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«Siamo positivi, non morti»: intervista a Philippe Mangeot, membro storico di Act-up

In occasione della giornata mondiale contro l’AIDS pubblichiamo parte dell’intervista a Philippe Mangeot, membro storico di Act Up e co-sceneggiatore del film “120 battiti al minuto”. Per combattere lo stigma e rivendicare cure accessibili, sicure e gratuite, il testo completo lo trovate nell’ultimo numero di Dinamo Print “Guerra alla Scienza”

Incontriamo Philippe Mangeot online su zoom, dal suo appartamento di Parigi, mentre fuma diverse sigarette, in un francese pacato e chiaro, ci racconta dell’Aids, della lotta di Act Up, dello stigma, delle difficoltà e di cosa ha significato sopravvivere. Ma anche del rapporto con le case farmaceutiche, della relazione col sapere medico, e della riappropiazione della conoscenza sul proprio corpo e della propria malattia. L’intervista intera si può trovare sull’ultimo numero di Dinamo Zine, acquistabile qui.

Puoi parlarci del tuo ruolo in Act Up? Come ci sei arrivato e come si è sviluppata la tua militanza in questa organizzazione?

Oggi ho 57 anni e sono sieropositivo dal 1986. Nel 1986, l’anno in cui ho scoperto di essere sieropositivo, l’Aids era una sentenza di morte. Ma io avevo 20 anni e volevo vivere la mia vita. Non pensavo assolutamente alla militanza politica soprattutto perché non c’era nessun luogo dove avrei potuto farla. Non volevo unirmi a un’organizzazione di beneficenza o di volontariato. Avevo la forte sensazione che l’Aids fosse un’esperienza personale, una tragedia che, per ovvie ragioni politiche, colpiva soprattutto le minoranze, come quelle sessuali – io stesso sono frocio – o i tossicodipendenti. La gente non voleva sentirne parlare, potevamo morire tranquillamente, meglio ancora morire in silenzio, perché all’epoca era difficile dichiararsi omosessuali o tantomeno consumatori di droga. 

Act Up è sempre stata una piccola associazione, all’apice della sua storia riuniva al massimo 200 attivisti alle riunioni settimanali, mai di più. Ma quando sono arrivato eravamo in 30. Per questo abbiamo dovuto inventare strategie specifiche legate al fatto che eravamo poco numerosi. Act Up metteva a valore il divario tra i pochi che eravamo e il rumore che volevamo creare. 

Quando si è in 30 in un collettivo trovi il tuo posto molto rapidament e sei in grado di portare quello che sai fare. Io sono una persona che ha studiato letteratura e così mi sono proposto per scrivere i test necessari per l’organizzazione. Act Up, come tutti i luoghi di attivismo, era una piccola università spontanea. Per esempio, io non avevo mai fatto grafica editoriale, ma l’ho imparata dentro Act Up. Alla fine ero incaricato di scrivere i testi, di elaborare il materiale grafico e i manifesti. E la produzione del materiale grafico fu molto importante dentro Act Up. Era un gruppo molto eterogeneo e ciò che ci ha unito era che eravamo malati.

Sono diventato molto attivo, partecipavo a tutte le azioni, all’epoca scrivevo la mia tesi e avevo tempo a sufficienza. Così, nel 1997, sono diventato presidente di Act Up a Parigi. Act Up-Paris, a differenza di Act Up-New York – per ragioni che hanno tutte a che fare con la fantasmagorica politica francese – si organizzava con presidenti, vicepresidenti, ognuno era ministro di qualcosa… una vera e propria armata Brancaleone. Sono stato presidente di Act Up per due anni, dal 1997 al 1999, poi sono rimasto un attivista senza avere particolari responsabilità e ho lasciato l’organizzazione nel 2004, dopo 14 anni di attività, perché avevo bisogno di voltare pagina. 

