editoriale

12 marzo 1977

“Giorni che valgono anni”, scrisse qualcuno. Quarant’anni dopo, un racconto dentro la rivolta del 12 marzo 1977.

Il telefono squillava. I vestiti bagnati, intrisi dal fumo dei lacrimogeni, emanavano un odore acre. Nella stanza l’aria era irrespirabile. Il telefono continuava a squillare. Rita allungando il braccio rispose. Annuì con il capo e passò la cornetta a Matteo. La voce preoccupata di Matteo ci orientò: “Non dovete passare. Dovete lasciare la macchina e proseguire a piedi”. Stavamo a casa di Rita ormai da più di un’ora attendendo che la morsa dei filtri della polizia si allentasse. La città, dopo l’imponente manifestazione del pomeriggio, era di nuovo sotto il controllo delle forze dell’ordine. Matteo attaccò il telefono e con la faccia tirata disse: “All’altezza del carcere di Regina Coeli c’è un posto di blocco: Fabio, Mara e Luca sono fermi in un bar”. Poi aggiunse: “Fabio vuole provare a passare”. Gli chiesi: “La macchina è pulita?”. Lui socchiudendo gli occhi mi fece cenno di no. Nella stanza calò il silenzio.

Quel giorno di marzo una luce schietta divideva il cielo in due: da una parte l’azzurro intenso, dove potente risplendeva il sole delle primavere romane, dall’altra una nube, grave e grigia come il piombo, minacciava pioggia. Sin dalle prime ore del pomeriggio piazza Esedra si era andata riempiendo. Il clima era teso, duro, il giorno prima in una manifestazione a Bologna, durante gli scontri, i carabinieri avevano ucciso un compagno. Da circa tre mesi, ogni sabato, il movimento occupava il centro di Roma con enormi manifestazioni. Quel giorno comunque era un giorno diverso: e non solo per quello che era accaduto a Bologna.

Le file serrate del servizio d’ordine aprivano un corteo senza bandiere, puntando dritte verso via Nazionale. All’imbocco della strada un’esigua pattuglia di poliziotti per lo più in borghese avanzò, gli andammo incontro e in breve si formò un capannello. Accadeva sempre così prima della partenza. Il capannello misurava le forze, le intenzioni e di conseguenza il percorso del corteo: ma quella consuetudine quel giorno saltò. Non parlammo, non minacciammo, non nascondemmo i nostri visi, comunicammo a sguardi e ci capimmo perfettamente. Sapevamo dove andare e loro sapevano dove aspettarci. Quello che non sapevano era come ci saremmo arrivati. Facemmo finta di scendere per via Nazionale e loro si disposero per impedircelo, ma alla prima traversa girammo a sinistra per andare verso via Cavour. Questa mossa creò scompiglio. Non capivano. Che noi avessimo rinunciato a scendere per via Nazionale li sorprese. Ma noi sapevamo quale era la meta e volevamo arrivarci dalla posizione migliore. I cortei di quel movimento avevano una grossa duttilità perché sapevano prendere decisioni velocemente e muoversi rapidamente. Nei mesi passati avevano dato prova di queste loro attitudini e la polizia lo sapeva meglio di chiunque altro.

Davanti a noi via Cavour si presentò deserta. Una lunga discesa senza macchine, senza passanti e con tutti i negozi chiusi. Cominciò a piovere, il corteo procedeva lentamente, di tanto in tanto un boato rompeva il silenzio: “Assassini, assassini”. La polizia era sparita. Quella enorme massa di gente proseguiva come una unica entità in uno scenario irreale. Compatti e determinati non ci fermammo neanche per rompere le vetrine dell’Hotel Palatino, tappa obbligata di tutte le manifestazioni che passavano di lì. La leggenda del movimento voleva che il proprietario avesse militato nella Decima Mas. Continuammo a scendere verso via dei Fori Imperiali. Intanto la pioggia stava aumentando, calava la sera e le luci della città tardavano ad accendersi. Guardavo i volti bagnati dei miei compagni, la loro rabbia, il loro smarrimento.

Arrivammo a piazza Venezia dalla parte giusta, cioè con il Vittoriano alle spalle e via del Corso di fronte. Era lì che volevamo andare ed era lì che ci stavano aspettando. Ci fermammo e le squadre del servizio d’ordine cominciarono a schierarsi ai lati della piazza. Mai avevo visto in tanti anni di cortei una dimostrazione di forza e di organizzazione come quella. Ognuno si muoveva sapendo quello che doveva fare e tutti erano consapevoli di quello a cui stavamo andando incontro.

