approfondimenti

OPINIONI

20 tesi sull’apocalisse climatica

La catastrofe ambientale, oltre a essere uno dei problemi più urgenti da affrontare a livello globale, è innanzitutto un fenomeno che rivela l’insostenibilità e la violenza del sistema capitalistico

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“Apocalisse”, che in italiano significa “catastrofe”, in greco significava “rivelazione”. Era il titolo del libro conclusivo della Bibbia, in cui il vecchio San Giovanni, che aveva conosciuto Gesù da bambino, racconta la sua visione psichedelica (10, 9-11) di come andrà a finire la Storia, caratterizzata da inaudite catastrofi, tra cui canicole (16, 8), guerre (6,4), pandemie (16, 3), precipitazioni estreme (16, 21), prosciugamento di fiumi (16, 12), estinzione totale della fauna ittica (16, 3), incendi che distruggono un terzo delle foreste (8, 7), avvelenamenti di massa (8, 9) e invasioni di locuste (9, 3). La catastrofe climatica, sanitaria e ambientale che stiamo vivendo noi oggi, prodotta dal nostro modo di vita, di produzione e di consumo, è, reciprocamente, la rivelazione del fatto che questo modo di vita ha fatto il suo tempo, non è più sostenibile e va superato.

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L’insieme dei fenomeni che possiamo osservare (pandemia, canicole, inondazioni, siccità, incendi, uragani, estinzioni di massa, inquinamento) sono tutti intrecciati con un unico paradigma di sviluppo: la crescita infinita della produzione e del consumo di beni materiali in un mondo finito. Questa crescita non è un fattore accessorio che possa essere facilmente modificato, ma un elemento strutturale, a cui non è possibile rinunciare senza rivoluzionare l’organizzazione sociale, economica, culturale e psichica dell’umanità.

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La crescita è una proprietà intrinseca del modo di produzione detto “capitalistico”, cioè fondato sull’accumulazione ciclica di capitale. Per definizione, il “capitale” è una forma di ricchezza che si accumula per essere reinvestita allo scopo di accrescerla (Marx 1867, I, §4). Non può quindi esserci capitalismo senza crescita. Il capitalismo, divenuto sistema dominante in Europa nel XVII-XVIII secolo e nel mondo nel XIX-XX secolo è dunque da considerarsi la principale causa dell’apocalisse climatica attuale.

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Il capitalismo, legato per definizione alla crescita, vi è legato anche per tutte le sue manifestazioni ulteriori. , da quando ha dato luogo alla società dei consumi, non produce più beni per soddisfare i bisogni della popolazione, ma produce i bisogni della popolazione, attraverso la pubblicità, per produrre un massimo di beni, e così accrescere il capitale. Questa tendenza è apparsa in Occidente dopo il 1945 e si è diffusa nel mondo dopo il 1989. La grande maggioranza dei gas serra responsabili del cambiamento climatico attuale sono stati immessi nell’atmosfera in questo periodo (Jancovici 2013). Ne è seguito meccanicamente un innalzamento delle temperature medie globali (IPCC-6 Physical_SPM 2021, p. 7; NASA 2019; Wikipedia IT e EN). Anche il sistema finanziario è basato sulla credenza che ci sarà crescita: il denaro viene investito o prestato perché si crede che l’attività economica aumenterà e permetterà così di riottenerlo aumentato. Poiché il credito è questa credenza, tutti gli sforzi delle élite si concentrano nel tentativo di occultare il nesso tra la crescita e la crisi ambientale, di per sé evidente e ratificato perfino dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA 2021). Concetti come “crescita verde” o “sviluppo sostenibile” rientrano in queste strategie di occultamento.

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Il nesso tra crescita e cambiamento climatico è di natura fisica: risiede nel fatto che la produzione economica è per l’essenziale basata sull’impiego di macchine, che le macchine consumano energia, e che l’85% di questa energia è di origine fossile, cioè viene da carbone, petrolio o gas (vedi Jancovici 2003TOTAL 2021)..

