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MONDO

Anita, memoria viva: la nostra lotta è per la vita

A sei mesi dalla scomparsa, un ricordo della vita e delle lotte di Ana María Cuesta León, sociologa colombiana, artista grafica, militante per i diritti umani e direttrice del Centro per la Memoria, la Pace e la Riconciliazione di Bogotá. Perché la lotta per la vita, la dignità e la memoria non ha frontiere, né spaziali né temporali

Ana en la memoria
Ana en las calles
Ana en la dignidad
Ana en la resistencia
Ana en la vida
Ana en el corazón

(Parole in ricordo di Anita durante la commemoriazione)

Ana María Cuesta León, sociologa, muralista e militante per la memoria e i diritti umani in Colombia, ci ha lasciati poco più di sei mesi fa, lo scorso 11 giugno, all’età di 39 anni. Per chi scrive, Anita è stata una cara amica: la sua mancanza è un dolore immenso, così come è stato speciale ed importante averla incontrata nella vita, grazie alla mia compagna Natalia, con cui erano legate da una profonda amicizia sin dai primi anni di università. Scrivere di Anita però non è solo una questione personale, ricordare Anita significa ripercorrere una lunga traiettoria di impegno e di lotta per la memoria e i diritti umani, ed al tempo stesso, dare voce alla sua lotta per il diritto alla salute negato dalle logiche del profitto a tutti i costi, da un sistema di salute neoliberista e privatizzato, e dalla scarsità delle medicine di cui aveva bisogno per vivere. Ricordare la sua vita, la sua militanza di lungo periodo contro l’impunità della violenza di Stato e i crimini di guerra, significa raccontare le lotte e i percorsi collettivi di cui è stata parte come muralista, sociologa, militante, ed infine direttrice del Centro per la Memoria, la Pace e la Riconciliazione di Bogotá.

Ana María lavorava da ormai dieci anni in questa istituzione pubblica del distretto della capitale colombiana, e ne era diventata direttrice due anni fa, nel novembre del 2023. Ha contribuito nel tempo a trasformare una istituzione statale in uno spazio di accoglienza per le vittime del conflitto, per le madri dei desaparecidos e dei falsos positivos, per le organizzazioni sociali dei quartieri popolari, sperimentando pratiche di pedagogia popolare e cura collettiva contro l’orrore della guerra e della violenza nella storia e nel presente del suo paese e non solo. Una etica della cura, scrivono di lei, che ha sostenuto anche quando diventava difficile per lei anche solo respirare.

Nata il 5 giugno del 1986 nei quartieri popolari di Ciudad Kennedy a Bogotá, Ana María è cresciuta accompagnata dalla nonna, dalla madre e dal padre e dalla sorella, da un profondo percorso religioso, familiare ed interiore, che si è poi incontrato con la sociologia, con i diritti umani, con il muralismo e le lotte sociali, le controculture e la militanza politica. Condividendo percorsi di ricerca di giustizia, cura e amore in una epoca devastata dalla violenza di Stato e dalla guerra, denunciando l’impunità del potere e dando voce e protagonismo alle vittime delle persecuzioni e dei massacri, “senza mai perdere la tenerezza” – come diceva il Che – Anita ha attraversato con la sua vita anni di lotte per la memoria e la giustizia, dipingendo con il suo collettivo sulle strade, sui muri, sugli adesivi e sulle magliette quella frase con cui oggi la ricordiamo: “Nuestra lucha es por la vida”.

“Nuestra lucha es por la vida”

Quando aveva diciannove anni, poco dopo aver iniziato gli studi in sociologia all’università Santo Tomás, scoprì di soffrire di ipertensione polmonare, e poi di lupus; in un momento delicato, giovanissima, affrontò con grande forza entrambe le malattie, e nonostante i medici le avevano dato al massimo due anni di vita, ne ha vissuti pienamente ed intensamente altri venti. Prendeva ogni giorno delle medicine vitali, che le permettevano di vivere degnamente, e di non soffrire troppo i dolori e i problemi respiratori con cui conviveva, ma tra dicembre ed aprile l’assicurazione sanitaria Famisanar non le ha più consegnate. L’ultima sua lotta, titola il giornale colombiano El Espectador, raccogliendo le testimonianze della madre e della sorella, è stata una lotta per il diritto alla cura, alla salute, ad una vita degna, che i processi di privatizzazione della salute in Colombia le hanno negato, così come li hanno negati a migliaia di persone, che lottano per ricevere medicine fondamentali per poter vivere e affrontare dignitosamente le malattie con cui convivono. Perché in un sistema neoliberista, la salute è prima di tutto un affare per pochi, e non un diritto dei molti. Non è un caso che proprio la riforma della salute, proposta e voluta dal governo Petro per trasformare la salute in un diritto e modificare quel modello perverso che genera milioni di profitti per le imprese, definite come Enti Prestatori del servizio sanitario, pregiudicando il diritto a ricevere una degna cura, sia stata bloccata dal Senato in mano all’opposizione di destra (mentre molti senatori o familiari di esponenti politici sono azionisti delle stesse EPS).