Da un lato, ero stanco e avevo anche l’impressione di essere diventato un freno per il gruppo. Ogni volta che qualcuno diceva «potremmo fare questo», alzavo gli occhi al cielo e dicevo: «sì, lo abbiamo già fatto!». Dall’altro, c’era un motivo più intimo, dal 1997 in poi, grazie all’introduzione delle multiterapie l’Aids è diventato una malattia cronica, almeno per tutti coloro che hanno accesso alle cure. Nel 1997 ho capito che non sarei morto di AIDS. Qualcosa mi separava definitivamente da quelli che erano morti, in particolar modo dai miei amanti morti. Quando poi ho visto i giovani arrivare all’inizio degli anni 2000, ho pensato che io ero dalla parte della vera tragedia e loro erano dalla parte di una tragedia che non ci riguardava più in prima persona.

L’Aids è ancora tragico per le popolazioni molto precarie, ad esempio tra le comunità migranti c’è un alto tasso di contagio e di sviluppo della malattia, proprio per la precarietà in cui sono costrette a vivere in Francia. Ma la genialità di Act Up era di parlare in prima persona, noi eravamo le popolazioni minoritarie colpite dalla malattia, ma non le più precarie. Queste ultime non sono mai arrivate ad Act Up. E così Act Up ha iniziato a parlare in terza persona. Abbiamo iniziato a parlare di quelli che erano più esposti al virus abbandonando la prima persona. Ma quando mi sono sentito dire «Io ho vissuto la vera tragedia!» Ho capito che era proprio una cosa da vecchi! Così ho deciso di lasciare Act Up non perché fossi arrabbiato, ma perché appartenevo a un’altra storia che mi impediva di essere all’altezza delle sfide degli anni 2000.

Cosa significava essere malati di AIDS all’inizio degli anni ‘90 in Francia?

Era un periodo in cui si distingueva veramente l’essere sieropositivi dall’essere malati. La malattia si sviluppava con infezioni opportunistiche che solitamente si presentavano nelle persone con una conta dei CD4 inferiore a 200 cellule per microlitro di sangue. Ci si considerava malati anche senza sintomi quando la conta dei CD4 si riduceva sotto questa soglia, perché si era particolarmente esposti alle infezioni opportunistiche. 

C’erano tre categorie di persone all’interno di Act Up: i sieronegativi che ritenevano che ci fosse qualcosa di importante per cui lottare, spesso perché avevano amici malati. C’erano le persone sieropositive asintomatiche, come me. Non sono mai stato un malato di AIDS, il mio sistema immunitario era incredibile. Alla fine degli anni ‘80, sono entrato a far parte di una coorte chiamata “asintomatici a lungo termine”, inelegantemente chiamata “sopravvissuti a lungo termine”. Si chiedevano quale fosse il mio stile di vita, ma in realtà ero un disastro perché fumavo come una ciminiera e non capivano affatto la causa del mio essere asintomatico. Ora sappiamo che probabilmente sono stato contaminato da un virus un po’ più “morbido” ma all’epoca non si sapeva ancora nulla. E in ultimo c’erano i malati di AIDS che erano molto fragili con quasi nessuna speranza di remissione, neanche parziale, perché c’erano pochissimi trattamenti. 

All’inizio degli anni ‘90, c’era solo un farmaco, gli altri erano in fase di sperimentazione. L’unico trattamento disponibile era chiamato AZT (azidotimidina), era pessimo e aveva effetti collaterali davvero terribili ma faceva guadagnare tempo. Mi ricordo del mio amante Jim che doveva prendere l’AZT ogni due ore, ci mettevamo la sveglia anche la notte. Questa era un’esperienza molto condivisa in Act Up, c’erano tante persone malate. Arrivava un momento in cui erano troppo malate per venire ad Act Up, o in manifestazione. Le andavamo a trovare in ospedale, passavamo molto tempo tra ospedali e poi ai funerali. Avevamo davvero un rapporto permanente con la morte.

