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ITALIA

A 50 anni dalla Strage di Piazza della Loggia

Tra le ombre dell’estrema destra bresciana, si ripercorre la vicenda di un capitolo oscuro della storia italiana. Attraverso testimonianze e indagini, emerge un quadro di collusioni tra estrema destra, servizi segreti e organizzazioni internazionali

Una storia di “gelidi mostri”

Questa storia inizia con un uomo. Il suo nome è Ermanno Buzzi, classe 1939, ladro e trafficante di opere d’arte noto nell’ambiente dell’estrema destra bresciana. Ermanno è un uomo eccentrico al limite dell’ossessivo che vive nel culto del nazismo. Sul polso ha tatuate le rune delle SS e veste spesso le divise militari tedesche della Seconda guerra mondiale. Oltre a questo, Buzzi si pensa un aristocratico al punto d’acquistare un falso titolo nobiliare per cui decide di farsi chiamare “Conte di Blancherie”. E scrive molto, precisamente su “Avanguardia Nazionale”, nota testata giornalistica di estrema destra, firmandosi “Hermirman Buzzi”, la germanizzazione del suo nome. Per i neofascisti di Brescia però, Ermanno Buzzi è un personaggio ambiguo. Nel giro di quelli che contano, qualcuno pensa che sia un “adescatore di ragazzini” e per questo, hanno deciso di tagliarlo fuori. Forse è una scusa, forse no. A ogni modo, dopo il 28 maggio 1974 a 50 anni dalla Strage di Piazza della Loggia, la vita di Ermanno cambia per sempre.

Durante il primo processo per la Strage di Brescia infatti, Buzzi viene accusato da un altro imputato di «aver messo 6 bombe in Piazza Loggia». A fronte dell’accusa di aver provocato la morte di 8 persone e il ferimento di più di cento, nel 1979, viene dichiarato colpevole e prende l’ergastolo. Tuttavia, il processo prosegue e l’imputazione cade dopo soli tre anni, nel 1982. Così, Ermanno si ritrova completamente assolto. In teoria, dovrebbe uscire di prigione, peccato che sia già morto da 11 mesi. Assassinato in carcere da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli, due neofascisti di Ordine nuovo, che decidono di strangolarlo e di sfondargli gli occhi a mani nude. È il 13 aprile 1981. Ermanno era entrato in carcere soltanto due giorni prima, l’11.

Risulta evidente. L’esecuzione in carcere di “Hermirman Buzzi” è un messaggio rivolto a chiunque sappia qualcosa che riguardi i fatti di Brescia di sette anni prima. La firma dell’omicidio, impressa a carboncino sul muro del carcere di Novara da Tuti, è lapidaria. «Buzzi, Buzzi, sento odore di infamuzzi. O ce n’è, o ce n’è stati, o ce n’è di strangolati». Traduzione: chi, come Ermanno Buzzi, parla con la magistratura a proposito della Strage di Brescia, muore.

A dire il vero, Buzzi non è neanche il primo camerata a morire “attorno” alla Strage di Piazza Loggia. Prima di lui, Silvio Ferrari, altro giovane esponente di Ordine nuovo, muore addirittura prima dello scoppio della bomba. Tra l’altro, in un modo da scatenare fin da subito una montagna di sospetti, a oggi ancora parzialmente irrisolti.

Siamo ancora a Brescia. Il tutto accade mentre Silvio sta trasportando dell’esplosivo, una combinazione di polvere da sparo e tritolo, in pieno centro città. La notte è quella del 19 maggio 1974, precisamente nove giorni prima della Strage. Silvio si trova in via IV Novembre, quasi all’altezza di Piazza Mercato. È in sella alla Vespa 125 Primavera di suo fratello, Mauro, che gliel’ha data in prestito per l’operazione.