Nonostante una sentenza giudiziaria che obbligava Famisanar, l’ente prestatore di servizi sanitari a cui era affiliata Ana María, di consegnare entro 48 ore quelle medicine di vitale importanza, costosissime e non facilmente reperibili in Colombia, ad Anita non sono mai più arrivate. Fino al giorno in cui, meno di una settimana dopo il suo trentanovesimo compleanno, si è recata per l’ultima volta all’ospedale, sfinita dal dolore e dalla stanchezza causate dai suoi problemi cardiaci e polmonari, aspettando per due giorni e due notti su una sedia a rotelle, in attesa che l’ospedale le trovasse un stanza con un letto, ottenuto dopo diverse ore nonostante la gravità delle sue condizioni di salute. Anita ha sperato fino all’ultimo di ricevere quelle medicine che le avrebbero salvato la vita e che, ancora una volta, non sono arrivate. Proprio in quei giorni doveva intervenire alla Conferenza Latinoamericana delle Scienze Sociali di Clacso condividendo il suo lavoro sulla “memoria viva” in un panel su Democrazia, giustizia e pace. Presentare il nuovo libro, “Ni Arte Ni Panfleto: Memoria, Color y Dignidad” (Colectivo Dexpierte 2024), che avevano pubblicato pochi mesi prima con il collettivo Dexpierte. Continuare a festeggiare la vita, con l’occasione del trentanovesimo compleanno, con amiche e amici, compagni e compagne. Continuare la sua lotta per la memoria. Continuare a dipingere sulle strade e sui muri nei fine settimana, quando aveva sempre un appuntamento o una attività da qualche parte, frutto di quella passione che la portava a dipingere murales per la memoria nelle strade e sui muri più diversi del paese, senza sosta, una passione che animava e coniugava con il suo impegno umano e politico.

Ogni momento di questi venti anni è stato conquistato alla vita, strappato alla morte, tanto che ormai a tutti noi sembrava che Anita potesse vivere per sempre con noi, quella vita che Anita amava e che ha dedicato alla costruzione di tanti percorsi collettivi di memoria.

Una vita vissuta inseguendo la felicità e cercando di lasciare qualcosa di eterno in questa sua esperienza terrena: “Me ne potrei andare domani, con i problemi di salute che ho e che molti di voi conoscono, ma me ne andrei tranquilla, sapendo tutto quello che abbiamo fatto assieme, che è tanto, credetemi” disse Anita il giorno del suo trentanovesimo compleanno, una settimana prima di quella notte in ospedale in cui il suo cuore ha smesso di battere.

“Anita era più energia che corpo” afferma un caro amico comune, il giorno dei funerali. Là fuori, il fumo grigio dei petardi e dei fuochi d’artificio si disperde sulla via Caracas, sullo sfondo la Cordigliera orientale delle Ande che sembra partecipare al rituale per salutare Anita. Poco dopo, si ripeterà ancora una volta, al cimitero, un verde giardino del riposo alle porte della sua città. Decine e decine di persone abbracciano la famiglia, la madre che, accompagnata da tanto amore nel suo immenso dolore, ricorda commossa sua figlia che le assomigliava così tanto nello sguardo, il padre, così composto nella sua dignità sofferente, e la sorella, che accoglie gli abbracci davanti alla camera ardente. Le lacrime delle amiche e degli amici che si prendono cura di Tango, il bassotto che Anita aveva adottato in Messico (dove era andata a studiare, un master in Studi Sociali e Politici alla Universidad Nacional Autónoma de México) e che l’ha accompagnata per tutta la vita, fino all’ultimo momento.

Il presidente Gustavo Petro la ricorda con una dichiarazione pubblica, così come decine di organizzazioni, movimenti sociali, università, istituzioni, collettivi, amici e amiche, le cui parole e i cui ricordi pubblicati sulle reti sociali non possono che commuovere, testimoniando nel dolore tutto quello che di bello e potente Anita ha seminato durante la sua vita. Anche le Madri di Soacha, che in Anita hanno incontrato un sostegno e una forza per continuare a cercare i figli desaparecidos e denunciare il terrorismo di Stato dei governi dell’estrema destra colombiana, sono presenti al suo funerale. Così come tanti compagni e compagne, amici e amiche, con le loro lacrime accanto al suo volto sorridente stampato su un poster che accompagnerà queste giornate di lutto. “Con il tuo sorriso come bandiera, continueremo a lottare”: mai fu più appropriata questa frase.  