Il resto proviene dall’idroelettrico (6%), dal nucleare (4%) e dalle nuove rinnovabili (5%) che, sebbene in aumento, non potranno sostituire l’85% fossile in tempi utili in tempi utili (2030-2050) per arrestare il riscaldamento climatico (Jancovici 2019-3 e Jancovici 2019-7)

Storicamente, del resto, nessuna nuova fonte di energia ha mai sostituito quelle precedenti: vi si è sempre e solo aggiunta per garantire più crescita. Crescere significa perciò far funzionare più macchine, bruciare più fossili, e liberare nell’atmosfera più gas serra. Anche i computer che fanno funzionare internet sono macchine e bruciano energia: ne bruciano in totale oggi circa il 4% del totale, come l’intera flotta mondiale di camion circolanti su strada (ma crescono molto più velocemente; cf. SHIFT 2019, p. 8).

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I gas serra (principalmente CO2 e metano) sono gas opachi alle radiazioni infrarosse con cui la Terra disperde nello spazio il calore ricevuto dal Sole. Più gas serra ci sono in atmosfera, meno calore si disperde nello spazio, resta a terra e fa aumentare le temperature. Se il metano, molto opaco, si decompone e scompare in qualche decennio, la CO2 è molto stabile e resta in atmosfera per secoli o millenni (IPCC 2018 1.5°C SPM, p. 5). Perciò le emissioni di CO2 cominciate verso il 1850 con la rivoluzione industriale sono ancora lì, irreversibili.

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Con i tassi di crescita attuali, ci avviamo verso un riscaldamento medio di oltre 4°C a fine secolo, che vuol dire oltre il 6°C sulle terre emerse (il mare si riscalda meno), con inasprimento di tutti i fenomeni estremi già noti (uragani, inondazioni, canicole, incendi), ma anche con alcune conseguenze più gravi:

a) superamento delle soglie di temperatura e umidità fisiologicamente sopportabili per l’uomo in vaste aree del pianeta per più di 100 giorni l’anno, con conseguente morte o spostamento di circa 500 milioni di persone (Raymond et al. 2020; Coffel et al. 2018; Sherwood e Hubert 2010); b) estinzione di gran parte delle specie di alberi e piante, che non potranno migrare abbastanza in fretta verso i poli all’aumentare delle temperature, con conseguenze imprevedibili per l’alimentazione dell’uomo e degli altri animali, ma anche per il riassorbimento parziale della C02 che le piante assicurano (IPCC-5 2014 Impacts SPM, p. 15); c) aumento della siccità e progressivo scioglimento dei ghiacciai, con temporaneo incremento e poi riduzione definitiva della portata dei grandi fiumi, quindi inaridimento delle pianure agricole da cui dipende l’alimentazione di circa 2 miliardi di persone nel mondo (Padania inclusa), che dovranno spostarsi altrove per sopravvivere (IPCC-5 2014 Impacts SPM, p. 16-25; IPCC 2019 Land SPM, p. 11-18); d) riscaldamento e acidificazione dei mari con morte delle barriere coralline e conseguente estinzione o declino di molte specie di pesce, da cui dipende l’alimentazione di circa 500 milioni di persone nel mondo (IPCC-5 2014 Impacts SPM, p. 16-25; IPCC 2019 Oceans SPM, p. 26); e) innalzamento del livello dei mari, dovuto al riscaldamento dell’acqua e allo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia, e poi dell’Antartide, tra i 50 e i 100 cm entro il 2100, con sommersione delle regioni insulari e costiere, e morte o spostamento di 100 milioni di persone (l’innalzamento proseguirà poi per secoli, sommergendo regioni costiere sempre più vaste: tra i 2 e i 3 m nel 2200, tra i 3 e i 5 m nel 2300, ecc.; IPCC 2019 Oceans SPM, p. cf. De Conto e Pollard 2016, cit in Jancovici 2019-4, p. 106); f) inutile aggiungere che il cumularsi di questo tipo di tensioni demografiche e alimentari significa il moltiplicarsi di guerre, carestie e epidemie.