Eppure l’AIDS è stata un’esperienza comunitaria, ma non collettiva 

È stata anche un’esperienza di dissenso sociale molto forte. Come militante, affermavo pubblicamente di essere sieropositivo ma la gente aveva molti problemi a comprendere quello che stavamo vivendo. Era difficile da capire. Venivamo da epoche di esperienze politiche condivise da persone della stessa generazione, la generazione del ‘68 era in relazione alla generazione precedente il cui grande modello era la resistenza. Erano delle esperienze generazionali, mentre Act Up era transgenerazionale. Avevamo età diverse e i nostri corpi stavano vivendo cose molto diverse. Per esempio il mio fidanzato Jim è morto un mese dopo mio nonno. Jim aveva il corpo di un 80enne quando ne aveva 30. Era molto strano, era un’esperienza di esteriorità sociale quando eravamo incredibilmente nel cuore della macchina sociale.

Puoi chiarire la distinzione che fai tra esperienza comunitaria ed esperienza collettiva

Non era un’esperienza collettiva perché non era compresa da tante persone. Non è stato capito nemmeno dalla maggior parte della comunità omosessuale. Non credo affatto che siamo stati un’avanguardia e non ci importava per nulla di esserlo. Ma comunque non piacevamo ai froci. Prima di tutto perché non eravamo molto presentabili o molto carini. Per esempio, nel 1991, i vescovi francesi pubblicarono un testo dove si affermava che l’omosessualità era un peccato grave e che parlare di preservativi significava promuovere l’Aids perché incoraggiava le relazioni sessuali. Così abbiamo deciso di fare qualcosa a Notre-Dame de Paris: interrompere la messa di Ognissanti. Funzionava così: eravamo dentro la cattedrale, un gruppo si alzava e gridava durante la messa. Appena espulsi, altre persone si alzavano e gridavano, e così via. Era abbastanza divertente essere cacciati dai cattolici che ci picchiavano in Chiesa davanti alle telecamere. Così la messa non ha potuto svolgersi. È stata un’azione importante nella storia di Act Up, la prima con delle telecamere. 

Dopo l’azione siamo andati nel Marais, il quartiere gay di Parigi, per cercare un posto dove mangiare all’ora di pranzo e i ristoranti gay non ci hanno fatto sedere: «siete la vergogna della comunità», ci dicevano. Così dopo tre tentativi siamo andati a mangiare un couscous. Inizialmente siamo stati percepiti molto male nella comunità gay e lesbica. Oggi siamo diventati eroi della comunità, ma a quel tempo non lo eravamo affatto, ci chiamavano regolarmente fascisti, anche sulla stampa.

Come spieghi questa trasformazione?

Perché avevamo ragione! E anche perché abbiamo vinto. Se i trattamenti sono rimborsati al 100%, è grazie a noi. Se i protocolli di ricerca sono stati modificati, è grazie a noi. E anche perché siamo riusciti a narrarlo noi stessi nel film 120 battiti al minuto. Questo è l’unico caso nella storia delle lotte in cui gli attivisti hanno prodotto la propria leggenda fino alla fine. 

Ora c’è un’altra storia che rimane da raccontare, cioè che il campo della lotta contro l’Aids era un campo di conflitto costante tra le associazioni. C’erano associazioni presentabili. AIDES, per esempio, era un’associazione comunitaria e caritatevole, saggia e di gestione. Ho molto rispetto per AIDES, ma più volte non siamo stati d’accordo e abbiamo litigato pubblicamente. Allo stesso tempo, lavoravamo sempre insieme. Abbiamo creato dei gruppi inter-associativi per affrontare le case farmaceutiche. TRT5 (Trattamento e Ricerca Terapeutica 5) è stato inventato da noi di Act Up con AIDES e Arcade Sida. La relazione era del tipo “poliziotto buono/poliziotto cattivo”. In pubblico eravamo noi a sfondare le porte e poi arrivava AIDES, che in maniera ordinata entrava dalle porte che avevamo aperto. Era un dispositivo molto virtuoso. Una volta che avevi gettato del sangue sulla faccia di qualcuno – sangue finto ovviamente – la persona in questione si rivolgeva ad AIDES pensando che con loro si poteva parlare. Non era una guerra vera e propria ma una simulazione. Non eravamo d’accordo, ma allo stesso tempo eravamo perfettamente consapevoli che la nostra relazione era necessaria per ottenere ciò che volevamo. Per questo ha funzionato.

Foto dell’archivio di Philippe Mangeot