Quella notte infatti, Silvio e altri neofascisti hanno deciso di far saltare in aria la sede della Cisl. Lo scoppio è previsto per le 4:00. Tuttavia, il piano fallisce perché un’ora prima, alle 3:05 precise, l’ordigno che il ragazzo trasporta sotto la sella della Vespa, scoppia dilaniandolo. L’incidente finisce per costargli la vita. Poco lontano dal corpo, viene ritrovata anche la sua Beretta calibro 7.65 con caricatore e colpo in canna. Gli investigatori accorsi sul posto, non possono che riconoscerlo da quella.

Ma per gli ordinovisti non è finita qua, perché è una notte particolare quella del 19 maggio 1974.

La stessa notte infatti, poco dopo l’esplosione che uccide Ferrari, un’Alfa con all’interno quattro persone fa una serie di sbandate e si schianta a forte velocità contro un muro di via Milano. Il botto è tremendo. Il pilota, Carlo Valtorta, quarantunenne neofascista di Cassano d’Adda, muore sul colpo. All’interno dell’abitacolo, la polizia trova due coltelli, un secchio di vernice nera, pennelli, manifesti del Msi.

Prima della bomba, un’altra bomba e un funerale

La domanda sorge spontanea: l’incidente di via Milano e l’esplosione in piazza Mercato sono collegate? Forse sì. Soprattutto se si considera che le uniche piste mai percorse dall’inchiesta sulla morte di Silvio Ferrari, direttamente sostenute da decine di interrogatori, sono soltanto due: o il ragazzo è morto per sua stessa disattenzione oppure la ragione è un’altra, ben più fosca. Chi fornisce una possibile ragione per svelare il motivo di questa morte è, ad esempio, il fratello Mauro, che durante un interrogatorio nel 1975, non si limita a ipotizzare ma fa addirittura nomi e cognomi. Tra l’altro, le sue parole provengono dal carcere di Rovigo, perché nel processo di Piazza Loggia, ci finisce pure lui, il proprietario della Vespa 125. E non sono parole, sono proiettili.

A sentire il fratello, Silvio sarebbe stato ucciso. Più correttamente, assassinato per farlo tacere. Ma da chi? Non lo sa. Però sul mandante, Mauro non ha dubbi: è Nando Ferrari (stesso cognome, nessuna parentela). Altro neofascista bresciano che entra ed esce dalle prime inchieste sulla Strage con una facilità strabiliante. E se Mauro dice che è lui, Nando, il mandante dell’inside job per ammazzare suo fratello, c’è il suo perché.

Nando Ferrari è un neofascista che frequenta la zona del Lago di Garda. Amante della bella vita, acculturato. La sua posizione all’interno dell’organizzazione Ordine nuovo, è senza dubbio di rilievo. L’uomo tiene contatti a Milano e soprattutto a Verona, da cui prende anche ordini. Che Nando, ovviamente, esegue. Ma nella zona del Lago invece, è Nando che prende decisioni. Tra cui, forse, anche quella di eliminare il Ferrari, diventato scomodo. Lo avrebbe fatto consegnando lui stesso l’ordigno fatale a Silvio. Diversi testimoni lo confermano. Precisamente il pomeriggio del 18 maggio, dopo un’ultima riunione organizzativa in centro a Brescia. Nando sarebbe stato visto con Silvio all’interno di un ristorante, l’Ariston. Ma non basta. Ad accusare Nando Ferrari non è solo Mauro ma anche Patrizia. Patrizia Truzzi, ragazza della “Brescia bene” che frequenta assiduamente Silvio e Nando. Tra l’altro, proprio il giorno stesso dell’esplosione di via IV Novembre.

Esattamente il 19 maggio infatti, insieme ad altri amici e amiche, Silvio, Nando e Patrizia trascorrono la giornata sul lago di Garda. Nella villa di un’amica, Sofia, che abita a San Felice del Benaco. Poi, quella notte, l’esplosione che uccide Silvio. Rispetto al suo possibile omicidio, la deposizione di Patrizia Truzzi è tanto netta quanto definitiva: «Nando mi confidò che Silvio sapeva troppe cose […] e che per questo, quelli del suo giro lo avevano eliminato dandogli una bomba difettata per toglierlo di mezzo».