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Alla COP 21 di Parigi (2015) gli Stati si sono impegnati formalmente a restare “ben al di sotto” dei 2°C di riscaldamento, e “se possibile” a 1,5°C (COP21 2015, art. 2.1.a), ma gli impegni economici concreti che hanno preso a tal fine garantiscono appena un risultato compreso tra i 2,7 e i 3,5°C (CSSR 2017, I, 14, p. 399). Inoltre, la maggioranza degli Stati non ha finora rispettato i suoi impegni. Il riscaldamento medio osservabile oggi, causato principalmente dalle emissioni del 1950-2000, è già di 1,1°C (1,6°C sulle terre emerse; IPCC-6 2021 Physical SPM, p. 6).

Nel 2040, le emissioni del 2000-2020 ci porteranno a un riscaldamento di 1,5°C. Le scelte che faremo oggi determineranno se dopo il 2040 la temperatura si stabilizzerà intorno agli 1,5°C oppure continuerà a crescere (IPCC-6 2021 Physical SPM, p. 18; IPCC 2018 1.5°C SPM, p. 4).

Per stabilizzare gli 1,5°C occorrono scelte drastiche subito, comprendenti forti investimenti in nuove tecnologie ma anche una sostanziale decrescita dell’economia (dell’ordine del 5% l’anno, si dice, circa come nel 2020 a causa del Covid). Naturalmente la decrescita è possibile solo su scala globale: se decresce un Paese solo, gli altri tenderanno a divorarlo economicamente e militarmente.

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La CO2 in atmosfera è lentamente riassorbita dagli oceani e dalle foreste, ma a un ritmo decisamente inferiore a quello delle emissioni umane. Inoltre gli oceani, riassorbendo CO2, si acidificano, diventando inabitabili per un numero crescente di specie. Le foreste, dal canto loro, tendono a essere distrutte dalla crescita economica, sia mediante la demografia, che preme per trasformarle in campi e città, sia mediante il cambiamento di abitudini alimentari in favore del consumo di carne. . Inoltre, con il riscaldamento climatico, tendono a seccare e a bruciare più spesso, emettendo forti quantità di CO2 (Reuters 2021).

La deforestazione rappresenta nel suo insieme il 10% circa delle emissioni globali di gas serra (Jancovici 2019-3, p. 87-90). La distruzione delle foreste è d’altra parte una delle cause sistemiche probabili delle epidemie più recenti, e della pandemia di Covid in particolare, perché mette vaste popolazioni umane in diretto contatto con gli agenti patogeni degli animali selvatici (Brancalion et al. 2020, Everard et al. 2020).

(da commons.wikimedia.org)

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La deforestazione è dovuta in massima parte a coltivazioni per alimentare il bestiame da cui si ricava la carne. La produzione di 1 kg di proteine di carne bovina richiede 18 volte più superficie coltivata, 10 volte più acqua, 9 volte più carburante, 12 volte più fertilizzante e 10 volte più pesticidi della produzione di 1 kg di proteine da legumi (Sabaté et al. 2014) e circa il triplo delle risorse rispetto a 1 kg di proteine di carne di maiale o di pollo, di uova o di latte (UCS 2012, p. 7). La produzione globale di carne fornisce il 2% delle calorie e il 34% delle proteine consumate nel mondo, ma occupa il 79% delle terre agricole (UCS 2012, p. 2). Una dieta onnivora comprendente carne genera circa il doppio delle emissioni di CO2 di una dieta vegetariana (Scarborough et al. 2014). Gli uomini mantengono in vita sulla Terra circa 25 miliardi di animali d’allevamento, di gran lunga la più grande biomassa animale vivente oggi sul pianeta, e ne macellano ogni anno circa 75 miliardi (FAO 2018).

