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MONDO

Un anno dopo Assad: il paese delle molte verità

Timori e festeggiamenti in Siria, fra identità confessionali, tensioni regionali, povertà e spazi di resistenza. Il dopo Assad è ancora in fase di costruzione

A Damasco la pioggia si attraversa senza ombrelli. Le persone camminano a testa scoperta, come se non avessero tempo per negoziare con il cielo. Sugli autobus, spesso con le porte aperte, scoppiano risate improvvise; qualcuno scende al volo, qualcun altro sale mentre il mezzo è già in movimento. Mi è capitato di vedere i soldi del biglietto viaggiare di mano in mano, dal fondo del bus fino all’autista, e il resto tornare indietro lungo lo stesso percorso, senza una parola, come se fosse un gesto imparato da tempo. È una normalità ostinata, quasi testarda: questa è la Damasco quotidiana. Una città che vive nei dettagli, mentre a pochi isolati di distanza la Siria inizia a raccontarsi attraverso immagini molto più grandi. È da qui che ho cominciato a guardare la Siria un anno dopo: prima che dalle piazze delle celebrazioni o dai comizi dei nuovi leader, da questo modo di abitare il presente senza protezioni inutili. Ho imparato presto che, in Siria, le immagini ufficiali e quelle quotidiane non coincidono sempre. Bastano pochi chilometri, o un diverso canale televisivo, per passare da una realtà all’altra: da un Paese in festa a un Paese in lutto, da una piazza gremita di bandiere a una città che osserva in silenzio. Nei giorni dell’anniversario è bastato poco per ritrovarsi immersi in un’altra narrazione. Le piazze si sono riempite di persone, colori e slogan. I fuochi d’artificio disegnavano il cielo, i cori gridavano il nome della “nuova Siria”. Una festa che si propone come cornice nazionale, simbolo di rinascita, ma che racconta molto più di quanto sembri.

Accanto alle nuove bandiere siriane a stelle rosse, simbolo della Siria post-regime, sventolavano centinaia di bandiere bianche con la shahada nera — La ilaha illa Allah.

Non erano marginali, né sporadiche. In molte città a maggioranza sunnita dominavano lo spazio visivo della festa. Per chi celebrava, «rappresentano la fine di un silenzio imposto», mi sottolinea Hanan. Per la prima volta in decenni, la comunità sunnita sente di poter occupare lo spazio pubblico. Per altri, però, quelle stesse immagini risvegliavano un timore antico: che un potere cada solo per essere sostituito da un altro e che la libertà si trasformi in appartenenza obbligata. Gli analisti regionali lo avevano previsto. La fine del regime non avrebbe generato immediatamente un’identità nazionale condivisa, ma avrebbe aperto una fase di riappropriazione simbolica, in cui ogni gruppo tenta di ricostruire la propria narrazione, di ridefinire il proprio posto nel Paese. Il problema è che questa riappropriazione si muove in uno spazio già frammentato, carico di ferite e memorie contrapposte.

Autostrada in Siria nei pressi di Tartus

Identità confessionali: il potere che non scompare

Il regime di Assad aveva imparato a usare le identità confessionali come strumenti di governo. Non le rafforzava apertamente, ma le coltivava come fili invisibili: linee di sospetto, di appartenenza, di controllo. Un sistema silenzioso che attribuiva un peso politico a ogni identità, anche a quelle che sembravano solo sociali o religiose. Quando il regime è caduto, quel meccanismo non si è dissolto. Al contrario, si è reso più visibile, come se l’intonaco fosse saltato rivelando crepe già presenti nel muro. Camminando per i sobborghi di Damasco, o attraversando le città del sud e della costa, si percepisce chiaramente che quelle differenze continuano a orientare la vita quotidiana. Le appartenenze restano una bussola invisibile. Non si dichiarano, ma tutti le riconoscono. Ti dicono dove puoi abitare, chi puoi frequentare, cosa puoi permetterti di dire. Sono confini non scritti, ma netti. A volte emergono nei silenzi, negli sguardi, in quella breve esitazione prima di rispondere a una domanda.

C’è un filo invisibile che unisce Suwayda, la città abitata dai drusi, alla costa, luogo riconducibile alla comunità alawita, nonostante tutto le divida. Da entrambe le parti resta la stessa ferita: quella dei massacri, quando le linee del fronte si sono fatte improvvisamente mobili e le popolazioni civili sono diventate bersagli. A Suwayda, se ne parla ancora con rabbia e incredulità; a Latakia, il dolore resta chiuso nelle case, come un lutto privato che alimenta isolamento e sospetto. In entrambi i casi la giustizia è rimasta lontana, sommersa da inchieste sospese, silenzi istituzionali, una burocrazia che parla di ricostruzione ma evita la parola responsabilità.

Le memorie si sono così trasformate in confini emotivi: ognuno custodisce la propria versione, il proprio elenco di vittime, il proprio modo di ricordare. Nel vuoto lasciato dall’impunità cresce la polarizzazione confessionale, come un’erba resistente che intreccia traumi e disillusioni da sud a ovest, più profonda di qualsiasi linea politica tracciata sulle mappe.