Il giorno del funerale di Silvio, che si svolge tre giorni dopo l’esplosione in via IV Novembre, alla sede del “Giornale di Brescia”, arriva una lettera firmata “Partito Nazionale Fascista – Sez. di Brescia – Silvio Ferrari” contenente altre minacce di attentati in città. L’autore materiale della lettera minatoria (come si scoprirà in seguito) è ancora lui, il “nazista himmleriano”, Ermanno Buzzi.

Non è tutto. Sempre il 21 maggio, poco dopo la fine dei funerali di Silvio Ferrari, vicino a piazza Mercato scoppiano scontri che durano diverse ore.

Il Movimento studentesco presidia tutta la zona del centro dalla mattina. Suddiviso in piccoli gruppi, controlla anche le vie d’accesso a piazza Mercato. Da sotto le giacche dei gruppetti, spuntano bastoni, mazze, spranghe di ferro. Probabilmente anche qualche pistola. È tutto pronto.

I neofascisti arrivano da via X Giornate. Tra la massa indistinta spicca un folto gruppo di veronesi. Li si riconosce perché portano, in prima fila, una corona di fiori con disegnata un’ascia bipenne bianca. È il simbolo di Ordine nuovo, ufficialmente disciolto a novembre dell’anno precedente. Dopo gli scontri, di questi veronesi la polizia ne arresta cinque. Tra le cose sequestrate: una pistola calibro 22, 150 munizioni, una scure, un piccone. Gli scontri proseguono per ore. Per un pomeriggio intero, il centro di Brescia è in fiamme. La morte di Silvio Ferrari ha trasformato la città in un vero e proprio campo di battaglia.

Nuove testimonianze, vecchie verità

Quasi cinquant’anni dopo quel funerale, nel 2022, il nome di Silvio rientra nel processo di Piazza Loggia dalla finestra. Lo fa attraverso la testimonianza di un’informatrice che aggiunge all’inchiesta elementi centrali per la ricostruzione degli avvenimenti precedenti alla Strage. La fonte si chiama Ombretta Giacomazzi ed è la fidanzata di Silvio.

In quegli anni infatti, Ombretta afferma di frequentare regolarmente il ragazzo morto nell’esplosione di via IV Novembre. Con lui, assieme ad altri giovani neofascisti, Ombretta partecipa alle riunioni di Ordine nuovo. Riunioni alle quali partecipano anche esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti. Poi, viene citato anche il Comando Nato di Verona, riconosciuto e descritto nei minimi dettagli.

Nello schema della Strage, il Comando Nato di Verona, attivo in Italia dal 1951 al 2004, fornisce supporto tecnico-logistico ai neofascisti veronesi e bresciani. Uno dei luoghi predisposti a questi incontri tra Nato, servizi segreti e neofascisti, è Palazzo Carli a Verona, all’epoca sede del comando Ftase, dove elementi come Silvio Ferrari hanno facile accesso e contatti con alti ufficiali.

È questo il cosiddetto terzo livello al quale avrebbero avuto accesso elementi dell’eversione nera e personaggi coinvolti nell’attentato del 1974. L’obiettivo, per gli uomini del Patto Atlantico, è quello di fermare l’avanzata del marxismo comunista e d’imporre, in Italia, una nuova dittatura di estrema destra. Il pretesto invece, è direttamente fornito dal tentativo di repressione dei movimenti sindacali degli anni Settanta. La guerra coi rossi.

La ricostruzione che emerge da queste nuove informazioni, aggiunge un altro tassello a un quadro generale già sospettato fin dall’inizio; ovvero quello dei tre livelli sovrapposti, dove neofascismo, servizi segreti e Nato, vanno a occupare i rispettivi gradi di responsabilità nella Strage

Per adesso, le condanne sono arrivate solo per il primo, quello eversivo. La sentenza è del 2017. Chi la emette è la Corte di Cassazione che condanna all’ergastolo sia Carlo Maria Maggi che l’altro imputato, Maurizio Tramonte.