Di questi, la maggioranza sono pollame, ma circa 2 miliardi sono bovini, la cui ruminazione è la principale fonte di emissioni di metano in atmosfera (Jancovici 2019-3, p. 77; Scheehle e Kruger 2006). Nel complesso, la carne è responsabile del 14,5% di tutte le emissioni di gas serra, per due terzi dovuto ai bovini (FAO 2017). Ma l’industria della carne bovina comporta anche un terzo rischio apocalittico: lo sviluppo della resistenza batterica.

Infatti, per essere mantenuti in vita nelle condizioni innaturali degli allevamenti intensivi, gli animali sono trattati con forti antibiotici che, usati a lungo in assenza di malattia, favoriscono nei batteri mutazioni resistenti ai farmaci, selezionando ceppi sempre più inattaccabili (Landers et al. 2012, Fortané 2016, Berger 2016). Molti di questi batteri sono pericolosi per l’uomo.

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Tra gli altri settori della produzione economica responsabili delle emissioni di gas serra, spiccano la produzione di elettricità (27%), i trasporti (14%), il resto dell’industria (11%), la produzione di cemento (6%) e il riscaldamento/condizionamento di interni (5%). La costruzione di immobili, in particolare, genera molta CO2 come sottoprodotto della reazione chimica che dà luogo al cemento. Poi gli immobili vanno riscaldati, e lo si fa princincipalmente bruciando metano (Jancovici 2019-3, p. 87-90).

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I trasporti generano CO2 bruciando principalmente petrolio. Le automobili valgono in totale un 6% delle emissioni, i camion un 4%, gli aerei un 2% e le navi un 2-3% (Jancovici 2019-3, p. 87-90; IMO 2020). I trasporti di merci hanno impatti relativamente poco significativi rispetto alla loro produzione (per esempio, riscaldare una serra in Europa emette molti più gas che importare la frutta dal Marocco). I grandi portacontainer emettono tuttavia molte altre sostanze inquinanti, dovute alla mancanza di regole e al combustibile a basso costo che utilizzano. Nei trasporti di passeggeri, il mezzo più inquinante per chilometro/passeggero è l’aereo, seguito dall’auto, dall’autobus e poi dal treno (EEA 2020, p. 62 e 68). Il treno è il più pulito a condizione che le linee ferroviarie siano già costruite. Se bisogna costruirle, diventa più inquinante, ed è superato dal bus.

L’aereo comporta livelli di emissioni incompatibili con la protezione del clima: un solo viaggio Parigi-Chicago esaurisce l’intero budget di CO2 sostenibile per una persona per un anno (dovrebbe passare il resto dell’anno senza riscaldarsi, guidare, mangiare carne o prendere l’autobus, Jancovici 2019-5, p. 12).

Nemmeno l’uso quotidiano dell’automobile è sostenibile: un’auto media esaurisce il suo bilancio CO2 con circa 7.000 km l’anno, mentre l’uso medio oggi è di circa il doppio (DATALAB 2020, p. 143). L’auto produce inoltre la maggior parte delle nanoparticelle inquinanti (PM 2.5 e PM 10) riconosciute ormai responsabili di di oltre 8 milioni di morti premature ogni anno nel mondo, di cui quasi 800 mila in Europa (Lelieveld et al. 2020). L’inquinamento atmosferico, inoltre, generando in intere popolazioni infiammazioni respiratorie croniche che ne indeboliscono le barriere immuniatrie, è sospettato di costituire un secondo fattore sistemico per l’alta diffusione del Covid (Conticini et al. 2020; Pozzer et al. 2020). Le auto elettriche potrebbero forse migliorare la situazione delle nanoparticelle ma non quella del clima, visto che la maggior parte dell’elettricità nel mondo continua ad essere prodotta in centrali a carbone, metano o petrolio (Jancovici 2019-5, p. 28). Inoltre la produzione e lo smaltimento delle batterie pone seri problemi di risorse e inquinamento: alcuni dei metalli necessari a fabbricarle saranno esauriti ben prima che l’intero parco macchine a benzina e gasolio sia sostituito da auto elettriche.

