”, ma sicuramente sono indecifrabili. Utilizzano forme organizzative e linguaggi sconosciuti al potere. Agiscono in un contesto, le partite di calcio, che viene snobbato dalla sinistra. Per la destra, invece, lo sport è solo è un’azienda. “Per queste ragioni, le curve degli stadi diventano la palestra delle repressione”, diceva ancora Valerio, ben prima che Genova 2001 ci mostrasse quanto anni di pestaggi negli stadi di tutt’Italia servissero a elaborare un salto di qualità nel rapporto tra polizia e dissenso. Perché di fronte alla pubblica opinione, non è difficile giustificare qualsiasi trattamento riservato al popolo degli stadi. Così, quando i movimenti diventano “associazioni sovversive”, quando gli occupanti dei centri sociali diventano “squatter”, quando i consumatori di droghe diventano “spacciatori”, quando i migranti diventano “clandestini”, quando lo sciopero diventa “selvaggio”, stiamo per assistere alla creazione di un nemico collettivo. Tutte le volte che un soggetto collettivo diventa scomodo, lo attende il tritacarne di opinionisti, politici e uomini d’ordine e si produce il meccanismo che da anni mette in un angolo gli ultras.

Valerio Marchi ha avuto il merito, tra i tanti, di mettere in evidenza questo fenomeno, miscelando la passione dell’ultras con il metodo del ricercatore sociale. Il suo sguardo era fondamentale per sfuggire alle logiche perverse del calcio televisivo e ai moralismi dell’italocucci di turno.

Adesso che se n’è andato, non lo incontrerò più al pub Bouledogue di via dei Volsci (dove pure si faceva vedere sempre più raramente dopo essersi trasferito a Polignano, in Puglia), con la pinta in mano. Non ci rimane altro che rileggere i suoi scritti e cercare di imparare la lezione che il suo percorso politico e intellettuale originale e rigoroso ci ha consegnato. Ciao, Valerio.