Secondo quanto si legge nella sentenza del 20 giugno 2017, a ordinare la bomba di Piazza Loggia è Maggi, classe 1934, medico di base veneziano e capo di Ordine nuovo del Triveneto. Tramonte invece, è il contatto dei servizi segreti. La cosiddetta “fonte Tritone”.

Nelle parole dei giudici, è Tramonte l’uomo che, informato dei fatti, facilita lo schema che porterà alla Strage ordinovista. Secondo quanto dichiarato in sede processuale infatti, lui, classe 1952, non è soltanto un semplice militante di Ordine nuovo, ma l’infiltrato del Sid, i servizi segreti italiani, all’interno della cellula veneta. “Tritone”, appunto.

Il resto della storia di questi due condannati, è risaputa. Maggi non sconterà un singolo giorno di carcere perché muore il giorno di Natale dell’anno successivo. Tramonte invece, dopo un breve tentativo di fuga in Portogallo, viene arrestato ed estradato in Italia. Al momento, l’ex-infiltrato del Sid, dopo un periodo a Rebibbia, sta scontando la pena nel carcere di Fossombrone, nelle Marche. 

Primo livello, eversione nera. Secondo livello, apparati dello Stato. Terzo livello, il Comando Nato. La stratificazione che organizza e compie l’attentato di Piazza Loggia, prende forma. Andando a comporsi di nomi e luoghi che erano, in realtà, già parzialmente emersi. Soprattutto durante la terza istruttoria del 1984 e la quarta del 1986.

In realtà, niente di nuovo: che qualcosa leghi la Strage di Piazza Loggia agli apparati dello Stato, è un fatto che risulta chiaro fin dalle prime ore dallo scoppio della bomba. Sarebbe questo il caso dell’ordine impartito dal vicequestore, Aniello Damare, ai pompieri intervenuti poco dopo l’esplosione, di ripulire frettolosamente la Piazza con le autopompe. Di fatto, cancellando volontariamente prove e indizi fondamentali per le indagini sulla Strage. Stesso discorso per la misteriosa evaporazione dei reperti dell’esplosione, estratti dai corpi delle vittime, scomparsi dopo le autopsie e mai più rivisti.

Durante i processi per la Strage di Brescia però, non spariscono solo reperti ma anche persone. È questo il caso di Ugo Bonati, “superteste” del primo processo (quello che porterà Ermanno Buzzi in carcere) che nel passare da testimone ad accusato nel processo del 1980, sparisce letteralmente nel nulla.

A oggi, Bonati risulta ancora scomparso mentre sono tanti a sostenere che sia stato fatto scappare. O peggio, sia stato eliminato per non farlo parlare. A proposito di cosa? Ad esempio, dei primi depistaggi e delle prime inchieste, di cui Bonati sarebbe stato prima l’artefice, poi solo il capro espiatorio.

In tal senso, le parole del giudice Giampaolo Zorzi, risultano tombali. Il meccanismo che descrive il magistrato nelle conclusioni del processo iniziato nel 1986, «fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo».

Il giudice bresciano si sta riferendo al secondo livello, quello che ad esempio, interviene in Piazza appena dopo la Strage oppure fa sparire Bonati. Il livello “intermedio” dei servizi segreti, delle forze armate e degli uomini dello Stato che rientreranno anche loro nel processo. Precisamente nel quinto, quello iniziato nel 1993, che chiede l’arresto, oltre a Maggi e Tramonte, di Delfo Zorzi, altro ordinovista bresciano ormai scappato in Giappone. Di Pino Rauti, segretario del Msi. Del collaboratore del Ministero dell’interno, Giovanni Maifredi detto “il Genovese”. Infine, del generale dei Carabinieri, Francesco Delfino. Quest’ultimo direttamente collegato dagli stessi neofascisti di Ordine nuovo, proprio all’uomo con cui abbiamo iniziato questa storia, Ermanno Buzzi. A quanto pare, il Conte di Blancheriesarebbe stato uno dei suoi confidenti. Quando? E riguardo a cosa? L’esecuzione in carcere di Buzzi toglie qualsiasi possibilità d’avere risposta.