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La quantità di CO2 emessa per produrre 1 Kwh di energia elettrica varia a seconda delle fonti primarie: circa 1 Kg per il carbone, 800 g per il petrolio, 400 g per il metano, 100 g per il fotovoltaico (compresa la costruzione del pannello), 10-20 g per il nucleare e 10 g per l’eolico e l’idroelettrico (Jancovici 2019-5, p. 28 e Jancovici 2019-7, p. 31).. I dati di fotovoltaico ed eolico vanno più che raddoppiati, però, se si calcola la costruzione delle batterie necessarie a usare l’energia quando si vuole.

L’idroelettrico e il geotermico sono puliti ma non suscettibili di crescere indefinitamente, essendo legati a realtà geomorfologiche di numero limitato sul pianeta. Il nucleare è pulito rispetto al clima, ma non rispetto alle scorie, che rappresentano un problema, anche se più a lungo termine. L’idrogeno non è una fonte primaria, ma un mezzo di stoccaggio.

La fusione nucleare, che promette energia abbondante e pulita a basso costo, è una tecnologia allo studio da decenni, che per ora non ha dato risultati concludenti, a causa delle enormi difficoltà tecniche che comporta. Se tutto va bene, i primi reattori a fusione funzionanti potrebbero essere pronti verso il 2080. Troppo tardi per evitare il riscaldamento climatico che va fermato entro il 2030-2050 (Jancovici 2019-6). Inoltre una tale quantità di energia, se usata per continuare la crescita nel senso attuale del termine, potrebbe significare la fine della biosfera terrestre.

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La riduzione del consumo di fossili si imporrà comunque, nel corso del secolo, a causa dell’esaurimento delle risorse, ma ciò non accadrà in modo abbastanza rapido da evitare il cambiamento climatico. Il picco di produzione mondiale del petrolio convenzionale è stato ufficialmente raggiunto nel 2008: la produzione continua a crescere oggi solo grazie al petrolio di scisto USA e alle sabbie bituminose canadesi, ma con ogni probabilità la produzione globale è destinata a diminuire già dal 2025-2030, perché non si conoscono altri giacimenti (IEA 2018, p. 45; Jancovici 2019-2, p. 95-136).

(da commons.wikimedia.org)

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Le riserve di metano sono un po’ più consistenti, ma anche loro si vanno esaurendo: il picco è previsto tra 2030 e 2040 (Jancovici 2019-2, p. 153). Le sole riserve fossili abbondanti, capaci di oltrepassare la fine del secolo, sono purtroppo quelle di carbone, che sfortunatamente è anche la fonte più inquinante (e meno trasportabile). Sono quasi tutte detenute da cinque paesi: USA, Russia, Cina, Australia e India (Jancovici 2019-2, p. 160-163). Questi Paesi saranno i soli a disporre di energia abbondante nel proprio territorio durante la seconda metà del secolo, ma nella misura in cui se ne serviranno faranno precipitare irrimediabilmente la crisi climatica.

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Per mantenere il riscaldamento globale “ben sotto i 2°C” (impegno preso dalla COP 21 di Parigi nel 2015), bisognerà ridurre le emissioni di CO2, dai circa 40 miliardi di tonnellate l’anno attuali a circa 20 nel 2030 (-50%) e a meno di 5 nel 2050 (-90%), consumando ancora, al massimo, l’equivalente di altri 10 o 15 anni dei fossili consumati oggi (IPCC 2018 1.5°C SPM, p. 12). Per ora non si conoscono tecnologie per ottenere riduzioni di questa portata senza ridurre l’impiego di macchine, cioè l’attività economica, e senza una massiccia riforestazione della superficie terrestre (IPCC 2018 1.5°C SPM, p. 12-24). Tutti gli studi più autorevoli indicano che l’obiettivo degli 1,5°C non è compatibile con un’ulteriore crescita economica (Wiedmann et al. 2020, EEA 2017, EEA 2019 e EEA 2021, IPCC-6 2021 Physical SPM, p. 18). Alcuni stimano che occorrerà una decrescita di circa il 5% l’anno, come quella da Covid nel 2020, ma ogni anno fino al 2050 (Jancovici 2020; Jancovici 2019-5, p. 30-34).