Arriva anche il sindaco di Bogotá, Galan – oppositore di Petro, figlio di un noto politico liberale candidato alla presidenza ed assassinato dai narcotrafficanti poco prima delle elezioni nel 1989 – che la settimana dopo consegnerà alla famiglia una medaglia di riconoscimento postumo alla sua memoria. Poi un venditore ambulante, che Anita aiutava nelle sue cure odontologiche, il viceministro della Gioventù, la docente universitaria del corso di sociologia della memoria, con cui rimase in contatto per tanti anni, gruppi di musica punk della scena contro culturale, e ancora tanti e tante che accompagnano la famiglia nella camera ardente adornata con le sue amate orchidee, la sciarpa antifascista della sua squadra del cuore, i Millonarios (pochi giorni dopo, durante il derby, la curva esporrà una striscione per ricordarla), dai colori dei suoi poster, delle foto del suo sorriso così potente da sembrare ancora più vero, quel volto e quel sorriso che adesso compaiono dipinti sui muri della città che Anita ha vissuto, amato e dipinto.

“Pueblo canta tu dolor, grita tu indignación”

E’ questo uno degli slogan che il Colectivo Dexpierte ha scritto e riprodotto su dei celebri e bellissimi manifesti, sugli stencil, sulle strade, sui murales in giro per la Colombia e non solo. Assieme a “La nostra lotta è per la vita”, uno slogan che forse mai come adesso mostra la dimensione intima, personale, di quella lotta che Ana María ha portato avanti personalmente per affrontare giorno dopo giorno le sue condizioni di salute, per oltre metà della sua vita. Nell’ultimo libro pubblicato dal Collettivo, pochi mesi prima della scomparsa di Anita, si raccolgono quattordici anni di lavori artistici e politici, costruiti con reti ed esperienze di lotta comunitaria e popolare in diverse città e territori della Colombia, ma anche in Messico e Venezuela.

Murales del Colectivo Dexpierte

Nato nel 2011, il collettivo Dexpierte si è proposto di contribuire a risvegliare le coscienze a partire dalla rivendicazione della memoria del conflitto armato nel paese, e di connettere le lotte a partire dalle immagini, dai volti e dalle immagini, dalle parole e dagli slogan dipinti sui muri di Bogotá, ma anche di Cali, nei quartieri popolari di Siloé, nel Cauca, nel Putumayo, nel Catatumbo. L’arte grafica, raccontava Anita, con il suo nome d’arte di Ana Renata, è stata storicamente uno strumento di lotta e di resistenza, è stata utilizzata nelle università pubbliche, dai sindacati, da molte esperienze e in molti modi in Colombia.

I volti di persone desaparecide o assassinate dalla violenza di Stato e dai paramilitari, le frasi in difesa della vita e della memoria, contro la guerra e il terrorismo di Stato, sono comparsi su decine di muri in diverse città, con la stessa firma e lo stesso impegno sociale e politico: colectivo Dexpierte.

“Crediamo che la memoria è resistenza, è lotta contro l’oblio, e che l’arte sia una forma di comunicazione, per far parlare di una serie di questioni in altri spazi, in modalità molto più accessibili al grande pubblico. Per noi significa sperimentare con l’arte, non siamo artisti ma lavoriamo con tecniche artistiche su carta e su muro perché ci siamo resi conto che questo è uno strumento per veicolare la memoria, perché non sappiamo a quanta gente può arrivare un messaggio su un muro per strada, ma crediamo che possa arrivare a moltissima gente, e che apre la possibilità di discutere, di dibattere, di aprire scenari di contesa per la memoria che ci sembra super importante si dia nello spazio pubblico” racconta Anita.

“Lo spazio pubblico diventa così uno spazio politico, per la gente comune, che così può cominciare a costruire memoria, a partire dalle persone colpite dal conflitto, è la memoria che irrompe nello spazio quotidiano, può durare un giorno, una settimana, un mese, non importa quanto dura il murales che facciamo, quello che importa è l’azione, e piuttosto, se non dura tanto, siamo obbligati a tornare a dipingerlo, a fare ancora memoria, e ancora e ancora, e allora tanto meglio” racconta Ana Maria in una video intervista sull’esperienza del collettivo Dexpierte. Tra i primi interventi murali, il volto di Jaime Garzón, giornalista assassinato dai paramilitari per le sue denunce contro la corruzione e la violenza di Stato, poi la madre indigena con il bambino sulle spalle, i passamontagna zapatisti, le frasi stampate, “Odio su guerra”, “Somos semillas”, “La dignidad no tiene precio”, “Resistir no es aguantar”, “No nacimos para la guerra”, il giaguaro in difesa della terra, contro l’estrattivismo, e ancora colori, parole, ore passate a dipingere, a disegnare, a contendere metro per metro all’oblio e all’impunità i muri delle città.