Nonostante quella fosse una manifestazione nazionale, una gran parte delle persone che componevano il corteo veniva dalle periferie romane: a prescindere dalle più o meno fumose ideologie che vivevano al proprio interno, e al di là che vi fossero donne o uomini, giovani o vecchi, studenti o operai, disoccupati o nullafacenti, la sua intima essenza era affermare il diritto di esserci. Continuava a piovere e le luci della città ancora non si accendevano. La piazza quasi al buio era illuminata a intervalli dai lampeggianti dei blindati che con il muso rivolto verso il Vittoriano ostruivano l’ingresso di via del Corso. Cominciò l’attesa: noi di qua e loro di là, schierati come in una antica battaglia, quando ancora il nemico era visibile.

Negli scontri con la polizia, c’è un punto dopo l’iniziale impatto, quando il fuoco delle prime bottiglie incendiarie si sta spegnendo e il fumo dei primi lacrimogeni sta salendo, in cui tutto sembra rallentarsi: una zona avvolta da un silenzio assoluto nella quale i contendenti, mentre ogni cosa intorno è movimento, urla, fuga, riescono a percepire le proprie voci, i propri ordini, le proprie imprecazioni. Se la paura potesse fare rumore, quelle voci, quelle imprecazioni, sarebbero il rumore della paura. Quel silenzio, quella stessa paura, avvolgevano l’intera piazza e risalivano su per tutto il corteo fino a piazza Esedra.

Senza che nessuno lo avesse deciso, quindi senza nessun disaccordo, quel giorno l’obiettivo comune era violare la zona proibita, andare verso i palazzi della politica. La città, come se si fosse preparata all’evento, si consegnava muta a quella possibile resa dei conti.

Si intravedevano, lungo via del Corso dietro i blindati, migliaia di elmetti della polizia e dei carabinieri che, bagnati dalla pioggia, luccicavano incutendo terrore. Stavamo di fronte a quello schieramento con tutta la nostra forza ed era così tanta, quella forza, che ne percepimmo la fragilità.

Prima di una decisione, anche una piccola decisione, in ognuno di noi si crea uno stato di eccezione. Uno stato in cui i pro e i contro si alternano in una regressione all’infinito. Quel giorno in quella piazza, chissà per quale alchimia, quello stesso stato di eccezione si stava manifestando in modo collettivo, determinando una sospensione. Regole, ruoli, gerarchie precedenti stavano perdendo di senso e ogni cosa sembrava possibile. La pioggia non smetteva e le luci non si accendevano. Tutto era fermo, tutto sembrava inevitabile, gli schieramenti si guardavano in attesa di un gesto. L’unica cosa in movimento era l’affannarsi di un gruppetto di compagni che, con gli sguardi annichiliti dal peso di una presunta delega, discutendo animatamente al centro degli schieramenti, tentavano di arrogarsi la possibilità di una decisione. Quanti di noi avevano sognato quel momento, quanti si erano battuti perché ciò si verificasse, quanti lo avevano temuto: ora eravamo lì, sospesi in un tempo indefinibile, tutti in attesa di qualcosa.

Che non avvenne.

Non decidemmo, non so perché, non so nemmeno che importanza può avere saperlo. Girammo verso via del Plebiscito andando dove ci consentirono di andare e così quel corteo diventò un altro corteo e quella storia un’altra storia.

Nella stanza l’aria era di nuovo tornata respirabile, il telefono non aveva più squillato. Noi, ormai asciutti anche se l’odore acido sui vestiti persisteva, stavamo vedendo il telegiornale. Scontri in vari punti della città, centinaia di arresti, centinaia di feriti tra noi e le forze dell’ordine, devastazioni, decine e decine di macchine e mezzi pubblici incendiati, così raccontava quel pomeriggio il conduttore che ad un tratto si interruppe. Gli porsero un foglio e cominciò a leggere: “A tarda sera nei pressi del carcere di Regina Coeli si è verificato uno scontro a fuoco tra una pattuglia dei carabinieri e gli occupanti di una macchina che non si è fermata all’alt. Due carabinieri e uno degli occupanti sono rimasti gravemente feriti”. Non dicemmo neppure una parola, attoniti continuammo a guardare scorrere le immagini alla televisione.

Quei due aspetti così apparentemente contradditori avevano segnato quella giornata. La non decisione della piazza e la vuota arbitrarietà della decisione dei miei compagni sintetizzò in maniera perfetta il limite in cui quel movimento si era cacciato e a riflettere bene e con il senno di poi il limite in cui ogni movimento per sua natura si trova quando la concatenazione degli eventi non si predispone come dovrebbe. Le cose accadono, quando accadono, semplicemente perché devono accadere.


12 marzo 1977 Roma di panicopanico

Tratto da Gli autonomi, vol. I, DeriveApprodi