Tuttavia, qualcosa che da Buzzi porta a Delfino c’è. Ed è clamorosa. All’epoca del primo processo infatti, chi indica come colpevole della Strage Buzzi è anche Delfino che, in quanto capitano del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, svolge una parte importante delle investigazioni sulla Strage. Insomma, in questa storia passare da inquirente a imputato, non è affatto impossibile. Anzi.

Detto questo, il procedimento giudiziario iniziato nel 1993 e terminato nel 2008, porterà ad un sostanziale nulla di fatto. Alla fine, nessuno degli arresti porterà a una singola condanna: tutti rinviati a giudizio. Perlomeno fino al 2017, quando in Cassazione arriverà la conferma dell’ergastolo ma – come abbiamo già detto – solo per Maggi e Tramonte.

Una fine che non è davvero una fine

Arriviamo al 2023, l’anno scorso, e cerchiamo di ricapitolare. Maggi ordina, Tramonte facilita la bomba. Rimane da sapere chi la mette, la manovalanza. Rispetto agli esecutori materiali della Strage, la nuova fonte determinante è Giampaolo Stimamiglio, testimone-chiave dell’accusa attuale. Padovano, ex-Ordine Nuovo poi passato alla V Legione. Stimamiglio durante gli anni Settanta è un neofascista convinto, fa parte dei Nuclei di Difesa dello Stato. La sua testimonianza proviene dunque dall’interno dell’organizzazione neofascista Ordine nuovo, ramo Nord-est. E tira in ballo altri veneti come lui, ma non padovani. Veronesi.

Secondo Stimamiglio, chi mette la bomba è Marco Toffaloni, all’epoca diciassettenne. Gliel’ha detto proprio lui, vent’anni prima in un motel. Seduti uno di fronte all’altro, Stimamiglio afferma di aver sentito Toffaloni dire: «Anche a Bresa gh’ero mi! Piazza della Loggia? Son sta mi!». Per poi aggiungere: «x’era anca Roberto».

Il neofascista si riferisce a Roberto Zorzi, un altro veronese sempre di Ordine nuovo, complice dell’esecuzione materiale della Strage. Attualmente Zorzi, risulta rinviato a giudizio. Nel mentre, vive negli USA dove possiede un allevamento di cani che si chiama “Littorio”. Marco Toffaloni invece, è cittadino svizzero e vive in Svizzera. Ha cambiato nome, ora si chiama Franco Maria Muller, anche se quando era un liceale a Verona nel 1974, tutti lo chiamavano Tomaten. “Pomodoro”, per le guance rosse. Le stesse che vengono immortalate in una fotografia scattata proprio quella mattina, in Piazza della Loggia, a pochi passi dal luogo dell’esplosione.

La consulenza antropometrica conferma: nella foto c’è lui, Toffaloni diciassettenne. A pochi metri dalla Strage, intento a osservare in prima persona gli effetti della bomba, piazzata poco prima. Per il nuovo processo, ovviamente, la fotografia è un vero e proprio terremoto: uno degli esecutori materiali, la mattina del 28 maggio, si troverebbe esattamente sul luogo della Strage.

Breve bibliografia

AA.VV., 28 maggio 1974. Strage fascista a Brescia, Edizioni Movimento Studentesco, 1974.

Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage, Einaudi, 2019.

Bettin Gianfranco e Dianese Maurizio, La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia, Feltrinelli, 2023.

Chiara Onger, Il colore della pioggia: Piazza Loggia, storie ai margini di una strage, Liberedizioni, 2014.

Ferrari Saverio, Le stragi di Stato, Collana Omissis, 2006.

Francesco Barilli e Matteo Fenoglio, Misteri d’Italia a fumetti: Piazza della Loggia, Becco Giallo, 2018.

Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, Rizzoli, 2008.

Paolo Barbieri, La morte a Brescia. 28 maggio 1974: storia di una strage fascista, Red Star Press, 2019. Pino Casamassima, Piazza Loggia, Sperling & Kupfer, 2014


Immagine di copertina da
Wikimedia Commons

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