Dall’università alle strade, fino al Centro per la memoria

A partire dagli studi in Sociologia, all’Università Santo Tomás di Bogotá, la sua fede religiosa, l’incontro con il muralismo, l’arte e il punk, Ana María attraversa e connette mondi, amicizie, esperienze di intimità politica e umana, traiettorie artistica e militante. Con il collettivo Dexpierte e poi al Centro per la Memoria, la Pace e la Riconciliazione, dopo le esperienze nei territori del Catatumbo e del Cauca, tra le terre più colpite dalla violenza del conflitto armato fino ad oggi, Ana María lavora con la memoria viva, come amava chiamare quel progetto di dare voce e protagonismo politico alla possibilità di trasformazione sociale in Colombia.

“La memoria non è qualcosa del passato, la memoria è quello che ognuno di noi fa ogni giorno con quello che ha vissuto nella propria vita” racconta Ana María.

Lo scorso febbraio, in occasione dell’organizzazione di un seminario alla Universidad Nacional de Colombia, siamo andati a trovarla al Centro per la Memoria, la Pace e la Riconciliazione: Anita ci ha accompagnati per una visita dello spazio, condividendo e raccontando le attività portate avanti dal Centro, con l’orgoglio e la passione politica che la spingeva avanti nonostante le mancasse il respiro e il battito del cuore la sfiniva. Un processo politico interessante e all’avanguardia, una istituzione statale che indaga, denuncia e costruisce processi di riparazione e memoria a fronte del conflitto armato e delle responsabilità dello Stato colombiano, sia storicamente che nell’attualità, rispetto ai massacri, alle fosse comuni, alla spoliazione sistematica di terra, diritti, vite umane e non umane. Ma soprattutto, condividendo quella sensibilità umana e politica capace di trasformare l’orrore della violenza e della guerra, il dolore e il terrore in strumenti collettivi di trasformazione, di cura, di amore e di non ripetizione.

Ana María ci accoglie calorosamente all’ingresso dello spazio, ci offre un caffè, per oltre due ore ci accompagna per le sale, i giardini e gli spazi del Centro, ci racconta dell’istallazione che si trova all’entrata del Centro per la memoria, dove vento, luce, acqua e terra provenienti da diverse regioni e territori del paese compongono una variabile combinazione di suoni, luci, colori e correnti d’aria che connettono la memoria e la possibilità di un presente e un futuro diverso, che si sta costruendo in Colombia in questi ultimi anni. Passiamo poi dalla sala con la mappa della memoria delle vittime del conflitto armato, della violenza di Stato e delle persecuzioni di militari e paramilitari contro sindacalisti, studenti, attivisti e attiviste sociali, militanti della Unión Patriótica, organizzazione politica sterminata negli anni ottanta, raccontando dei luoghi, i volti, le storie di tanti uomini e donne che compaiono sulla mappa, con le luci che si accendono e si spengono costruendo geometrie variabili che connettono le origini e le motivazioni, le responsabilità e le traiettorie di vita, di lotta e di morte di decine di uomini e donne. Volti e storie che non dimentichiamo, che grazie al Centro per la Memoria vivono nelle lezioni con le scuole, in chi visita il Centro, nelle attività nei territori con le famiglie e le vittime del conflitto armato e delle violenze di Stato.

Nella sala della biblioteca del Centro, seduti di fronte a una mostra temporanea sulle resistenze indigene nel Cauca, Anita ci offre caffè e aromatica, discutiamo di questa esperienza così intensa e particolare del suo lavoro al Centro per la Memoria. Così la ricorda Sandro Mezzadra, docente dell’Università di Bologna, che quel giorno era con noi: “Ho conosciuto Anita in un giorno di febbraio di quest’anno, mentre ero a Bogotá insieme a Michael per una serie di attività e di incontri. Con Alioscia e Nati, siamo andati al Centro de Memoria Paz y Reconciliación, diretto da Anita. Ci ha accolti e accompagnati, in una visita che non ha avuto nulla di formale. Si percepiva l’amicizia profonda tra Anita e Nati, che in qualche modo ci coinvolgeva e ci rendeva ospiti speciali (o almeno questo ho pensato).

