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“Santiago, Italia” di Nanni Moretti
Nell’ultimo documentario di Nanni Moretti, presentato in anteprima al Torino Film Festival, il regista romano racconta di quando l’ambasciata italiana di Santiago del Cile, all’indomani del golpe militare di Pinochet del 1973, diede asilo a decine e decine di profughi politici in fuga dal regime che poi vennero accolti come rifugiati politici in Italia. Ma dietro al racconto di una grande storia di solidarietà politica del passato, si parla dell’Italia di oggi e del bisogno di ricostruzione di una comunità politica
Uno dei protagonisti di Santiago, Italia (Nanni Moretti, 2018), un muralista, racconta di come ancora oggi ovunque vada in Italia qualcuno gli dica «io ho fatto qualcosa per i cileni». I cileni di cui parla sono quelli che riuscirono a venire in Italia dopo l’11 settembre del 1973, in grandissima parte militanti politici che avevano creduto e sostenuto Salvador Allende ed erano stati protagonisti di quella breve stagione gloriosa che è stato il suo governo (novembre 1970-settembre 1973). Sicuramente uno dei momenti più alti, a livello politico e immaginifico, per la sinistra mondiale. La repressione, com’è noto, fu durissima. Meno nota è la straordinaria accoglienza riservata ai cileni che vennero in Italia, la solidarietà militante di cui poterono beneficiare in un paese con un partito comunista fortissimo e movimenti extraparlamentari di sinistra che accolsero come fratelli i compagni cileni. Per questo il film si intitola, apertamente, Santiago, Italia, perché racconta la storia di come l’ambasciata italiana a Santiago ospitò, spesso senza aspettare direttive e istruzioni ufficiali, decine di militanti e poi dell’accoglienza che ricevettero in Italia. Ma anche perché, in maniera esplicita che può sembrare quasi didascalica, compara i rifugiati di allora con quelli che arrivano in Italia oggi, che non beneficiano invece della stessa accoglienza e solidarietà diffusa.
Nanni Moretti è un cantore della sua generazione. Lo è sempre stato, da Io sono un autarchico e Ecce Bombo in poi, cogliendone gli sviluppi, le nevrosi, i punti di svolta (come in Palombella Rossa), le speranze e in parte anche i fallimenti. Lo splendido quarantenne di Caro Diario, ancora speranzoso, è ora un ultrasessantenne alla ricerca del proprio passato. Confeziona un documentario classico nella forma, con interviste (in larga parte “a mezzo busto”, con telecamera ferma) unite a un uso preciso e non eccessivo di materiale d’archivio. Lo sfondo, nelle interviste, non si vede quasi mai, lo spettatore deve concentrarsi sugli intervistati, in Italia e in Cile, che sono in maggioranza uomini, militanti dell’epoca. Ma proprio due delle interviste a donne sono le più sconvolgenti: una, tra le lacrime, cerca di capire le ragioni di chi sotto tortura non è riuscito a non fare nomi e racconta il modo rocambolesco di come è riuscita a salvare il figlio; l’altra racconta con minuzia di particolare ma anche in maniera ironica la tortura, spiegando come questa capacità di racconto è una delle conseguenze dell’autocoscienza femminista. Ci sono però anche due persecutori, che appaiono poco ma che danno il senso di un punto di vista altro, intervistati in maniera umana ma ferma.
Proprio nell’intervistare uno di questi, adesso in carcere condannato per i crimini compiuti durante la dittatura, vediamo Moretti in una delle rarissime apparizioni discutendo con l’ex milite che pretende una forma di imparzialità gli spiega che no, lui non è imparziale, non può esserlo. È la chiave del film, il momento in cui viene reso esplicito come questo film sia un’operazione per fare i conti con un evento chiaro della sinistra italiana e mondiale. A differenza di molti suoi colleghi della generazione precedente come Bertolucci, Antonioni, Pontecorvo, Pasolini che hanno ambientato e girato film all’estero – e talvolta, hanno provato così a dire qualcosa sull’Italia – Moretti si allontana difficilmente da Roma. La scena iniziale, con il regista che guarda dall’alto Santiago, è un posizionamento, un modo esplicito e chiaro per indicare a chi vede il film quale sia la sua posizione, un osservatore che però capiamo appunto andando avanti nel film, come non sia affatto distaccato. Oltre a queste due apparizioni, sentiamo spesso la sua voce fuori campo che fa domande in maniera complice, e naturalmente quella di farsi sentire è una scelta.