La difficoltà della Siria oggi è tutta qui: costruire una transizione che includa senza cancellare, che riconosca senza irrigidire.

Suwayda, casa bruciata durante il massacro di luglio

La geopolitica che inquina gli equilibri interni

La Siria del dopo non è solo un Paese che tenta di ricomporsi. È anche uno spazio attraversato da interessi regionali che continuano a plasmarne il presente, spesso in modo più incisivo delle decisioni prese a Damasco. In questo scenario frammentato, Israele gioca un ruolo centrale e poco nascosto, approfittando del vuoto di potere e della debolezza strutturale dello Stato siriano. Da Beit Jenn alla campagna di Suwayda, gli abitanti convivono con la presenza costante di forze esterne, milizie locali e attori stranieri che cambiano nome ma non logica. Qui il confine non è una linea, ma una pressione continua. «Abbiamo cambiato i nomi, non le paure», mi dice un giovane. «Tutti vogliono qualcosa da noi».

Israele osserva e interviene da anni nello spazio siriano, colpendo selettivamente, ampliando di fatto il controllo su territori già occupati e approfittando delle divisioni interne per rafforzare la propria profondità strategica. Le operazioni militari, presentate come preventive o difensive, si inseriscono in un contesto in cui la Siria non è una reale sovranità, né militare né diplomatica.

In questo gioco di forze, le contraddizioni confessionali e politiche diventano terreno fertile. Ogni frattura interna — tra comunità, tra centro e periferia, tra milizie e civili – riduce ulteriormente la capacità del Paese, come società civile, come spazio di cittadinanza di presentarsi come interlocutore unitario. E più la Siria appare frammentata, più risulta vulnerabile a interventi esterni che si muovono come un elefante in una stanza di cristalli. Nelle campagne, lontano dalle piazze delle celebrazioni, questa dinamica è percepita con chiarezza. Qui la caduta del regime, dopo essere stata accolta con una comune e straordinaria euforia, resta una domanda aperta. I contadini parlano di prezzi, di acqua, di sicurezza. Le famiglie raccontano la fatica di mandare i figli a scuola quando lo spazio aereo non è mai del tutto neutro e il futuro resta opaco.

È una Siria che paga il prezzo di equilibri decisi altrove.

Le celebrazioni, in questo contesto, assumono un doppio significato. All’interno segnano un passaggio di potere; all’esterno parlano a chi osserva la Siria come scacchiera regionale. Ma per molte comunità questo si traduce in una sensazione diffusa di marginalità e di abbandono. «Siamo passati dall’essere governati dall’interno a essere tirati da tutti i lati», mi dice un abitante della zona rurale.

A rendere tutto più fragile è il vuoto lasciato dalla comunità internazionale. Le grandi dichiarazioni sulla transizione non si sono tradotte in una reale protezione dei civili, né in un quadro politico capace di limitare le interferenze esterne. In assenza di una pressione diplomatica efficace, attori regionali come Israele operano in uno spazio quasi privo di vincoli, mentre la popolazione resta intrappolata tra poteri che non controlla. La transizione siriana resta così sospesa: non solo per le sue fratture interne, ma perché la politica nazionale fatica a emergere come spazio autonomo, capace di rispondere ai bisogni della popolazione prima che agli interessi strategici altrui.

Beit Jenn, casa distrutta da Israele

Arte, giovani e spazi di possibilità

Tornando a Damasco, la città appare come un mosaico di tutte queste contraddizioni. Viva da lontano, fragilissima da vicino. I mercati sono pieni, le scuole riaperte, i bambini giocano sotto la pioggia senza ombrelli. Ma dietro questa vitalità si nasconde una realtà dura: stipendi insufficienti, giovani che sognano di partire, anziani che sopravvivono più che vivere. «Non vogliamo emigrare», mi dice un amico. «Ma non vogliamo restare così».

In questo spazio incerto, l’arte è diventata uno dei pochi luoghi di respiro reale. Nei quartieri popolari, giovani musicisti, pittori e registi lavorano in scantinati, case private, biblioteche dismesse. Non producono manifesti ideologici, ma racconti di quartiere, frammenti di memoria, gesti di normalità.

Si tratta di spazi che resistono. Perché creare, oggi, significa aprire un dialogo che va oltre la polarizzazione. Significa immaginare un linguaggio comune dove la politica ha fallito.

Laboratorio artistico

La Siria che ho visto è divisa, ma non immobile. Vive nella testardaggine quotidiana dei suoi abitanti, nei giovani, nelle donne, nei bambini. Se esiste una possibilità di uscita dalla polarizzazione, passa da qui: dal sostegno alle nuove generazioni, agli spazi culturali, ai luoghi dove il dialogo è ancora possibile come fondamento della transizione. Forse la vera rivoluzione non è sui palchi delle celebrazioni, ma in questa normalità ostinata. Nel desiderio, semplice e radicale, di continuare a vivere – nonostante tutto. Ed è qui che la nostra missione «la Siria con gli occhi dei civili» prende forma. Una cooperazione dai civili per i civili.

Immagini di copertina e nell’articolo di Giovanna Cavallo. In copertina le celebrazioni Damasco per anniversario caduta Assad

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