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Arrestare o invertire durevolmente la crescita significa per definizione uscire dal capitalismo, cioè dal sistema che ha guidato la modernità, oltre che con varie forme di sfruttamento, sradicamento e alienazione, anche con un aumento costante di benessere, diritti e democrazia, almeno per la maggior parte della popolazione occidentale. Senza crescita, il miglioramento delle condizioni di vita non sarà possibile se non tramite politiche redistributive che si intrecciano spesso ai conflitti sociali.

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Se i limiti imposti dall’ambiente e dal clima richiederanno globalmente comportamenti molto più “sobri” (si parla di dividere i consumi in Europa almeno per 3 di qui al 2050), bisogna capire più esattamente come verrà distribuito questo sforzo.

Attualmente, il 50% più povero della popolazione della Terra (redditi sotto i 6.000 $ l’anno; PPA USA 2011) non raggiunge i limiti di sostenibilità pro-capite nelle emissioni di gas serra, generando appena il 7% del totale. Il 40% intermedio (tra 6.000 e 38.000 $), supera il tetto di circa due volte, generando il 44% delle emissioni. Il 10% più ricco (oltre 38.000 $), oltrepassa la soglia di circa 10 volte, generando il 48% dei gas. E infine l’1% più ricco (oltre 109.000 $), la eccede di 30 volte o più, generando il 15% del totale (UNEP 2020, p. 63).

Da notare che le soglie di reddito oltre le quali le emissioni esplodono (i 38.000$ l’anno del 10% più ricco) coincidono con quelle oltre le quali l’aumento del reddito non genera un significativo aumento di felicità (75.000 $ per nucleo familiare, secondo un celebre studio dei premi Nobel Kahneman e Deaton 2010, confermato da Jebb et al. 2018). In altre parole, gran parte delle emissioni provengono da consumi voluttuari che non migliorano nemmeno la vita di coloro che ne approfittano. Tutti i modelli indicano poi che gli effetti devastatori del cambiamento climatico saranno amplificati dalle diseguaglianze (IPCC 2019 Land SPM, p. 13-15). Sarà quindi difficile immaginare di contrastare il processo senza ridurre significativamente il tenore di vita del 10% più ricco della popolazione.

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La politica del prossimo decennio verterà in gran parte sulle strategie discorsive e sui giochi di alleanze tra diversi gruppi sociali ed etnici per assicurarsi il diritto a consumare ciò che resta dell’energia e delle risorse del pianeta. Se i conflitti e gli egoismi prevarranno sulla fiducia e la solidarietà, si andrà verso un esaurimento caotico e traumatico delle risorse, non governato e non governabile, in un contesto di cataclisma climatico, ambientale e migratorio, probabilmente caratterizzato da guerre, carestie e pandemie.

C’è il rischio che in un simile scenario le classi dominanti si chiudano nella difesa dispotica dei propri privilegi e che segmenti crescenti delle classi medie e popolari ricadano verso condizioni neo-servili. Solo un profondo lavoro di trasformazione culturale, politica e anche spirituale potrà scongiurare quest’esito.

Dobbiamo far toccare con mano quanto la gioia che scaturisce dalle relazioni con i viventi è preferibile ai piaceri che scaturiscono dal consumo di oggetti. Per questa via, non facile, è possibile creare alleanze impreviste e trasversali, anche fra segmenti e classi della popolazione che oggi si trovano in conflitto.

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Un grande pericolo potrebbe allora convertirsi in opportunità evolutiva per la specie umana.

Immagine di copertina: Ludwig Wilmersdorf, The Bar (foto di Don Sniwgolwski da Flickr)