Chi scrive ha un poster di Unidad Popular (l’alleanza che sostenne Allende) in casa, da sempre, una di quelle cose che sta lì, semplicemente, è un dato. Come lo sono i concerti degli Inti-Illimani visti fin da tenera età, e Victor Jara, Allende, Pablo Neruda eccetera. Per i genitori di chi scrive (nati nel 1952 e nel 1954) quello è stato uno degli eventi segnanti. Lo è stato per quella generazione di militanti di sinistra, la stessa di Moretti (classe 1953). Se si leggono le biografie di militanti dell’epoca si trovano sempre riferimenti al Cile, o meglio al rischio di fare come il Cile, la paura che un’eventuale esperienza di governo comunista e socialista anche in Italia potesse essere stroncata come è successo in quel paese apparentemente lontano.
La memoria collettiva di questo paese, però, ha digerito quell’esperienza molto meno, nonostante siano ancora migliaia i cileni in Italia. In parte anche perché quella stessa generazione di uomini e donne di sinistra, composta da milioni di persone, ha preso in gran parte altre strade, lasciando a un ricordo romantico e un po’ distaccato la militanza giovanile. Moretti, il Moretti che sostiene il PD, quello dei girotondi e di una militanza civile e politica, quella generazione l’ha messa allo specchio in una scena chiave di Caro Diario, in cui prende in giro un gruppo di suoi coetanei ex-giovani disincantati, a cui pesano le sconfitte, «una serie ininterrotta di sconfitte», «la nostra generazione, che cosa siamo diventati… siamo tutti cambiati, tutti peggiorati, oggi siamo tutti complici… Gridavamo cose orrende, violentissime nei nostri cortei, e ora guarda come siamo imbruttiti»: Moretti, inforcando la sua vespa per le strade deserte della Roma agostana, incalza «voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne». È un modo per sentirsene partecipi ma anche di marcare una distanza, quell’essere d’accordo con una minoranza di un’altra delle celebri scene del film, e proprio questa posizione interna e distaccata al tempo stesso è quella che gli ha permesso di mettere in scena meglio quella sua generazione – e anche quella che gli permette di vedere Santiago dall’alto e poi di farsene raccontare la vita dai suoi abitanti.
Che vuol dire, dunque, andare alla ricerca di quell’evento, delle conseguenze del colpo di stato in quel paese apparentemente lontano? Vuol dire, e questo è molto esplicito nel film, raccontare un’Italia densa di solidarietà e sostegno militante e vuol dire anche raccontare un senso collettivo, un sentimento di aiuto reciproco che sta decisamente scomparendo. Ecco quindi i numerosi riferimenti all’Italia di oggi, l’intervistato che nota adesso non sente più nulla di quella solidarietà, quella che racconta che per anni è stata delegata sindacale e nessuno si chiedesse perché lei e non un’italiana, quell’altro che dice eravamo profughi, proprio come chi arriva oggi. Non è un caso che l’ultima parola del film sia“individualismo”, e non è un caso che proprio qui Moretti scelga di inserire l’unico device cinematografico leggermente ingombrante e esplicito, un freeze frame finale, a congelare un momento, un senso di sconfitta e di forse in parte di melanconia. Momento che però viene sciolto immediatamente dal breve inserto musicale finale, con un gruppo folk cileno, a simboleggiare naturalmente come quell’individualismo possa essere rotto dalla musica, dall’arte, dalla voglia di stare insieme. Visione forse romantica e fuori dal tempo, si potrebbe pensare, ma visione che è stata il motore di più un secolo di lotte e solidarietà. Adesso che quelle lotte sono appannaggio di una minoranza, adesso che l’individualismo sembra prevalere, Moretti va alla ricerca di quel motore e, in quest’epoca di passioni morte, è un’operazione comunque importante.