Mi ha colpito la passione con cui Anita ci raccontava del Centro, delle sue attività e del loro significato dal suo punto di vista: una memoria che è parte del presente, che motiva a lottare contro una violenza che non cessa di essere tra noi. Mi è rimasto in mente il modo in cui Anita ha definito il Centro, un archivio vivente, quasi una voluta contraddizione in termini per affrontare le concrete contraddizioni della storia.

Ricordo di avere pensato che mi sarebbe piaciuto rivederla, ascoltarla ancora: il fatto che non sia possibile mi riempie di tristezza. E pensare che la sua morte dipenda dalla negligenza di un’assicurazione sanitaria mi riempie di rabbia”.

Assieme a Sandro, anche Michael Hardt ha partecipato alla visita, e la ricorda con queste parole: “Il Centro por la Memoria Paz y Reconciliación è un’istituzione straordinaria e, chiaramente, Anita ne era il cuore pulsante. Si riconosceva immediatamente il suo talento nel coinvolgere nel Centro diverse popolazioni, compresi i bambini, nonostante la natura oggettivamente difficile della violenza raccontata nelle mostre. Ciò era dovuto, in parte, senza dubbio, al modo in cui la sua sensibilità artistica e le sue esperienze riuscivano a coinvolgere le persone. Ciò che mi ha colpito di più di Anita è stato il modo in cui coniugava una serena generosità d’animo con un implacabile impegno per la giustizia.”

Despideme de la lluvia valiente de cuando sale el sol
Despiedeme de la hierba, y del caracol
despideme de la calle despideme del guetto
de los murales que en la noche dibujamos

Skalariak, Despídeme

Hasta siempre Anita, memoria viva

Nel giardino del Centro per la Memoria, costruito su un’area del vecchio cimitero monumentale di Bogotá, che guarda sulle Ande, sulla panoramica Monserrate, sulle torri e i grattacieli della zona finanziaria, a pochi metri dall’Università Nacional, dall’altro lato dell’immensa arteria metropolitana della Avenida 26, sotto la pioggia infinita di quei mesi, centinaia di persone si sono raccolte, dopo la notizia della sua morte, per renderle omaggio. Nel luogo dove da dieci anni tesseva reti, relazioni, memorie, lotte e conflitti, è stato piantato un albero, con una targa dedicata ad “Ana María Cuesta León, memoria viva”. Accompagnata ancora un’ultima volta con cura e amore, quella cura e quell’amore che lei aveva regalato negli anni della sua vita, in tanti e tante hanno costruito collettivamente un sacro altare laico colmo di foto, affetto, ricordi, parole, foto, immagini, che con centinaia di bigliettini la accompagnano nel suo viaggio oltre la vita. Anita eterna, risuona dappertutto.

“La memoria vince sulla morte” è la frase che accompagna il suo volto sorridente sui poster stampati dagli amici e dalle amiche di una vita, assieme ad una performance che costruisce con la terra, la sabbia, le parole e i colori il ricordo, il nome e la memoria viva di chi ha dedicato alla memoria la sua vita e la sua lotta.

“Chi mi conosce sa che non parlo mai a nome mio, spesso parlo in plurale perché sono cresciuta in un collettivo e sono cresciuta con voi in questo lavoro, questo è di tutti e tutte, grazie per celebrare la vita con me, per me la vita è… è qualcosa che mi affascina, mi piace vivere, amo vivere… e poco tempo fa un amico mi diceva questo, abbiamo avuto la morte così vicina a volte, e nonostante sappiamo che un giorno vincerà, abbiamo ancora la possibilità di giocare, e vogliamo giocarci questa partita fino all’ultimo minuto, per vincerla… e sono felice che voi mi stiate accompagnando in questa partita, salute!”: risuonano queste sue parole di pochi giorni prima, durante il brindisi del suo ultimo compleanno, mentre sulla facciata del palazzo scorre un videomapping in omaggio ad Anita, accompagnato dalla musica, dai suoi disegni, dal suo volto e dal suo sorriso. E con queste sue parole commoventi vogliamo ricordarla, ora e per sempre, eterna Anita. E, per ricordarla e omaggiarla, continuare ad impegnarci in quelle lotte che tanto devono anche a lei, Anita, memoria viva. 

Immagine di copertina e nell’articolo tratte dal videomapping proiettato al Centro per la Memoria. Le altre immagini sono del Collettivo Dexpierte, o grafiche di ricordo e commemorazione di Ana María Cuesta León.

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